Il doppio effetto del Piano Trump, in Medio Oriente e in casa nostra
di Forum Palestina
E’ ormai evidente che nel prossimo periodo dovremo fare i conti con gli effetti del Piano Trump, i cui primi cinque punti – cessate il fuoco, scambio di prigionieri, ripresa degli aiuti umanitari per la popolazione palestinese a Gaza – sono stati sottoscritti in una sorta di show a Sharm El Sheik.
Il Piano che è stato arbitrariamente salutato come piano di pace, in realtà accoglie molti degli interessi israeliani sulla questione palestinese e nella regione mediorientale.
In larga parte questi interessi coincidono con quelli statunitensi e della banda di Trump, ma il Piano cava di impaccio anche i governi europei inchiodati dalle manifestazioni di massa per la Palestina alle loro ambiguità/complicità con Israele. Non è invece affatto scontato che i paesi arabo/islamici siano soddisfatti del quadro che verrà fuori da questi accordi né da quello che li ha determinati.
Il bombardamento israeliano su Doha per cercare di uccidere i negoziatori di Hamas, si è rivelata una cesura nel rapporto tra Israele e le ricche petromonarchie del Golfo.
E questa cesura è arrivata in una fase in cui le varie anime del mondo arabo/islamico hanno trovato il modo di porre fine alle loro decennali rivalità interne tra Fratelli Musulmani, sauditi, sciiti. Quindi anche tra le loro potenze regionali di riferimento: Turchia e Qatar nel primo caso; Arabia Saudita ed Egitto nel secondo; Iran nel terzo.
Nonostante le perduranti ambiguità in questi paesi e i colpi inferti da Israele in tutti i Territori Palestinesi, in Libano, Siria, Iran, Yemen, il clima politico nel mondo arabo/islamico non è più lo stesso di tre anni fa. Trump forse l’ha compreso, Israele ancora no e rischia di pagarne le conseguenze.
Sul Piano Trump appare convincente la valutazione di un tradizionale think thank euroatlantico – l’Istituto Internazionale di Studi Strategici britannico – quando scrive che:
“Abbandonando la sua precedente illusione sulla riviera di Gaza, (Trump) ha usato l’isolamento internazionale di Israele per mettere all’angolo Netanyahu e affrontare le ansie dei nervosi egiziani, giordani, qatarioti, emiratini e sauditi. Il suo approccio autocelebrativo, spesso denigrato, ha prodotto ciò che i modi miti e riluttanti di Joe Biden non sono riusciti a fare, anche se i termini dell’accordo non sono molto lontani da quelli del 2024. Allo stato attuale, tuttavia, il piano Trump non riguarda ancora la pace né è un piano ben sviluppato. Al di là della prima fase concordata, il resto si legge ancora come un menu di un ristorante che lascia molta ambiguità, spazio per contrattazioni e intoppi imprevisti.” (da “L’accordo di Trump ha posto fine alla guerra, ma non ha ancora portato la pace” di Emile Hokayem, IISS, ottobre 2025).
Dunque è un Piano sottoposto a parecchie vulnerabilità, sia sul piano politico che sul piano della prospettiva.
Nel Piano non c’è nulla sulla causa scatenante della contraddizione, ossia l’autodeterminazione del popolo palestinese, il quale a Gaza ha pagato un enorme tributo di sangue e distruzione, ma che indubbiamente il blitz militare palestinese del 7 ottobre 2023 ha contribuito a riportare al centro dell’agenda internazionale. Ed è proprio da questa agenda che il Piano Trump vorrebbe liquidare la questione palestinese riportando indietro la ruota della storia e riducendola a fattore umanitario e mera opportunità economica.
Quest’ultimo aspetto impatta apertamente anche con il dibattito pubblico e la estesa mobilitazione popolare per la Palestina a cui abbiamo assistito anche nel nostro paese.
Gli effetti nel dibattito pubblico in Italia
E’ quasi spudorato il tentativo del governo di ritagliarsi un ruolo nell’accordo di tregua a Gaza e di dare lezioni di pragmatismo.
