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L’imperialismo Usa, l’Ue, il governo Conte e i compiti dei comunisti e della sinistra di classe

di Fosco Giannini

corriga pittoreChi ha vissuto il PCI, quello originario, sa bene che al suo interno, la vita dibattimentale era segnata da qualcosa che era ben più di una ritualità, essendo invece un vero e proprio stile di lavoro: ogni riunione, dalla più piccola Sezione di montagna alla Segreteria Nazionale, era aperta, a prescindere dall’ordine del giorno ( fosse esso relativo alla chiusura di una farmacia comunale di un paesino o alle questioni del governo nazionale) dalla delineazione del contesto internazionale, da cui il resto, poi discendeva. Ciò perché, giustamente, vigeva in quel grande Partito la legge filosofica hegeliana e marxista della “totalità delle cose”, che proprio Hegel – ripreso da Marx- così, in estrema e brillante sintesi, definiva: “il Vero è il Tutto”.

Anche ora, per tentare di districarsi in questo apparente ginepraio politico e sociale che oggi segna l’Italia, ( ginepraio solo apparente, poiché ogni cosa, in Natura e nella Storia, ha un’origine, una base materiale, che occorre mettere in luce, ed è qui la difficoltà), per tentare di decodificare in termini materialisti e profondi il governo Conte e l’alleanza politica tra M5S e Lega e per cercare di definire, conseguentemente, i compiti dei comunisti e della sinistra di classe in questo Paese, occorre riassumere lo stile di lavoro tradizionalmente comunista, di ogni comunista e marxista serio e iniziare a mettere dunque a fuoco il contesto internazionale in cui il governo giallo-verde italiano si è costituito.

Un’impostazione analitica di questo tipo ( che fa derivare, come tuttavia è inevitabile che sia, la fase italiana dalla totalità delle dinamiche internazionali) richiederebbe uno spazio che in questa sede non possiamo permetterci: dunque, procederemo con sintesi estreme ed alcune brutalizzazioni.

E’ indubbio che il 26 dicembre del 1991, giorno in cui avviene il nefasto autoscioglimento dell’Unione Sovietica, rappresenti in modo sempre più probante ( al di là delle quanto meno intempestive analisi di intellettuali come la Rossana Rossanda, che dopo la scomparsa dell’URSS scrivevano che quella scomparsa poteva anche essere un’opportunità per rilanciare un più avanzato processo rivoluzionario) un vero e proprio spartiacque storico: vi è un mondo ( quello rappresentato dalla formidabile diga antimperialista e anticolonialista dell’URSS prima del 26 dicembre del 1991) e un altro mondo ( quello dello scatenamento degli spiriti animali imperialisti sull’intero fronte internazionale, dopo quel 26 dicembre).

Ciò che tuttora risulta impressionante ( dopo l’allucinazione capitalista post sovietica, che convinse alcune avanguardie intellettuali e politiche imperialiste e filosoficamente ultra idealiste che la Storia, con la caduta del socialismo sovietico e dei Paesi dell’Est Europa, fosse finita) fu il concretizzarsi di un imponente e rapido processo rivoluzionario dal carattere nuovamente socialista o comunque antimperialista e anticolonialista che dilagò, in forme diverse, dall’America Latina all’Asia, passando per l’Africa.

Non solo Cuba resistette al dissolversi dell’URSS, ma anche a partire dalla sua resistenza si sviluppò un vasto processo di liberazione socialista e antimperialista in tanta parte dell’America Latina; nella stessa Africa non solo resistette il Sud Africa ( che anzi allargò la propria influenza in tutta l’ Africa australe) di Mandela e del Partito Comunista, ma in diverse e grandi aree africane si sollevarono movimenti di lotta di carattere antimperialista e, soprattutto, prese corpo il progetto ( Mandela-Gheddafi) di un’Africa indipendente e libera dagli USA e dall’imperialismo europeo attraverso l’abbandono del dollaro, la costituzione di una Banca Africana e di una moneta africana, in buona parte sostenuta dagli imponenti fondi sovrani libici. Progetto, questo di un’Africa finalmente unita e libera, che fu alla base dell’intervento USA, NATO e altre forze imperialiste mondiali, del vergognoso attacco contro la Libia del 2011, che portò alla distruzione del Paese più avanzato di tutto il Nord Africa. Ma il mondo post sovietico cambiava davvero e rapidamente: oltre l’America Latina e l’Africa un titanico processo di carattere antimperialista – guidato e trainato dallo straordinario sviluppo economico e politico cinese – prendeva corpo in Russia e in Asia, un processo che sarebbe stato alla base della vera e propria novità storica dei BRICS e del profondo cambiamento dei rapporti di forza mondiali tra forze imperialiste e forze socialiste e antimperialiste, a favore di queste ultime.

