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volerelaluna

Per un bilancio critico del neoliberismo

di Salvatore Bianco

neoliberismo jacobin italia.jpgTramite una vera e propria rivoluzione politica e sociale, sia pure apparentemente incruenta, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso si è affermata una nuova visione generale del mondo sulle già travagliate società occidentali. Essa ha demolito in un decennio, o poco più, lo Stato sociale keynesiano, egemonico nel trentennio precedente, i cosiddetti «trenta gloriosi» (1945-1975), istituendo via via, in forme sempre più compiute, una «sovranità globale di mercato» (C. Galli, Sovranità, Il Mulino, 2019, p. 111). Come sempre, sono le contingenze storiche che si incaricano di propiziare quello che è risultato essere un sommovimento venuto e voluto «dall’alto», da parte dei gruppi economicamente e politicamente dominanti, in evidente stato confusionale perché mai prima di allora sfidati dai «subalterni», al termine del ciclo storico di lotte, quello degli anni Sessanta, forse più favorevole in termini di acquisizioni di diritti sociali e di libertà individuali. Quella che è stata con ogni evidenza una controffensiva scatenata «dall’alto» contro «il basso» e che sta proseguendo tuttora, il grande sociologo e studioso Luciano Gallino ha molto opportunamente riassunto nella nota formula della «lotta di classe dopo la lotta di classe» (La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, 2012, pp. 11-12). In pratica, nei primi anni Settanta il capitalismo occidentale vive la sua crisi più drammatica, che corrisponde a un crollo del saggio di profitto e a una fase economica di prolungata stagnazione nella crescita e, inoltre, a una simultanea esplosione incontrollata dei prezzi – quello che nei manuali di economia è ricordato come il fenomeno della «stagflazione». Tra i fattori scatenanti di quella che si presenta come una tempesta perfetta, sicuramente va annoverata la sciagurata e interminabile guerra in Vietnam, con tutto il suo strascico di squilibri finanziari conseguenti, dovuti agli incontrollati quantitativi di dollari stampati e immessi nel sistema valutario per fare fronte alle sempre più ingenti necessità militari.

A seguito della svolta contro le politiche economiche keynesiane, elaborata nel 1975 dalla Trilateral come denuncia di «un eccesso di democrazia» e strategia di fuoriuscita dalla crisi e rilancio dei profitti, la nuova visione economica che prende campo è impostata non più sull’obiettivo strategico della massima occupazione, ma su quello del contenimento spasmodico dell’inflazione, che effettivamente era esplosa a seguito della grave crisi petrolifera del ’73. Lo scopo diventa, secondo la più tipica logica del conflitto capitale-lavoro, quello di ricostituire e ampliare il «tasso naturale» di disoccupazione, di cui abbiamo ancora traccia nel molto più tardo Trattato di Lisbona (2007), esempio fulgido in ambito Ue della variante «ordoliberale» del sistema neoliberista trionfante. Lo sviluppo economico, in base a questo nuovo paradigma via via dilagante, è inteso come una oggettività, matematicamente misurabile e dimostrabile – tanto che in luogo della parola economia si inizia a usare di preferenza quella di «econometria» (per segnalare la sua stretta parentela con la matematica e la statistica, più che con la politica), con una sua propria logica interna di equilibrio nella formazione dei prezzi e allocazione di merci e capitali: liberi questi ultimi di muoversi per ottimizzare i profitti e «delocalizzare» la produzione di preferenza nel Sud del mondo. Quella che è stata anche, a tutti gli effetti, una potente narrazione ha preteso la neutralizzazione di ogni interferenza esterna, a cominciare dalla dimensione politica, a cui per sopravvivere non è rimasto che uniformarsi alle esigenze crescenti del mercato.

