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Indagine sul fuoco che viene

di Donatella Di Cesare

ITINERARI CRITICI. Un’anticipazione dal volume «Il tempo della rivolta», in libreria per Bollati Boringhieri dal 22 ottobre. Che sia Portland o Bagdad, Algeri o Barcellona l’esplosione della collera è un sintomo, un richiamo. Ma a differenza dei moti del passato non è semplice far emergere un’aspirazione comune in quanto accade. Le cosmogonie sul senso della storia non fanno più presa e non danno voce ai nuovi antagonismi. Stavolta lo Stato è visto con gli occhi di chi è lasciato fuori o di chi si chiama fuori

Quel che colpisce nelle rivolte attuali è la grande frammentarietà; sembra arduo persino raggiungere una visione d’insieme. Se l’estensione mondiale è certa, sarà altrettanto certo che si tratti del medesimo fenomeno? Non sarà una forzatura ricorrere allo stesso nome per indicare situazioni disparate? Tanto più che, a differenza dei moti del passato, non è semplice far emergere un’aspirazione comune. Se gli insorti del 1848 miravano alla libertà e alla repubblica, se i rivoluzionari del 1917 erano guidati dall’ideale novecentesco del comunismo, se coloro che scesero in piazza negli anni Sessanta e Settanta pensavano che presto un altro mondo sarebbe stato possibile, che cosa unisce le rivolte del XXI secolo?

SI PUÒ INSISTERE sulle dissomiglianze, su modalità e propositi discordanti: alcune rivolte sono episodiche, altre ricorrenti, alcune sembrano timidamente accennate, altre apertamente sovversive. Ma una particolarizzazione delle rivolte, che rifiuti di considerarle articolazioni di un movimento globale, finisce per avallare aprioristicamente la difesa dello status quo. Tutto sarebbe a posto – solo qui e là affiorerebbe qualche problema marginale.

Per indicare i complicati nessi tra le rivolte, le affinità mobili, i movimenti discontinui, le corrispondenze imponderabili, è opportuno forse parlare di costellazione. D’un tratto nel cielo notturno si raccolgono stelle lontane, scintille disperse, prima sottratte alla vista. Nell’inedita disposizione anche le stelle minori assumono valore, mentre si staglia una reciproca appartenenza altrimenti nascosta. Manca un nesso casuale, una direzione lineare e anche solo la parvenza di un inizio. La costellazione è senza un’arché, anarchica e sovversiva, esito fluido di una mobilitazione improvvisa che ha squarciato l’omogeneità delle tenebre. In quella simultaneità inattesa le singole luci s’intensificano, s’illuminano a vicenda, sembrano convergere in un punto focale. La congiuntura appare allora una prefigurazione allegorica.

NON STUPISCE che Benjamin sia ricorso all’immagine della costellazione per far implodere le architettoniche monumentali dei vincitori: è il modo di recuperare ciò che è stato rimosso, screditato, irriso. Quel che non è assurto alla dignità della storia spezza il flusso del divenire. Ma come le stelle si spengono, tornando allo spazio impenetrabile, così le rivolte possono dissolversi nel fondo abissale della storia. Quell’arresto fulmineo, quasi una conflagrazione simultanea, è il qui e ora dell’attualità che potrebbe sfuggire senza una lettura tempestiva. Urge perciò uno sguardo notturno al cielo della storia che trattenga le rivolte, le rammemori e le riscatti nella loro carica dissolutiva e salvifica.

Tentare di rinvenire i tratti comuni delle rivolte che costellano l’universo contemporaneo, senza perderne di vista l’inclinazione locale, significa accogliere una duplice sfida. La prima sta nel cercarne se non il filo rosso, almeno la corda sottesa, la cui unità è garantita dal soprapporsi e intrecciarsi di tante fibre. La seconda consiste nel focalizzare l’attenzione sulla cinetica rivoluzionaria dove la rivolta occupa un posto tanto importante quanto enigmatico.

NELLA CRONACA UFFICIALE la rivolta è relegata al margine. Se supera la censura, viene spettacolarizzata ed esibita nella sua trasgressiva oscurità. Accede allo schermo solo quando lo impongono gravità, urgenza, dimensioni. E tuttavia, ipervisibile e sovraesposta, resta comunque condannata all’insensatezza. Cortei, raduni, folle in piazza e – in un crescendo – colonne di fumo, vetrine infrante, auto e cassonetti in fiamme. Che sia Portland o Bagdad, Atene o Algeri, Santiago o Barcellona, dalle immagini affiora per lo più il disordine. E dal disordine si pretende di desumere la confusione di un evento caotico e inafferrabile. Di qui la scarsezza di riflessioni sul tema della rivolta che, pure, scandisce ormai la quotidianità.