Se noi ci atteniamo alla realtà storica così come si è concretamente manifestata dal 1991, caduta dell’URSS, ad oggi ( un tempo storicamente brevissimo, un lampo) possiamo constatare di essere passati dal tentativo imperialista di ratificare la fine della Storia, la morte perenne del socialismo e la vittoria eterna del capitalismo ad un nuovo quadro mondiale che parla invece chiaramente del contrario: e cioè della crisi profonda, economica, politica, culturale e anche di egemonia, dell’imperialismo e del capitalismo e di un rafforzamento, su scala planetaria, delle ragioni e del progetto concreto del socialismo, dell’antimperialismo e dell’anticolonialismo su scala mondiale. In altri termini, l’immenso “battage” mediatico scatenato a livello planetario dalle varie “emittenti” culturali capitalistiche volto a dichiarare morto il socialismo si è rivelato risibile e fragile di fronte alla Storia contemporanea stessa e la “ratifica” della “Fine della Storia” dichiarata da Fukujama a nome del capitalismo mondiale subito dopo la caduta dell’URSS è risultata essere quell’insieme di menzogna e idiozia filosofica che risulta essere – oggi – il tentativo di “licenziare” il socialismo come un retaggio del ‘900. L’America Latina, l’ Africa, la Russia, l’Asia hanno dimostrato e stanno dimostrando quanto siano in campo le potenze teoriche, politiche ed economiche del socialismo e dell’antimperialismo e quanto esse appartengano al futuro. Eventualmente dobbiamo chiederci perché queste stesse potenze rivoluzionarie non riescano ad agire nello spazio dell’Unione europea e perché in questa parte del mondo attecchisca invece, e segni di sé tanta parte del senso comune di massa, la propagandistica ratifica imperialista della fine della storia e della morte del socialismo. Ciò non potrà che far parte di un altro spazio di riflessione, ma certo è che sia la potenza reazionaria dell’Ue, sia la resa incondizionata delle socialdemocrazie europee all’egemonia liberista di Bruxelles che la sconfitta storica dell’eurocomunismo rappresentino parti rilevanti dell’analisi e della risposta.

Tuttavia l’analisi concreta della situazione concreta a livello internazionale, segnata dalla riconquistata “potenza” culturale, politica, economica e sociale delle forze politiche e statuali socialiste e antimperialiste, dovrebbe essere molto più presente alle coscienze dei comunisti e delle comuniste del nostro Paese, che invece sembrano a volte cedere alla propaganda imperialista volta alla costruzione del mito della fine della Storia. Siamo in difficoltà in Italia e nei Paesi dell’Ue, ma le nostre idee vincono nel “mondo grande”: come Antonio Gramsci che nel fascismo nascente alimentava la propria lotta non solo attraverso le proprie convinzioni ma soprattutto attraverso la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, oggi i comunisti e le comuniste d’Italia e dell’Ue possono e debbono fondare la propria militanza sul cambiamento di un quadro mondiale che vede il rilancio del progetto socialista e antimperialista.

Dunque, tre decenni dopo la caduta dell’URSS noi assistiamo oggi al fallimento del progetto imperialista diretto, dal 26 dicembre 1991 in poi, a costruire un mondo “unipolare” ad egemonia USA e al fallimento del progetto dello stesso “secolo americano”. Illusi dalle macerie sovietiche, gli USA sono rimasti poi storditi nel vedere passare a velocità apparentemente “antistorica” i nuovi processi che avrebbero portato all’attuale, e odiato (dagli USA), multipolarismo: l’impressionante sviluppo della Cina socialista e l’enorme ispessirsi del suo ruolo mondiale; la tenuta e lo sviluppo della Russia anti eltsiniana e antimperialista che allarga la propria presenza e rafforza il proprio ruolo in Medio Oriente, impedendo agli USA di assestarsi di nuovo in quell’area decisiva del mondo; le lotte antimperialiste di tanta parte dell’America Latina che spingono gli USA al ritorno alle politiche “golpiste”, politiche che tuttavia, sul nuovo terreno seminato dalle pulsioni di liberazione dei popoli, non garantisco per nulla nuove e decennali dittature fasciste filo americane prive ( a causa delle carneficine militari) di opposizione o sbocchi neo liberisti “pacifici”; la penetrazione profonda e vasta della Cina in Africa, Cina che attraverso ingentissimi investimenti economici e intelligenti politiche di “partenariato” (politiche mai viste in Africa, abituata alla violenta spoliazione imperialista di ieri e di oggi, con la Francia in testa) “caccia” letteralmente, da aree africane sempre più vaste, la presenza delle forze imperialiste tradizionalmente accasatesi in quel continente.