Il governo Meloni ha confermato la complicità degli apparati diplomatici, politici, economici, militari e culturali dell’Italia con quelli israeliani, inclusi quelli apertamente coinvolti nel genocidio del popolo palestinese. La premier Meloni, i suoi ministri, i portavoce dei partiti della destra al governo, lo hanno fatto solo in modo più sguaiato di quanto lo avessero fatto i governi precedenti.
Nei ventitré anni trascorsi dalla fine della Seconda Intifada (2002) – e il seppellimento di ogni seria ipotesi negoziale su uno Stato palestinese – tutti i governi – anche quelli a trazione del centro-sinistra – hanno lasciato rinnovare automaticamente ogni cinque anni il Memorandum di cooperazione militare tra Italia e Israele siglato nel 2005, ma anche gli accordi economici e scientifici con Israele che coinvolgono aziende, università e centri di ricerca.
Eppure anche prima del 7 ottobre 2023 la popolazione palestinese di Gaza – e della Cisgiordania – era stata vittima di bombardamenti con migliaia di morti, abusi, soprusi, apartheid, detenzioni arbitrarie, blocchi economici terrestri e marittimi illegali da parte israeliana.
In questi giorni e nel prossimo periodo, sia il governo che gli apparati israeliani e filo-israeliani nella politica e nei mass media, cercheranno di utilizzare il cessate il fuoco e la fine del massacro quotidiano della popolazione palestinese a Gaza come pretesto per attaccare e depotenziare le mobilitazioni a sostegno della Palestina.
A tale scopo viene utilizzata una prima mistificazione: spacciare per pace una tregua. La prima deve diffondere l’idea di una tenuta durevole e capace di modificare la situazione precedente; la seconda ha un carattere di eccezionalità e temporalità molto meno penetrante, anche se per la popolazione palestinese è indubbiamente un momento di respiro.
Possiamo essere quasi certi che anche nella sinistra qualche settore o personalità concederà terreno su questa chiave di lettura. Qualche segnale si è visto con l’astensione in Parlamento sul documento del governo a sostegno del Piano Trump. E’ possibile che riprendano spazio anche le posizioni “equidistanti” tra Israele e Palestina che tanti danni hanno provocato negli anni precedenti. Ragione per cui apprestiamoci a non fare nessuno sconto.
Chi ha interesse a riportare il dibattito e la mobilitazione alla fase precedente al 7 ottobre 2023, spaccerà dunque l’accordo raggiunto a Sharm el Sheik come l’instaurazione della pace e sfrutterà la diminuzione dell’onda emotiva nella società di fronte al genocidio quotidiano dei palestinesi per delegittimare e criminalizzare le iniziative e le posizioni a sostegno della Palestina.
Questa operazione può provocare delle incrinature o un abbassamento del livello di mobilitazione popolare e giovanile, ma appare difficile che chi si è mobilitato in questi due anni – e con maggiore intensità nelle ultime settimane – accetti supinamente tale forzatura della realtà e torni a casa come prima. Le forze, le personalità e gli strumenti che spingeranno in tale direzione saranno fortissimi e talvolta anche in ambienti imprevisti.
A questa offensiva ideologica, mediatica, psicologica dovremo saperci opporre con determinazione e maturità, tenendo i motori accesi su tutta l’agenda della mobilitazione a sostegno del popolo palestinese fin qui mantenuta negli ultimi due anni.
Dunque:
1) Nessuna impunità per Israele e i suoi complici. Le responsabilità di un genocidio non si cancellano con un colpo di spugna o con la catarsi su quanto avvenuto. Le campagne di boicottaggio delle relazioni militari, economiche, scientifiche con Israele vanno mantenute e proseguite,
2) Liberazione dei leader palestinesi ancora imprigionati a cominciare da Marwan Bargouti e Ahmed Saadat; liberazione dei palestinesi imprigionati in Italia;
3) Intensificare le iniziative di denuncia, studio, approfondimento, confronto contro il sionismo.
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