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dirittiGlobali

Del rischio di estinzione del colibrì

Le ragioni dimenticate dei movimenti

di Sergio Segio*

Introduzione al 14° Rapporto sui diritti globali

movimenti globalizzazione■ Globalizzazione e altermondialismo

Da molti punti di vista e su non pochi aspetti, il cambio del secolo sembra aver chiuso fuori dalla porta Storia e storie, memoria individuale e memoria collettiva. Con un congruo anticipo, del resto, un economista conservatore, 1Francis Fukuyama, era arrivato a teorizzare proprio la fine della Storia. Contemporaneamente, i suoi colleghi di università e docenza, i “Chicago boys” di Milton Friedman, fornivano le basi dottrinarie di quel processo neoliberista centrato su privatizzazioni, liberalizzazioni, smantellamento dei sistemi di welfare, deregulation e messa in mora di poteri e controlli pubblici tuttora in corso. Si affermava così la regola del Washington consensus e cominciavano le politiche di “aggiustamento strutturale”, cui la Troika di allora (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Dipartimento del Tesoro USA) assoggettava prima l’America Latina e poi altre aree e Paesi cosiddetti in via di sviluppo, attraverso l’imposizione di Programmi imperniati, appunto, su privatizzazioni, liberalizzazioni, tagli alla spesa sociale, austerità, limitazione del-la spesa pubblica, obbligo di pareggio di bilancio.

Proprio com’è più di recente successo, e sta succedendo, alla Grecia e ad altri membri dell’Unione, veniva in quel modo messa in discussione la sovranità dei singoli Paesi, obbligati ad aprirsi agli investimenti delle multinazionali e alle loro delocalizzazioni produttive, finalizzate allo sfruttamento di manodopera a basso costo e alla massimizzazione dei profitti. In parallelo e di conseguenza, i diritti sociali, del lavoro, ambientali, ma anche i diritti umani, venivano vulnerati o fortemente ridimensionati, prima in quelle aree geografiche e, successivamente e tuttora, anche in Europa. Dove portasse quella strada divenne presto manifesto con il default dell’Argentina nel 2001. A cavallo del cambio di secolo e in reazione a quelle dinamiche, e alle strategie sottostanti, prendeva corpo, forma e forza il grande movimento altermondialista (comunemente mistificato dai media mainstream sotto l’etichetta “no global”), nato nel 1998 e decollato l’anno successivo con le mobilitazioni contro l’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization, WTO) a Seattle.

Si trattò di una prima battaglia vincente, che ha piegato sino a renderla irrilevante la potentissima organizzazione, sorta nel 1995 con l’obiettivo di abbattere ogni barriera tariffaria al commercio globale di merci e servizi. Un piccolo, micidiale, cuneo era stato ficcato negli ingranaggi della globalizzazione economico-finanziaria e della liberalizzazione commerciale, dunque nel potere e nei profitti delle grandi corporation. Un inceppamento, pur-troppo solo temporaneo, di una strategia da tempo lucidamente tesa a un nuovo ordine globale, dopo che quello bipolare precedente – sorto dopo la Seconda guerra mondiale, definito negli Accordi di Yalta, stabilizzato dalla guerra fredda e dalla divisione del mondo in blocchi – era venuto meno, franando su sé stesso. Un ordine spesso tragico, ma anche in alcuni tratti caratterizzato da rivoluzioni emancipative di popoli schiacciati dal colonialismo e da sistemi economici disumani, nonché, nella seconda metà del secolo, pure in Occidente, da grandi conquiste sociali, da un forte progresso delle forze del lavoro e da un significativo avanzamento di istanze democratiche e di libertà civili.