Queste constatazioni debbono forse farci credere che l’aquila imperiale americana e la NATO sono forse, oggi, meno potenti e pericolose? Certamente no e anzi, sul piano della pericolosità mondiale, per la causa della pace mondiale, gli USA e la NATO sono con ogni probabilità più pericolosi di prima, proprio in virtù del fatto che essi stessi si percepiscono come potenze ferite e molto probabilmente in declino storico.

Abbiamo bisogno, dunque, di analizzare questa nuova natura americana, questa natura di “anatra azzoppata” che sente addosso la propria crisi. Che cosa sono stati gli USA dopo la caduta dell’URSS? Cosa sono oggi, con Trump? Occorre tentare di delineare l’identità dell’imperialismo USA per poi mettere a fuoco – anche attraverso il prisma nordamericano- l’identità dell’altro polo che oggi mette a rischio il presente e il futuro dei popoli europei: l’Unione europea.

Potremmo affrontare il tema nordamericano attraverso il più sintetico viaggio possibile attraverso le presidenze USA dal 1989 ad oggi: il tempo postsovietico.

Nel 1989 è eletto quale Presidente degli Stati Uniti George Herbert Walker Bush, che manterrà il proprio incarico sino al 1993. Il lasso di tempo tra il 1989 e il 1993 è quello che vede l’auto dissoluzione dell’URSS e l’inizio dell’illusione imperialista della fine della storia. Che gli USA e la NATO non sentano più la presenza della diga antimperialista sovietica è essenzialmente enucleabile dal fatto che, con facilità estrema, “naturale”, George Bush lanci la prima e micidiale Guerra del Golfo (1991), guerra che inaugurerà tutta la nuova politica di aggressione militare USA e NATO in Medio Oriente nella fase post sovietica. Per ciò che riguarda le politiche economiche, Bush si attiene, sul piano internazionale, alla tradizionale e vasta politica di scambio commerciale a favore degli interessi imperialisti USA, sospingendo attivamente e consapevolmente la messa in campo del nuovo processo di globalizzazione economica e culturale mondiale anche se, sul piano interno e di fronte alla crisi economica incipiente, rinnega il liberismo assoluto della reagan economic, rialzando le tasse e rinunciando ad una ulteriore precarizzazione di massa del lavoro. Proponendosi, per questo, come rappresentante di uno dei poli capitalistici USA: quello non meno guerrafondaio degli altri ma più incline ad uscire dalla crisi economica attraverso qualche forma di partecipazione sociale, appena più larga, ai sacrifici e più guardinga rispetto alle macellerie sociali reaganiane.

Billy Clinton sarà Presidente dal 1993 al 2001, per due mandati. “Seppur” democratico, Clinton sarà ben più guerrafondaio del suo predecessore Bush. L’intervento USA e NATO in Somalia nel 1993; l’attacco in Bosnia nel 1995; gli attacchi militari in Sudan e in Afghanistan e la ripresa dei bombardamenti contro l’Iraq (1998) e la tragica guerra contro la Jugoslavia, coinvolgendo e subordinando a sé il governo italiano D’Alema, del 1999, sono solo tra i più conosciuti impegni bellici della presidenza Clinton, che si segnala, sul piano internazionale, per la totale libertà d’azione in relazione al venir meno dell’Unione Sovietica e per il rilancio della NATO, non più come soggetto militare di una parte del mondo ma come nuovo agente militare imperialista di carattere planetario.

