Teologia-politica mondiale
di Nicola Licciardello
Due articoli recenti1 sollecitano a intervenire su un tema enorme: è oggi possibile (e necessaria) una rifondazione teologica dell’azione politica? Per entrambi la risposta (come la domanda) è rivolta dall’Occidente a se stesso, considerandosi tuttora asse intorno cui ruota il resto del mondo. Prima di affrontare la discussione sull’assunto, vediamo una traccia dei due articoli.
Fassina opportunamente cita l’imprescindibile Emmanuel Todd sul nihilismo europeo (La disfatta dell’occidente, 2024), per poi analizzare il libro di Eugenio Mazzarella Contro l’Occidente, Trascendenza e politica, ove si richiama il paolino “essere nel mondo ma non del mondo” (Giov 15, 18-21), giungendo infine a ‘giustificare’ ogni presente orrore, ma a ri-eleggere il cristianesimo quale chiave per il superamento del primato occidentale “in cooperazione e non in conflitto con gli altri grandi spazi di civilizzazione: confuciano, induista, islamico”.
Sabatino d’altra parte, citando il suo Cristo in politica: per un’allegra rivoluzione, sottolinea la “perversa interpretazione del messaggio giudaico-cristiano-evangelico” alla base del colonialismo predatorio, quando invece sarebbe strutturale la “visione antropologica cristiana: tutto è cristiano in Occidente: dalla Giustizia alla Sanità, dalla Cultura alla Costituzione… Caritas, Fraternitas, Aequalitas, Gratia fondano tutta la politica moderna, da Hobbes a Robespierre, da Hegel a Gramsci”. E già che c’è, coopta persino Nietzsche: “La crisi non è più morale, ma – come aveva intuito Nietzsche – è spirituale.”
Ma se tutto questo è vero, il rimedio è un po’ come togliere i chiodi col martello – forse talvolta possibile, però poco utile. Riproporre come terapia l’origine di una patologia ricorda il metodo omeopatico, la cui chiave sta nel dosaggio minimo, non è questo il caso. I due ragionamenti sono manifestamente riaffermazioni dello spirito dell’occidente: ma se tutto qui è cristiano, lo sono anche le crociate, la caccia alle streghe, le più sanguinose guerre fratricide, e innanzitutto il colonialismo. Certo, è possibile estrapolare un carattere, un genoma dell’organismo, e lavorare con esso, ma allora il problema diventa l’ingegneria genetica di un nuovo sincretismo spirituale (sempre avversato dalla Chiesa) capace di dosare, meglio che le credenze, le metodologie antropologiche di varie culture –tenendo conto poi del peso delle popolazioni: tutto il senescente Occidente, visto che Centro e Sudamerica sono “etnici” e non bianchi, è 800 milioni, appena il 10 % dell’umanità.
Dunque, a titolo di esempio, è interessante che la Cina non abbia tradizioni religiose al modo occidentale, ma che la saggezza pratica di un Lao Tsu o di un Confucio venga tuttora consultata da Xi Jin Pin: ciò potrebbe suggerire ai nostri decisori un’analoga consultazione del pensiero classico, cinico-stoico-epicureo… E così per l’Islam, e persino per l’Induismo. Generalizzando, persino dal punto di vista finanziario, se gli interessi nazionali virassero dalle contrapposizioni ereditarie alle potenzialità socio-ecologiche, potrebbero nascere sinergie insospettate, condividendo antiche soluzioni tecniche, per esempio idrauliche, rivivrebbero usi e linguaggi. Non possiamo dimenticare che i nostri numeri vengono da quelli arabi, e prima indiani (lo zero dallo śunyata, “vuoto” sanscrito), o che lo yoga e le arti marziali, in occidente praticati come fitness, in oriente avevano una levità spirituale. Ne vediamo incredibili esiti nelle soluzioni iperleggere (dai ponti, ai treni magnetici, alla AI) trovate nella Cina contemporanea.
Piuttosto viene da pensare che il terrore, l’attuale paralisi dell’occidente, manifesta nel suo paranoico alfiere americano e nel suo fuorilegge israeliano, non provenga soltanto dalla macroscopica crisi politico-economica, ma più ancora dall’oscura profezia giudaico-apocalittica, che nemmeno il recentemente riscoperto “Marx verde” riuscì pienamente a esorcizzare… A livello macrofisico qui appare la formidabile difficoltà di un dialogo fra la religione del Tempo, chiuso fra la creazione e la fine (Big Bang e Morte Termica), e la varietà d’ipotesi di un universo ciclico2, presenti in ogni cultura fin dalle più remote età – eccetto quella ebraico-cristiana.
Questa sorta di anomalia metafisica è la radice ineliminabile della nostra cultura, il problema dell’Occidente. L’impossibilità di un dialogo profondo con le altre culture. Appare nel nesso inestricabile che l’hegeliana Fenomenologia dello Spirito ha con la Rivelazione di San Paolo. Se il katekhon è ciò che ritarda l’éscathon - la cosa ultima o fine dei tempi - l’ebreo Paolo si sente vicino ad essa, perché la risurrezione dei morti appare iniziata in Cristo. Ma visto che la fine per tutti non arriva, Paolo nella 2a Lettera ai Tessalonicesi spiega che s’allunga finché si riveli l’Avversario, cioè l’Anticristo. Un tempo improprio: pregare che sia benigno e allontani sempre più la sua fine. E così il katechon si va identificando con la catastrofe che esso stesso trattiene: l’Inquisitore di Dostoevskij non crede più alla Redenzione, ed Epimeteo “vede in ritardo”. Siamo condannati fra due tempi, in balia dell’Anticristo, evocato da Solove’v. Perciò Hegel chiama la modernità “immane potenza del negativo”, o morte: solo dopo il Venerdì santo può avvenire la Risurrezione, la Libertà, l’Intuizione o “sapere assoluto” dello Spirito. Ma i Tempi sono incalcolabili, metafisici e paradossi. Ora “vediamo come in uno specchio, ma vedremo faccia a faccia” (Paolo). La teologia cristiana, dice Hegel, è quella forza magica che volge il negativo nell’essere, e annuncia se stessa come Storia compiuta mentre deve ancora avverarsi, potendo così solo esser creduta.
L’ineludibile fascino di queste formule3 condanna all’isolamento la metafisica giudaica, e con essa l’Occidente. Solo scendendo sul piano della saggezza storica può iniziare il dialogo davvero universale – così come il paradosso della fisica quantistica, in cui la particella è reale solo dopo che ‘ha deciso’ da che parte andare.