Se la cronaca ne offre un quadro offuscato e fosco, assecondando la reprimenda pubblica e favorendo l’amnesia interpretativa, è perché la rivolta eccede la logica della politica istituzionale. Essere «fuori» non vuol dire, però, essere politicamente irrilevante. Sta qui, anzi, il potenziale della rivolta, che tenta di inoltrarsi nello spazio pubblico per sfidare sul suo terreno la governance politica. Non stupisce che la versione mediatico-istituzionale la releghi ai margini, la sminuisca nella sua portata, la proscriva dall’ordine del giorno, la riduca a fenomeno spettrale. La rivolta appare così un’ombra inquietante che si aggira intorno ai confini sorvegliati dell’attualità ufficiale.

Occorre perciò mutare prospettiva guardando alla rivolta non dall’interno, cioè dall’ordine statocentrico, bensì da quel «fuori» in cui si situa. Come non è un fenomeno trascurabile, così la rivolta non è il residuo di un passato arcaico, caotico e turbinoso, che il progresso, nella sua linearità, avrebbe affinato e superato. Non è anacronistica, ma anacronica, perché scaturisce da un’esperienza altra del tempo.

DIMENSIONE PECULIARE del disordine mondiale, la rivolta offre la chiave di lettura di un’epoca sempre più indecifrabile. L’esplosione della collera non è un fulmine a ciel sereno, ma un sintomo, un richiamo. Se la rivolta parla dell’oggi, che cosa dice? Come si può, come si deve interpretare? I criteri della modernità, che potevano forse prima essere efficaci, non sembrano più validi. Le cosmogonie sul senso della storia, le dialettiche totalizzanti, non fanno più presa e lasciano fuori, insondati e impenetrabili, i nuovi antagonismi politici.

Connessa a tali domande è la questione del rapporto con la politica. La rivolta contemporanea è considerata in genere pre-politica, se non addirittura proto-politica, perché incapace, sia per immaturità, sia per una sorta di infanzia della parola, di formulare rivendicazioni autentiche e di articolarsi in un progetto. Sarebbe allora impolitica, se con ciò si intende la difficoltà di entrare nello spazio politico istituzionale. In tal senso, però, dall’opposta angolazione potrebbe piuttosto dirsi iper-politica.

A BEN GUARDARE il rapporto della rivolta contemporanea con la politica non è solo provocatorio e conflittuale. L’attuale spazio politico è circoscritto dai confini dello Stato. Tutto quel che accade viene osservato e giudicato entro tali confini. La modernità degli ultimi due secoli ha fatto dello Stato il mezzo indispensabile e il fine supremo di ogni politica. L’ordine che regna è statocentrico. L’indiscussa sovranità dello Stato è sempre ancora il criterio che traccia i limiti e disegna la mappa dell’attuale paesaggio geopolitico. Ciò ha prodotto una separazione tra la sfera interna, sottoposta al potere sovrano, e quella esterna, consegnata all’anarchia. Questa fortunata dicotomia ha introdotto un giudizio di valore fra dentro e fuori, civiltà e inciviltà, regola e sregolatezza, ordine e caos. La sovranità statuale si è imposta come sola condizione dell’ordine, unica alternativa all’anarchia, screditata come mancanza di governo, confusione che imperversa nel fuori illimitato. La globalizzazione ha cominciato a minare la dicotomia tra sovranità e anarchia facendo affiorare tutti i limiti di una politica ancorata alle frontiere tradizionali. Se l’epicentro del nuovo disordine globale resta lo Stato, il paesaggio oltre confine si va popolando di altri protagonisti. Nuovi fenomeni, come le migrazioni, dischiudono uno squarcio, lasciano intravvedere ciò che accade fuori, spingono a prendere congedo da quella dicotomia, assumendo una prospettiva esterna.

IN MODO ANALOGO la rivolta si situa oltre la sovranità, nell’aperto da sempre consegnato all’anarchia. Quest’aperto va inteso non solo come spazio tra un confine e l’altro, ma anche come fessura, spiraglio nello scenario interno. La rivolta mostra lo Stato dalla finestra dei quartieri periferici, la fa vedere con gli occhi di chi è lasciato fuori o di chi si chiama fuori. Si capisce perché la politica statuale, coadiuvata dal racconto mediatico, punti a renderla oscura e marginale. Ne va infatti non solo, e non tanto, della singola rivendicazione, della richiesta contingente. La rivolta giunge a mettere in questione lo Stato. Che sia democratico o dispotico, laico o religioso – ne porta alla luce la violenza, ne destituisce la sovranità.