Sul piano economico Clinton mise insieme politiche fiscali meno restrittive per la classe media e tentativi di legiferazione di diritti sociali più avanzati ( ad esempio a favore dei gay) con una ambigua politica del welfare che, nell’essenza, avrebbe preannunciato la “terza via” liberista di Tony Blair in Gran Bretagna. Con la presidenza Clinton si accresce di molto il flusso, libero da dazi, export-import e si accelera tutto il processo di mondializzazione in atto delle merci. Con l’accentuazione della guerra quale cavallo di troia per l’imposizione delle stesse merci in nuove aree del mondo, nei nuovi domini.

George Bush junior sarà Presidente dal 2001 al 2009, per due mandati. La sua politica, all’inizio, ha i segni di un isolazionismo alla Trump: si parla di un maggior sostegno economico all’America Latina e della rinuncia, da parte degli USA, agli interventi militari volti ad “esportare la democrazia” in quella parte del mondo; nel 2001 Bush Junior rifiuta di aderire al Protocollo di Kioto sull’ambiente e nello stesso periodo afferma di voler ritirare gli USA dal Trattato Antimissili Balistici (ABM), lanciando un imponente progetto di costruzione di missili balistici americani intercontinentali, per una nuova militarizzazione e per il rilancio dell’economia USA. Ma è dopo l’11 settembre, dopo le Torri Gemelle, che si riacutizza la tradizionale pulsione bellica americana: nell’ottobre 2001 vi sarà l’attacco militare USA contro l’Afghanistan; nel gennaio 2002, nel discorso sullo stato della Nazione, Bush conia l’espressione “Asse del Male”, un Asse composto, secondo Bush, da Iran, Iraq e Corea del Nord. Da quella espressione nasce la “dottrina Bush” che concepisce l’uso della guerra preventiva come misura contro “gli Stati canaglia”. Il movimento ultraconservatore americano “Project for the New America Century”, che influenza molto, in quel periodo, la politica estera di Bush Junior, è lo stesso che ha molto segnato di sé l’attuale leader ultrapopulista e suprematista bianco Steve Bannon, già capostratega di Trump ed ora “cervello” del populismo reazionario europeo. Nel 2003 Bush decide l’attacco contro l’Iraq, che si ripeterà, dopo la carneficina bellica contro il popolo iracheno, nel 2007.

A dimostrazione di quanto sia vero che ogni Presidente USA rappresenti gli interessi di uno tra i poli capitalisti nordamericani, Bush sviluppò, sul piano delle politiche economiche, un disegno volto essenzialmente agli interessi del grande capitale finanziario e agli interessi della grande industria bellica, anticipando, in relazione al rialzo dei dazi sull’importazione dell’acciaio, alcune politiche di Trump ma praticando anche una politica economica opposta a quella dell’attuale presidente USA: se , infatti, Trump oggi predilige il rafforzamento di una delle frazioni capitalistiche USA in campo (quella del capitalismo produttore di merci, comprese le merci militari) Bush Junior scelse di favorire la frazione del capitalismo finanziario e speculativo e, insieme a questo, quella del complesso militare-industriale. A partire da ciò c’è da osservare che, nel parallelo tra le politiche economiche Bush Junior e Trump, una delle frazioni capitalistiche agevolate cambia di nome ( per Bush Junior è il capitale finanziario e per Trump è il capitale produttivo), ma non cambia l’altro soggetto agevolato, il complesso militare-industriale, che rimane storicamente al centro dell’attenzione delle presidenze USA anche in virtù della propria natura composita, essendo, esso, non solo capitale produttore di merci ( belliche) ma anche parte significativa della frazione del capitalismo finanziario e speculativo. Da ciò, anche, deriva la pericolosità estrema degli USA per la pace mondiale e per l’indipendenza dei popoli.

Barak Obama è stato Presidente degli USA dal 2009 al 2017. Nonostante volesse essere chiamato “presidente no war” e nonostante il premio Nobel per la pace assegnatogli, Obama ha proseguito e persino intensificato la politica di guerra americana. Nel dicembre 2009, due mesi dopo aver ricevuto il Nobel per la pace, invia 30 mila nuovi soldati in Afghanistan; nel 2011 ordina l’attacco militare contro la Libia; sarà poi la volta dei bombardamenti contro la Siria, l’Iraq, lo Yemen, la Somalia e il Pakistan. Nel 2014 Obama è anche il regista non tanto occulto del progetto USA volto ad organizzare le squadracce nazifasciste a Kiev in appoggio di Poroschenko, per favorire una linea essenzialmente anti russa.

