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Di golpe in golpe. La controffensiva neoliberista in America latina

di Carlo Formenti

Il “giro a l’izquierda”, la svolta a sinistra innescata dalle grandi mobilitazioni delle etnie andine (in larga maggioranza contadini) fra la fine dei Novanta e i primi anni del Duemila; dall’insurrezione argentina del 2001; dalla rivoluzione venezuelana guidata da Chavez e da una serie di altri movimenti nel subcontinente latinoamericano, sembrava avere avviato un grande esperimento di trasformazione sociale, politica e culturale in quella importante regione del mondo, immensamente ricca di risorse, storia e tradizioni e, al tempo stesso, tormentata da una miseria endemica dovuta in larga parte dallo sfruttamento coloniale e neocoloniale da parte del grande capitale internazionale (in primo luogo nordamericano).

Pur essendosi meritato la definizione di “socialismo del secolo XXI”, quel processo non ha fatto in tempo ad assumere, né sappiamo se avrebbe potuto assumere, il carattere di una trasformazione in senso socialista dell’economia e della società. Al massimo, lo si può definire come il tentativo di sganciare quei Paesi dall’osservanza delle politiche economiche neoliberiste del Washington Consensus, restituendo loro la capacità di avviare processi di sviluppo autocentrati ed emancipati, almeno in parte, dall’egemonia delle multinazionali occidentali.

Obiettivi che sono stati perseguiti attraverso programmi di nazionalizzazione (meno frequenti di quanto si pensi), ma soprattutto di ricontrattazione delle quote di profitto spettanti allo Stato, ma anche con riforme costituzionali che hanno offerto alle classi subalterne l’accesso gratuito ad alcuni servizi pubblici di base (sanità, istruzione, ecc.), nonché un significativo allargamento dei diritti sociali e civili (soprattutto per le masse indigene che ne erano state escluse per secoli).

Tutto ciò è stato possibile grazie alla costruzione di ampi blocchi sociali che hanno integrato comunità contadine, proletariato urbano, movimenti sociali ma anche piccoli e medi imprenditori, lavoratori autonomi e professionisti. Rivoluzioni nazional popolari e democratiche insomma, più che socialiste (anche se leader come Chavez e Morales non hanno mai nascosto di immaginare un futuro socialista per i propri Paesi). Processi rivoluzionari pacifici e rispettosi delle regole democratiche, nel corso dei quali gli unici momenti di conflitto violento sono stati provocati da tentativi di colpi di stato promossi dalle opposizioni di destra sostenute da interferenze straniere (Stati Uniti in primis).

Con il golpe contro Evo Morales (“via il presidente indio” gridano i manifestanti, rivelando le proprie radici razziste e fascisteggianti) si chiude un ciclo di feroci controffensive che hanno visto, fra gli altri eventi, l’arresto dell’ex presidente brasiliano Lula (su mandato di un giudice che è subito dopo entrato a far parte dell’entourage del presidente neofascista Bolsonaro); i ripetuti tentativi di golpe in Venezuela (Paese oggetto di pressioni economiche internazionali di intensità paragonabile al bloqueo contro Cuba); il voltafaccia di Lenin Moreno, convertitosi alle politiche della destra neoliberale subito dopo essere stato eletto come successore di Raphael Correa (l’inspiratore della Revolucion Ciudadana in Ecuador). Il golpe boliviano presenta caratteristiche simili a quelle brasiliane (si parla, anche se la notizia non è ancora confermata, di un ordine di cattura nei suoi confronti) ma anche ai rivolgimenti ecuadoriano e venezuelano, con la mobilitazione e le violenze di piazza della destra. La differenza è che, almeno finora, in Venezuela l’esercito e la polizia sono rimasti fedeli al governo, mentre in Bolivia sembrano appoggiare i golpisti (e qualora si dividessero al loro interno il rischio di guerra civile sarebbe elevato).

Proviamo tuttavia scavare più a fondo. 1) Si è detto che la svolta a sinistra è stata resa possibile dall’integrazione di parte delle borghesie nazionali nel blocco sociale di riferimento. Paradossalmente questo strato sociale, pur essendo stato il primo beneficiario delle politiche economiche post neoliberiste, è proprio quello che ha cambiato orientamento, sia perché il benessere raggiunto negli anni passati ne ha accresciuto le pretese, sia perché la crisi minaccia di vanificarle. 2) Si è detto anche che si è trattato di riforme politiche più che di rivoluzionamenti della struttura profonda della società e dello Stato. Ciò fa sì che il potere di media e grandi imprese private sia rimasto intatto e che magistratura, burocrazia e corpi militari mantengano in larga misura la composizione e l’orientamento ideologico che avevano nei regimi precedenti, con tutto ciò che ne consegue. Detto altrimenti: queste rivoluzioni hanno creato situazioni di dualismo di potere che, come la storia insegna, non possono durare all’infinito e che, nei momenti di crisi, regalano vantaggi al vecchio potere, forte delle sue competenze, risorse economiche, rapporti internazionali, forza militare, monopolio sulle informazioni, ecc. rispetto a un nuovo potere che non ha avuto il tempo di mettere radici e consolidarsi. Tutto è perduto quindi? No perché l’esito della crisi boliviana non è ancora scritto, il Venezuela continua a resistere, il voto popolare argentino ha rispedito a casa il presidente liberista, Lula è uscito di prigione e il popolo cileno è in rivolta. La grande svolta di inizio secolo ha subito un duro contraccolpo, ma la partita è ancora aperta e tutta da giocare.

Aggiungo solo una piccola nota: mentre Corbyn, Iglesias e Mélenchon hanno duramente condannato il golpe boliviano, le sinistre italiche vecchie e nuove si segnalano per lo stesso silenzio imbarazzato (se non per gli applausi al “ritorno della democrazia”) con cui hanno accolto il tentato golpe in Venezuela, terrorizzate all’idea di poter essere accusate di veterocomunismo.

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