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Comments

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Giacomo T.
Thursday, 29 October 2020 16:54
Direi, Renato, che nel fondo K. Raveli riapre un nuovo contesto di conricerca superando però le chiusure ideologiche marxiste – e forse in Effimera ne sanno qualcosa pure loro – che hanno fatto del grande di Treviri una specie di divinità, nella buona tradizione monoteista dell’inconscio collettivo europeo, od occidentale, dominato cioè fino in fondo più che dal proprio Capitale, dall’etica ed estetica della possessione privata, individuale, monogamica, ereditaria e tutte la altre patologie che si sono sviluppate dal neolitico fino ad oggi rompendo la natura umana del vivere i beni comuni fino in fondo. Patologia patriarcale in primo luogo, come proprio Raveli propone in un articolo precedente qui in Sinistrainrete.
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renato
Saturday, 24 October 2020 18:31
Alfredo Ho finito ora di leggere "Affrontiamo un autentico cambio di paradigma" di K. Raveli. Dovro' rileggerlo attentamente piu' tutti gli altri suoi scritti. Ho lavorato per 43 anni in fabbrica (quasi del soggetto , ma dell'individuo si, basta e avanza niente...) sono molto pratico purtroppo . cioè , non ho ancora capito come ne usciamo da questo abbraccio , innamoramento ipnotico mortale, se non con lotte rivoluzionarie nel senso piu totale del termine. Ripeto ho ricominciato a studiare, qualcosa di nuovo probabile che mi sfugga. (anzi quasi tutto). La conricerca pero me la ricordo e secondo me non è passata , anzi occorre discuterne non per elevarsi nei cieli della politica, ma dare il giro alla baracca.
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Alfredo
Saturday, 24 October 2020 17:31
Si, Renato. Io son giunto qui passando da un altro articolo pubblicato giorni fa: 'Affrontiamo un autentico cambio di paradigma' (https://sinistrainrete.info/neoliberismo/18865-karlo-raveli-affrontiamo-un-autentico-cambio-di-paradigma.html#comments) che apre - meglio: riapre - il senso della parola 'comunismo'. Per uscire una buona volta, dopo il fallimento sovietico e maoista, dalla civiltà degli "uomini della merce". Come ci denomina Davi Kopenava, gran saggio amazzonico, della nazione ianomani.
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renato
Saturday, 24 October 2020 17:07
Nuovi anni 70 alla ribalta? e senza saperlo? ma suvvia torniamo dalle costellazioni alla nuda faccenda della proprietà dei mezzi di produzione sociali e privati, alla secca vecchia storia del controllo del capitale a distanza lontana e ravvicinata, al potere del valore e della merce sul lavoro, alla schiavitu' del modello consumistico distruttivo. Io vedo poco questi temi all'ordine del giorno nelle varie rivolte , forse qualche eco in sudamerica e nei vari scioperi per un salario piu dignitoso in america del nord e dai lavoratori precari in bicicletta . Ma sul resto il dominio della merce e sulla merce forza lavoro, siamo ritornati all'ottocento di Carletto e alle filande dell'inghilterra. Con tutta la buona volontà di ricercare l'ambivalenza e la dialettica...c'è sempre stata la differenza tra rivolte (contadine e sociali) e moti rivoluzionari , compreso il decennio dell'orda d'oro 1968 1979). Interconnessione e durata significano potenziamento della nostra alternativa, se mancano , tutto ritorna al lunedi , alla sveglia , al fine mese , ai debiti , all'occupazione dei dati istat e alle magre pensioni.Capitale e stato (non piu' sociale) dormono sonni tranquilli, noi no.
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Eros Barone
Friday, 23 October 2020 19:43
Mah, questo articolo mi sembra, sia detto con il dovuto rispetto verso chi lo ha scritto, il delirio di un allucinato. Negli antichi scritti filosofico-religiosi indiani si afferma giustamente che "il fuoco non brucia se stesso", mentre qui si compie, tra rivolta sovranità e anarchia, il miracolo autogeno, per un verso onanista e per un altro verso surrealista, di un fuoco che brucia se stesso. Cose dell'altro mondo...
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Agnese
Friday, 23 October 2020 17:18
Ma allora c’è speranza anche per l'Italia che le sinistre si sveglino una buona volta. Grazie Donatella. Togliamo alle destre l’impulso della critica sull’offensiva sistemica medico-farmaceutica! Forse su questo ricco seminato i tempi di rivolta potranno avvicinarsi prima del previsto!
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turi palidda
Thursday, 22 October 2020 16:37
O T T I M O
brava!
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Sergio A. F.
Wednesday, 21 October 2020 17:48
Questo stupendo testo, già segnalato qui sotto in un recente commento di “Apriamo autentico cambio di paradigma” di Karlo Raveli, mi pare che potrebbe permetterci di ritrovare proprio attualmente sotto questo tremendo montaggio pandemico, ma nelle diversità di ogni territorio, una nuova profondità e dimensione del ‘noi’ come soggetti collettivamente dinamici, per poter uscire una buona volta dal sempre più degenerato ‘modo di produzione’ materiale e immateriale dominante. Che ci vuole sempre più schiavi, in vantaggio di minoranze squilibrate sempre più possidenti.
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