Sul piano delle politiche economiche Obama ha portato avanti timidi tentativi di nuove politiche sociali ( soprattutto nel campo della sanità), tentativi naufragati di fronte alla linea generale Obama volta a ridurre il debito pubblico (soprattutto attraverso tagli sociali differenziati), a sostenere nuove e pesanti spese militari e rivitalizzare il sistema bancario e finanziario, pesantemente colpito dalla crisi Lehman Brothers del 2008. Obama sposta immense risorse a favore del sistema bancario-finanziario, sino a guadagnarsi il titolo di “Presidente Wall Street”. Ed è importante sottolineare la collocazione di Obama sul fronte degli interessi del capitale finanziario, bancario e speculativo per poter poi meglio comprendere il cambiamento di linea di Donald Trump.

Questo viaggio tra le presidenze USA post Unione Sovietica ci serve per mettere essenzialmente a fuoco i seguenti punti:

-dopo la caduta della “diga” sovietica la spinta alla guerra, da parte degli USA, diviene parossistica; essa è condivisa in eguale misura dai democratici e dai repubblicani e persino i democratici “santificati” come Obama risultano essere, nei fatti, determinatissimi guerrafondai imperialisti, figli precisi del sistema;

-la NATO si trasforma, dall’autoscioglimento dell’URSS, nel nuovo agente imperialista mondiale, “moralmente” autorizzato, dal sistema politico e ideologico americano, a svolgere la funzione di killer internazionale;

-le politiche generali e concrete messe in campo dai Presidenti USA dal 1989 sino ad Obama ( 2017) dimostrano in modo inequivocabile che la pace mondiale, le sorti del mondo intero sono nelle mani dell’imperialismo nordamericano e della NATO, che alla stregua di ciò, e non per pregiudizi ideologici, vanno considerati gli attuali, veri nemici dell’umanità, il nemico principale, le forze che in ogni momento possono decidere di scatenare guerre, da quelle regionali a quelli mondiali; da ciò una conseguenza, che riguarda anche l’attuale governo italiano giallo-verde: chi non ha la forza e la libertà politico-culturale di mettere al primo posto di un’agenda politica il progetto di indipendenza dagli USA e dalla NATO ha già consumato in sé ogni progetto di cambiamento politico e sociale. Sia perché la ratifica della collocazione italiana nel campo dell’Alleanza Atlantica trasforma l’Italia in un Paese militarmente occupato, sia per l’enorme spostamento di risorse economiche che la NATO richiede verso la militarizzazione e la guerra, risorse perennemente stornate dal welfare e da ogni progetto di politiche sociali a favore del lavoro e del non lavoro. Se si accetta la NATO come dato di natura, immodificabile, come anche l’alleanza governativa Salvini-Di Maio sta facendo, ogni discorso sulla sovranità nazionale è pura ipocrisia, propaganda bassamente populista;  

-le politiche economiche americane lungo le presidenze che vanno da Bush Senior ad Obama hanno registrato una linea relativamente omogenea ( solamente a timidissimi, impercettibili, sprazzi interrotta da politiche isolazioniste e protezioniste): la linea volta a perseguire, nella dialettica export-import, nello scambio mondiale di merci, l’obiettivo di uno scarto fortemente favorevole alle multinazionali imperialiste USA, soprattutto attraverso il totem del dollaro e la stessa forza imperiale armata e venditrice di armi sui mercati mondiali conquistati con la guerra o con la forza economica;

-la fase che abbiamo visitato attraverso le presidenze USA ha tuttavia fatto emergere una novità, per l’ultimo scorcio storico americano: il prevalere, all’interno dello scontro tra le frazioni capitalistiche USA, del polo del capitale bancario, finanziario e speculativo ai danni del polo del capitale produttivo. Ciò si è con tanta più evidenza manifestato proprio durante la presidenza Obama, e non solo per la questione Lehman Brothers e il salvataggio operosissimo ( ai danni del welfare e delle condizioni di vita del sottoproletariato, del proletariato e del ceto medio americano) delle strutture bancarie, ma anche per l’egemonia conquistata (secondo l’analisi leninista) del capitale finanziario speculativo sul capitale produttivo. Un fenomeno che ha visto come soggetti totalmente passivi e subordinati sia il Partito Democratico ( quello a cui si è ispirato Veltroni per il PD italiano!) che quello Repubblicano, di volta in volta scambiandosi i ruoli e le rappresentanze ( vedi Obama, salvatore, infine del sistema bancario e dunque, in senso leninista, vero funzionario imperialista) paladini della frazione del capitalismo finanziario o di quello produttivo.