Al soggetto umano, invece, ridotto sul piano antropologico ad agente razionale calcolante il proprio utile in competizione furibonda con gli altri, per giunta in un mondo segnato da permanente scarsità, non restava che adattarsi a quell’«ordine spontaneo» destinale coincidente con il mercato e le sue necessità, secondo l’orientamento dominante di uno dei massimi esponenti della «scuola austriaca» di economia, Friedrich von Hayek. Per Hayek, vincitore nel ’74 del Nobel in economia, maestro di quel Milton Friedman capostipite, a sua volta, della «scuola di Chicago» (sperimentatore nel Cile di Pinochet del «neoliberismo autoritario»), il concetto di «giustizia sociale» è privo di significato e addirittura pericoloso, da smobilitare al pari di partiti, sindacati e Stato sociale, portatori sin dal nome di interessi di parte e dunque antitetici all’oggettività asettica del fatto economico che si pretende di affermare. In quella sua preferenza per un «dittatore liberista» anziché per «un governo democratico privo di liberismo», si racchiude tutta la carica eversiva futura del neoliberismo, contro i principi costituzionali e gli ordinamenti democratici. Del resto Hayek, sin dal 1944 nel suo libro Verso la schiavitù, presenta la tesi alquanto sorprendente secondo la quale la dottrina socialista di per sé sarebbe alla base di ogni forma di autoritarismo politico, nazifascismo compreso.

In realtà, quello tratteggiato da Hayek, è un ordine a sua volta intrinsecamente e terribilmente noioso e ripetitivo, scandito dalla riduzione sistematica della concreta e variopinta molteplicità qualitativa delle cose nel calcolo solo quantitativo e univoco del denaro, egualitario solo in apparenza. Scrive in proposito Anselm Jappe: «per trasformare ogni somma di denaro in una somma più grande, il capitalismo neoliberista consuma il mondo intero – sul piano sociale, ecologico, estetico, etico. Dietro la merce e il suo feticismo si nasconde una vera e propria pulsione di morte, una tendenza, incosciente ma potente, verso l’annientamento del mondo» (A. Jappe, Il gatto, il topo, la cultura e l’economia, 14 aprile 2021). I processi storici in corso parrebbero avvalorare questa sua ultima affermazione.

Ma il colpo di genio del neoliberismo, giocato soprattutto sul piano ideologico e «sovrastrutturale», è consistito nell’istigare il singolo individuo – fatto passare per un «superuomo» quanto meno in potenza – contro il peso parassitario dei partiti e dello Stato, facendo leva su una delle due radici di cui si nutre da sempre la mentalità occidentale: la libertà. Sia pure svilita in una declinazione solo economica, in chiave per giunta ultra-individualistica, questo è bastato a mobilitare le ingenti riserve di energie vitali da sempre presenti nelle nostre società. Tale è la forza magnetica di quel principio (la libertà), che è bastato solo sbandierarlo, da parte della classe dominante, per suscitare entusiasmo, specie nelle giovani generazioni già per proprio conto mobilitate, sul finire degli anni Sessanta, in chiave genuinamente antiautoritaria. Il punto cieco di questa ideologia, che mortificava la dimensione relazionale ed egualitaria, pur presente nell’immaginario occidentale, non ha tardato a palesarsi già alla metà degli anni Ottanta, perlomeno ai piani alti della critica più avvertita, come nel caso di Fredric Jameson (Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, 1984). Ben presto ci si è accorti, a proprie spese, che non c’è alcuna provvidenziale «mano invisibile» che ricompone per magia gli interessi contrapposti tra classi e ceti sociali, tanto più densi e concentrati in alto quanto più polverizzati e dispersi in basso. La società ridotta a giungla, per effetto del combinato disposto di meritocrazia, valutazione e concorrenza sfrenata, ha cominciato a lasciare sul campo sempre più morti, feriti e la depressione come patologia sociale di massa. Ancora, l’imperativo categorico della crescita illimitata ha dimostrato empiricamente e precocemente che inquina, surriscalda il clima, distrugge la biodiversità e le risorse naturali; altrimenti detto, non è «compatibile» con l’ecosistema biologico.

A scoprire e denunciare l’arcano, che a vincere è sempre e solo il più potente e il più ricco di turno, ha contribuito, come fatto cenno, l’altra «vecchia talpa», accanto alla libertà, della nostra civiltà occidentale: l’uguaglianza. Per la verità, essa non sempre è agita sul piano sociale e politico come il suo potenziale mobilitante e antagonistico consentirebbe. Si potrebbe anzi affermare che alla disfatta epocale delle «classi subalterne» abbia contribuito sul piano ideologico e simbolico la progressiva perdita di centralità del costrutto egualitario e l’espropriazione subita della libertà, da parte dei gruppi dominanti, da subito orribilmente sfigurata ed edulcorata nella sola libertà economica dei «valori di scambio».

