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Lo stato dell'economia Usa: dati e prospettive

di Giacomo Gabellini

Nel mese di marzo, l’economia statunitense ha creato circa 236.000 posti di lavoro. Un dato giudicato incoraggiante dalle autorità statunitensi, perché anche se inferiore a quello registrato nei due mesi precedenti (circa 311.000 nuovi posti di lavoro generati a febbraio e 504.000 a marzo) determina comunque una compressione del tasso di disoccupazione su base mensile (dal 3,6 al 3,5%) e si accompagna a una lieve risalita della produzione industriale.

Gli esperti non si stancano mai di ricordare che l’apparato economico Usa necessita di non meno di 100.000 nuovi posti di lavoro ogni mese per stare al passo con l’incremento della forza lavoro, giunta ad annoverare oltre 266 milioni di persone e a registrare un tasso di partecipazione alla crescita economica del Paese del 62,6%.

Dati praticamente analoghi si registrarono anche un quarantennio fa, quando il tasso di partecipazione si attestava stabilmente tra il 62 e il 63%. Ma con due importanti differenze rispetto ad allora: in primo luogo, è notevolmente aumentata la partecipazione delle donne a fronte di una continua contrazione di quella degli uomini. Secondariamente, il tasso di disoccupazione di allora era al 6,7%.

Segno che, in confronto ad allora, sono aumentati i cosiddetti “inattivi”, vale a dire coloro i quali non cercano lavoro pur essendo in età lavorativa. Attualmente, la categoria in questione riunisce quasi 96 milioni di persone, a cui vanno ad affiancarsi 6 milioni di sottoccupati.

Naturalmente, un contributo all’incremento del tasso di inattività viene dall’aumento di coloro che proseguono gli studi, ma il fenomeno ha assunto dimensioni tali da non poter essere spiegato con il semplice manifestarsi di tendenze congiunturali come questa. Il numero totale degli inattivi è infatti rimasto sostanzialmente stabile per tutti gli anni ’80 e ’90, salvo poi crescere assai rapidamente a partire dal nuovo millennio. Nel dettaglio, tra il 1980 e il 2000, il tasso di inattività è rimasto invariato a fronte di un aumento della popolazione in età lavorativa di circa 40 milioni di unità. Nel ventennio successivo, la popolazione in età lavorativa – aumentata di oltre 20 milioni di unità – è cresciuta di un ammontare praticamente identico rispetto al numero degli inattivi, passati da 56 a 76 milioni.

Non essendo entrati nella forza lavoro, questi inattivi non vengono conteggiati né nel computo degli occupati né in quello dei disoccupati. Il che spiega come mai il tasso di disoccupazione calcolato attualmente risulti molto più basso rispetto alla fine degli anni ’70, quando gli inattivi superavano di poco la soglia delle 50 milioni di unità.

La ripresa del mercato del lavoro statunitense tende quindi ad accompagnarsi a un elevato livello di inattività, e di conseguenza a un basso tasso di partecipazione. Il problema tende quindi a spostarsi sul terreno della produttività, come avvalorato dal fatto che il tasso di crescita del Pil pro capite per lavoratore è crollato ai livelli registrati a inizio anni ’80. Il che potrebbe concorrere – di concerto con la crescita continua del comparto dei servizi, che per sua natura intensifica le pressioni alla precarizzazione – a spiegare il ristagno dei salari statunitensi, che faticano sempre più a seguire il passo del costo della vita.

Tra il 2021 e il 2022, il potere di acquisto negli Stati Uniti reali ha registrato un crollo verticale perché l’inflazione è cresciuta molto di più dei salari nominali nonostante il progressivo rialzo dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve. Il quale ha prodotto un drastico incremento degli oneri debitori a carico delle famiglie, con conseguente erosione dei redditi già falcidiati dall’aumento generalizzato dei prezzi. La combinazione tra i due fenomeno comporta conseguenze particolarmente insidiose, perché destinata inesorabilmente ad intaccare i consumi, che, in un Paese come gli Stati Uniti, pesano per il 70-75% del Pil.

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