Si tratta ora di capire che cosa è cambiato con la presidenza Trump.

Possiamo sicuramente affermare che come la reazione del fronte antimperialista trainato dalla Cina aveva spento l’illusione sulla fine della Storia che il fronte imperialista aveva nutrito dopo la caduta dell’URSS e, conseguentemente, acutizzato la nuova e poderosa pulsione di guerra USA e NATO, così l’aver preso coscienza, da parte di Trump e della frazione capitalistica che l’ha scoperto e poi eletto a suo transitorio paladino ( la frazione del capitalismo produttivo, all’interno della quale c’è anche il sistema produttivo bellico, altra merce “reale”) della minacciosissima, per l’imperialismo USA, crescita economica della Cina e di altre aree mondiali in via di sviluppo e non più egemonizzate da Washington, ha spinto la nuova Amministrazione USA a inedite, per la fase, politiche di difesa della produzione interna, ad un nuovo protezionismo, dunque; ad un “sovranismo” anche isolazionista.

Per la farraginosità del pensiero politico americano dominante e per la potenza oggettiva del capitale finanziario, non possiamo certo sapere per quanto tempo Trump terrà il punto, per quanto gli sarà permesso di eleggersi a rappresentante degli interessi del capitalismo produttivo; ciò che sappiamo è che nella lotta incessante tra le dominanti frazioni capitalistiche americane per ora, con Trump, è in vantaggio quella del capitale produttore di merci. Anche di merci per la guerra, a partire dal fatto che con Trump il complesso militare-industriale USA ha sensibilmente aumentato la spesa. E la ricerca di mercati mondiali.

In relazione a Trump vi sono due questioni da affrontare: l’una riguarda la NATO e le politiche di guerra americane; l’altra riguarda l’Ue e quindi, per ricaduta, le forze comuniste e della sinistra di classe dei Paesi Ue, compresa l’Italia.

Per ciò che riguarda la NATO e la politica internazionale dell’Amministrazione Trump: le illusioni che anche a sinistra qualcuno aveva nutrito sul Trump liquidatore della NATO possono restare, appunto, illusioni. Trump, minacciando un possibile distacco USA dalla NATO, ha puntato solamente ad un ulteriore e maggiore impegno economico da parte dei Paesi dell’Alleanza Atlantica (una richiesta subito e servilmente accolta dal governo italiano giallo-verde). D’altra parte, la stessa politica “protezionista” dell’Amministrazione Trump è il segno più evidente di quanto gli USA nel loro insieme temano la crescente potenza cinese e la stessa Russia di Putin, potenze che lo stesso Trump (comunque americano e “soldatino” del grande capitale americano) non può certo togliere dal mirino bellico. Oltre ciò, essendo il complesso militare-industriale USA, oggi, ad essere una parte (considerevole) della frazione del capitalismo produttore di merci che sostiene Trump e da Trump è rappresentata, il distacco USA dalla NATO e, in linea più generale, dalla guerra, sarebbe una contraddizione in termini. La NATO e la guerra continuano ad essere, anche negli USA per ora “protezionisti” di Trump, parti essenziali e imprescindibili della politica generale. La stessa politica internazionale di Trump (segnata da attacchi furibondi, evocanti la guerra, alla Corea del Nord, all’Iran, al Venezuela, persino alla Russi e alla Cina) appare sin ad ora una politica ad elastico, in cui si urla e poi si cerca l’accordo, mai, tuttavia, scartando per principio l’attacco militare e nuove guerre, insite anche nel progetto di sviluppo, seppur “protezionista”, di Donald Trump.

Di riaffermarlo non ce ne sarebbe il minimo bisogno: ma nulla è cambiato perché la prima parola d’ordine dei comunisti e delle forze antimperialiste e pacifiste, anche in Italia, sia “fuori l’Italia dalla NATO”. Parola d’ordine che deve scudisciare anche l’attuale governo italiano giallo-verde, subordinato totalmente sia alla NATO che al progetto dell’esercito europeo.