Ora, proviamo a tracciare in forma sintetica un profilo di questa società neoliberista, che dall’avere un mercato è divenuta integralmente di mercato – che è poi la società in cui attualmente annaspiamo. Una società di soli individui isolati e sradicati, senza partiti e senza più alcuna classe o ceto di riferimento, alla mercé dei colossi privati del web, che estraggono valore con le informazioni che noi in automatico forniamo, il cui accesso è gratuito perché la merce in vendita siamo noi stessi, contribuendo così a nostra insaputa a edificare, mattone dopo mattone, una «società del controllo e della sorveglianza» (S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, 2023). Tutto ciò accade come in un incubo. Con un lavoro e delle attività che non è quasi più in nostro potere selezionare, in barba ai dettami costituzionali, ma che vengono imposte dall’alto, in base a quel che vuole il mercato: un turbinio continuo di opportunità fasulle e di lavoretti squallidi, rivestiti propagandisticamente di un alone eroico e avventuroso (gig economy), tutti in «formazione permanente» per puntellare le competenze (skills) e allenarci, come mastini, al combattimento giornaliero. Con le nostre stesse vite nel loro insieme svalutate ed offese: spezzate in frammenti e trattate come merce di scarto.

Certo, la perdita di egemonia del neoliberismo è sotto gli occhi di tutti e risale a ben prima dell’esplosione pandemica e alle guerre tuttora in corso: dice definitivamente che «il re è nudo»; ma questa perdita ha solo trasformato i «dirigenti» in «dominanti», per dirla sempre con le grammatiche gramsciane, senza intaccare il meccanismo sociale riproduttivo di fondo, che rimane imperniato su di una società scomposta in individui atomizzati e su di «un’economia di mercato altamente competitiva» (sempre Trattato di Lisbona). E la comunicazione, in un quadro crepuscolare di crisi di legittimità democratica senza precedenti, acquisisce centralità strategica, dovendo supplire alla mancanza di consenso sociale e divenendo in un certo senso l’essenza apparente del neoliberismo. E, dunque, in via preliminare occorrerebbe sottoporre a critica feroce le forme attuali del comunicare, da parte di un soggetto collettivo consapevole di sé; ma guarda caso proprio la politica è rappresentata da quella stessa potenza di fuoco mediatica come moneta fuori corso. Resta in piedi saldamente solo «l’ordine del discorso economico», continuamente rilanciato come un dettato ipnotico a reti unificate, che squalifica sul nascere verità alternative col marchio di infamia della non oggettività o peggio di cospirazione con il nemico, che vengono poi fatte degradare a rumore di fondo, contribuendo così solo a saturare lo spazio comunicativo. Di quella verità dialogica, di quella «cultura della convivenza» (G. Segre, La cultura della convivenza. Di cosa parliamo quando parliamo di politica, Bollati Boringhieri, 2024), vanto un tempo del pensiero critico occidentale europeo, con un forte impulso umanistico al proprio interno, pare si sia perso, nel presente, addirittura il ricordo. Parafrasando e attualizzando Marx, si potrebbe così riassumere: le idee dominanti, che sono poi quelle imposte adesso col potere mediatico, corrispondono agli interessi dei gruppi economicamente dominanti, sempre più ristretti, e vanno a comporre nei singoli Stati o blocchi continentali quello che, con formula felice, Carlo Galli ha definito i «triedri del potere»: potere politico tradizionale, potere economico finanziario e, sempre più pervasivo, potere mediatico-narrativo: trattandosi poi di poteri, «non senza reciproche frizioni» (Sovranità, cit., p. 117).

Non è necessario essere grandi filosofi, risulta ormai evidente, anche a tutte quelle scienze del sociale appena un po’ attente, che l’economia neoliberista produce uno squilibrio strutturale tra chi la controlla – un numero sempre più sparuto e in competizione permanente a sua volta – e la pletora crescente che la subisce, producendo individui consumatori subalterni, in verità sempre in numero inferiore per il fenomeno dell’impoverimento di massa in geometrica espansione. Alla base della piramide sono rintracciabili due delle figure antropologiche più tipiche dei nostri tempi: il consumatore euforico compulsivo e il depresso adattivo, che spesso si alternano nella stessa persona.


* Il testo è tratto da Fate presto. L’emergenzialismo come fase estrema del neoliberismo, Rogas, 2025, pp. 25-34.
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Lorenzo
Thursday, 28 August 2025 16:37
Analisi interessante, che però ignora completamente il ruolo collusivo giocato dai cosiddetti dominati, cioè dal gregge scervellato e incantato dal più stucchevole consumismo. Ignora anche il grande tradimento perpetrato dalla politica (in primis della sinistra, poi anche della destra) e il ruolo svolto dall'invasione extracomunitaria. E' un quadro semplificato in cui, come da Verbo marxiano, c'è il capitalismo cattivo e il popolo vittima innocente.
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AlsOb
Thursday, 28 August 2025 14:52
Al testo narrativo e semplificato, estratto da un libro sicuramente meritevole e importante, per tentare di far conoscere a grandi linee ai più la genesi e le caratteristiche del mondo in cui si vive, del neoliberalismo fascista, conoscenza che dovrebbe essere obbligatoria e scontata a sinistra, possono essere postillate alcune annotazioni.
Il capitalismo, che come spiegò peraltro Marx, si trova sempre in una condizione critica, negli anni settanta visse una crisi da straordinario successo, nulla di per sé troppo sorprendente: la discutibile lettura drammatizzante è soprattutto un artificio emotivo e ideologico costruito dai dominanti.
La classe dominante pianificò l’imposizione del paradigma neoliberale fascista, (la pseudometafisica neoclassica e neoliberista ne è una componente), per cancellare ogni riferimento e pratica di capitalismo marxiano kaleckiano, che fu il propiziatore della grande crescita, che include un tasso del salario pure in crescita e che fu accettato per paura di Stalin.
Alle classi inferiori, con l’accentuazione emotiva in chiave drammatica e negativa della crisi da crescita, venne fatto credere che sbarazzandosi dello stato, dei partiti e della “famigerata” partitocrazia e del capitalismo marxiano kaleckiano sarebbero finalmente diventate ricche, quando venivano più probabilmente avviate a situazioni neoschiavistiche, in un contesto di radicale cambiamento del contratto sociale.
La forte rivalutazione del prezzo del petrolio venne sostanzialmente pilotata dall’impero per risolvere il fastidioso problema dell’eccesso di dollari.
La classe dominante ha creato una robusta struttura di potere incentrata sul controllo e saldatura della triade rappresentata dagli organi di disinformazione affidati a ciarlatani e propagandisti, dai politici ridotti in grande misura a opportunisti e maggiordomi e dalle burocrazie e potentati non elettivi.
Una domanda essenziale, che dovrebbe essere affrontata, riguarda il ruolo della sinistra convertitasi al neoliberalismo fascista. Tale trasformazione ha inibito ogni prospettiva critica di conflitto di classe e l’atuazione di forme di resistenza.
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Michele Castaldo
Thursday, 28 August 2025 11:35
Egregio compagno Salvatore, finché continuiamo a criticare solo da un punto di vista valoriale il modo di produzione capitalistico, particolarmente per quello che si è mostrato in Occidente, perdiamo solo tempo, perché la sola critica valoriale presuppone - o presupporrebbe - avere pronto all'uso un modello alternativo.
Dal momento che sul piano storico da questo punto di vista siamo stati sconfitti, sarebbe più opportuno chiedersi del perché, ovvero di quali leggi è composto il movimento storico del modo di produzione tale da assorbire ogni altro tentativo di "sfidarlo".
Come dire: Dio è, punto, non cosa è, per dirla alla Anselmo in Hegel.
L'assurdo dei giorni nostri in che consiste? Nel continuare a criticare il "capitalismo" proprio quando è entrato in una crisi in quanto sistema e si avvia a implodere.
Dovremmo perciò spiegare perché è in una crisi ormai irreversibile piuttosto che continuare a criticarlo per i suoi valori-non valori. Sarebbe come spiegare alla Hume che Dio non esiste mentre miliardi di persone credono che È.
Anche perché un qualsiasi liberista, anche il più onesto possibile, ci obietterebbe: Ma non c'è alternativa.
È chiara l'obiezione cari compagni che continuate come se nulla fosse successo?
Michele Castaldo
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tonino
Wednesday, 27 August 2025 18:46
controprova
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tonino
Wednesday, 27 August 2025 18:39
prova
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