La seconda questione relativa alla presidenza Trump è quella dell’Ue: Trump, con ben più vigore dei presidenti che l’hanno preceduto, punta chiaramente alla disgregazione dell’Ue, al fine cancellarla dal quadro storico quale potenziale e nuovo polo imperialista concorrente; al fine di cancellarla quale partner unico e più potente della Cina della Russia e al fine – una volta disgregata come polo unico- di trattare con più forza con ogni singolo Paese europeo.

Bene, dobbiamo andare al nocciolo difficile della questione: ci sono, anche nel campo italiano comunista, di sinistra, progressista, aree e individualità fortemente preoccupate per la linea di Trump volta a disgregare l’Ue e, rispetto a ciò, queste aree propongono una lotta che rimanga sì fortemente critica rispetto alle politiche liberiste dell’Ue, ma anche volta ad impedirne la sua fine, in un progetto di costruzione “di una nuova Ue democratica, progressista e di sinistra, capace di svolgere un ruolo di contraltare rispetto a Trump e agli USA”.

L’argomento è particolarmente insidioso e va stanato. Chi lo porta avanti in questi termini dimentica facilmente le basi materiali della costruzione dell’Ue, che sono queste: essa nasce non in virtù di un’esigenza storica maturata tra i popoli e gli Stati europei, ma solo in virtù degli interessi del grande capitale transnazionale europeo che, dopo aver compreso, come l’imperialismo USA, che dopo la caduta dell’URSS il mondo era divenuto un immenso mercato libero da conquistare, sentiva il bisogno assoluto di disseminare per tutta Europa una politica volta all’abbattimento dei salari, dei diritti e dello stato sociale, in funzione di una nuova e massiccia accumulazione capitalistica tale da permette ai poli capitalistici europei di concorrere nella lotta interimperialista per la conquista dei nuovi mercati mondiali. Questa è la natura neo imperialista sulla quale si è formata questa Ue; su questa base si sono formati i suoi feticci istituzionali antidemocratici, i suoi Trattati iperliberisti e le sue politiche di spoliazione del movimento operaio complessivo europeo, anche attraverso l’ Euro.

Chi, oggi, chiama anche i comunisti a “salvare” questa Ue dall’attacco di Trump e delle forze populiste dell’Ue (certo, “per volgere poi la lotta in senso democratico e socialista”) credo che cada in gravi errori.

Innanzitutto, rispetto ai rapporti di forza interni all’Ue tra forze comuniste e di sinistra di classe e forze liberal-democratiche e populiste, rapporti di forza terribilmente a favore delle seconde due. Ma anche rispetto alla potenza stessa, culturale, politica e mediatica dell’Ue, il progetto di salvare l’Ue dai populismi americani ed europei rappresenta una vera e propria, disorientante, utopia. A meno che non si voglia salvare l’Ue da Trump, da Orban e da Salvini lasciandola poi così com’è, liberista e reazionaria (come infatti sono sia Trump, sia Orban che Salvini).

Un altro errore di chi chiama anche i comunisti alla difesa dell’Ue da Trump e dai populisti dell’Ue è il seguente: Trump può, forse creare alcuni problemi all’Unione europea, e rimarchiamo il forse perché la politica americana può rapidamente cambiare e le frazioni capitalistiche avverse a quelle che oggi rappresenta Trump hanno già scatenato una guerra contro l’attuale Presidente USA, una guerra politica dalla quale difficilmente Trump potrà uscirne indenne. Ma il punto strategico è un altro: storicamente, all’interno del mercato globale, una linea politica isolazionista e protezionista (contenente in sé, tra l’altro, i germi del nazionalismo reazionario e guerrafondaio) non può protrarsi a lungo, pena la perdita di quei profitti classicamente imperialisti derivanti dallo scambio diseguale di merci quale pratica fondante dello stesso imperialismo.

Ma problemi non ne creano e non ne creeranno nemmeno i populisti europei, da Orban (molto interessato ai fondi europei) a quelli italiani del governo Salvini-Di Maio: ma ce ne accorgiamo o no che il governo giallo-verde è già completamente interno e subordinato all’Ue ( come agli USA e alla NATO) come un Tsipras qualunque? Seppure sia molto importante differenziare il liberismo reazionario di Salvini dalla confusione ideologica e politica “pentastellata”, dalla compresenza, nel M5S, di forze liberiste e conservatrici e di forze avanzate e di sinistra, da mettere a valore, tuttavia la prima fase del governo Conte dimostra (sull’esercito europeo, sulla fondamentale accettazione del fiscal compact, sulla struttura generale dei Trattati, sul rapporto Pil-deficit, sull’Euro, ormai accettato sia da Di Maio che da Salvini come “moneta naturale”) la sostanziale subordinazione all’Ue, la mancanza di un progetto strategico per venirne fuori.

Occorre, tra l’altro, rammentare a coloro che oggi chiamano i comunisti e le forze più avanzate a salvare l’Ue da Trump e dai populisti europei, che proprio l’accettazione, di fatto, dell’Ue è stata la drammatica base materiale della consunzione delle socialdemocrazie europee e dell’improvviso e formidabile apparire delle forze populiste di destra, nate proprio nel vuoto lascito dalle socialdemocrazie.

Naturalmente, non accettare strategicamente l’Ue non vuol dire in nessun modo che i comunisti rinunciano alla lotta contro i dettami liberiste dell’Ue e in difesa delle condizioni di vita dei lavoratori: riassumendo la concezione dell’unità tra tattica e strategia l’importante è che - come nella lotta contro il capitalismo italiano che i comunisti ingaggiano all’interno del progetto strategico del socialismo- la lotta contro l’Ue abbia come sbocco strategico la liberazione dall’Ue, l’uscita del popolo italiano da questa caserma liberista.

Il punto centrale della discussione, per chi scrive, rimane questo: vi sono forze della sinistra e anche comuniste che perseguono l’idea della battaglia strategica interna all’Ue nell’illusione del cambiamento interno ad essa. I comunisti hanno posto un problema diverso: l’uscita dall’Euro e dall’Ue. L’uscita dall’Euro e dall’Ue viene letta e rimandata, da chi si oppone al progetto, come l’Apocalisse. Perché, in Inghilterra la Brexit cos’ha prodotto, l’inferno sociale? No, l’uscita non sarebbe l’Apocalisse: il Paese uscente si libererebbe dai mille, mostruosi vincoli economici, commerciali, politici, culturali e militari che impone l’Ue e non sarebbe nel deserto mondiale, ma potrebbe costruire legami economici e politici con un “altro mondo”, un mondo né imperialista né colonialista, che non richiederebbe i vincoli ferrei e le cessioni drammatiche di sovranità che chiede l’Ue. Questo mondo è quello che è apparso nel quadro internazionale solo da alcuni decenni, che ha già tagliato molte unghie agli USA e alle altre forze imperialiste mondiali e che sta lavorando in tanta parte dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina per liberare Stati e popoli. È il mondo alternativo dei BRICS, dell’alleanza ancor più larga di quella dei BRICS che si va di fatto costituendo tra Stati e popoli di diversi continenti, un’alleanza nuova e in divenire tenuta assieme dal cemento della liberazione, un’alleanza che non chiede di scambiare merci solo all’interno della propria area politico-economica, non chiede, per scambiare merci, di imporre la distruzione del welfare nazionale e un fiscal compact da inserire violentemente nelle Costituzioni. Né di costruire un esercito comune. Da molto tempo siamo usciti dall’ottocento e il mondo si è di molto rimpicciolito, gli spazi che dividono i popoli e gli Stati si sono ridotti, quasi aboliti, e tutti siamo vicini. Il Sud Africa, la “S” dei BRICS, è più lontano dalla Russia, dalla Cina e dal Brasile di quanto lo sia l’Italia e dunque, per una collocazione politica diretta alla liberazione non conta la postazione geografica, ma quella filosofica. E possiamo scegliere, per convenienza, per “sovranità” popolare, con chi commerciare, con chi scambiare merci e servizi. Il sentirsi ontologicamente parte dell’ Unione europea è un residuo storico e psicologico pericoloso, falso, una coda ottocentesca; il sentirsi legati dalla Storia ad una sola area del mondo è il frutto di un provincialismo oscuro, in verità al servizio del profitto capitalistico europeo.

L’uscita dell’Italia dall’Euro e dall’Ue, la riconquista della libertà per il nostro popolo, deve divenire una parola d’ordine, un senso comune di massa, questa è la battaglia politica e culturale dei comunisti, dei rivoluzionari. Che se, invece, iniziassero a parlare di salvare l’Ue da Trump e dai populisti europei confonderebbero ancor più le già molto torbide acque del senso comune operaio e di massa.

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