 

La seconda potenza mondiale

Le vicende del luglio 2001 a Genova sono state la sanguinosa dimostrazione di come quel governo sovranazionale non possa tollerare interferenze e di come conservi memoria – lui sì – e timore dei processi di emancipazione, conquiste e progressi avvenuti nel secolo scorso. In quelle giornate genovesi si so-no confrontate senza mediazioni due visioni del mondo. È in quel momento che le ragioni della forza iniziano a prevalere sulla forza della ragione: una “macelleria messicana” a esecuzione italiana e regia internazionale, una inequivocabile manifestazione dell’avvenuto – e costitutivo – divorzio tra democrazia e processi di globalizzazione, con gli orrori di Bolzaneto, le torture alla scuola Diaz e l’evidenza di apparati di polizia intrisi di cultura fascista e di omertà mafiosa, come hanno ben riscostruito una delle figure italiane più rappresentative di quel movimento e una delle vittime dei massacri (Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci, L’eclisse della democrazia – Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova, Feltrinelli, 2011).

Tuttavia, ancora due anni dopo quel composito movimento globale dimostra una vitalità e dimensione sorprendenti: il 15 febbraio 2003 in ogni angolo del pianeta, contemporaneamente, si manifesta “Contro la guerra, senza se e senza ma”. Centodieci milioni di persone, un evento unico da sempre. Il giorno successivo il “New York Times” definisce quel movimento «la seconda potenza mondiale».

Quel movimento non esiste più, quanto meno nelle forme e forze di allora, pur se esistono encomiabili tentativi di tenerne in vita almeno intuizioni e tensioni con il World Social Forum, nell’agosto 2016 convocato a Vancouver.

Del “movimento dei movimenti” non si ricorda né l’origine, né la fine: nel quindicennale dell’uccisione di Carlo Giuliani solo una piccola e orgogliosa pattuglia di giovani ed ex giovani ha voluto ritrovarsi con i genitori di Carlo in quella piazza Alimonda, alcuni con ancora sul corpo le cicatrici di quei giorni di infamia istituzionale.

Se la seconda potenza mondiale si è frammentata, ammutolita e sin quasi dissolta, le sue ragioni sono più che mai attuali ed evidenti e le sue analisi continuano a costituire un giacimento anche di proposte, che magari negli Stati Uniti riescono a contaminare positivamente il programma di un candidato alle presidenziali come Bernie Sanders e in Spagna quello di Podemos, ma che in generale non sono riuscite a cambiare la politica e a influenzare le grandi scelte. Ciò non fa venire meno la rilevanza del fatto che hanno avuto ragione quelle associazioni, quei sindacati, quei pezzi di società che ammonivano sui rischi della finanziarizzazione dell’economia, sui pericoli connessi alla cessione di poteri e prerogative da parte dei governi e dei Parlamenti a favore di organismi privi di rappresentatività democratica come il FMI, la Banca Mondiale, la WTO. Che hanno contrastato prima la stessa Organizzazione Mondiale del Commercio e poi l’intervento militare in Iraq. Che hanno denunciato gli interessi privati dei George Bush, dei Dick Cheney e dei Donald Rumsfeld, le scelte criminali e le complicità dei Tony Blair.

Oggi è il Rapporto Chilcot che documenta quanto quelle scelte interessate e scellerate abbiano devastato e destabilizzato l’intero Medio Oriente. Ci sono voluti sette anni e decine di milioni di sterline per portare a termine l’inchiesta commissionata nel 2009 dal governo britannico a una Commissione guidata da sir John Chilcot e tradotta in un Rapporto sviluppato in ben 12 volumi, ufficializzando quel che il movimento, e quel po’ di giornalismo indipendente che ancora faticosamente sopravvive, denunciava a chiare lettere e ad alta voce da subito, ovvero la volontà preordinata e rapace di dare il via a un intervento militare ingiustificato e capzioso.

 

La destabilizzazione del mondo e gli interessi delle corporation

Nel frattempo, la guerra di Bush e Blair ha prodotto, solo in Iraq, oltre un quarto di milione di morti, destabilizzando a catena tutta l’area, sino alla guerra siriana, divenuta, oltre che un mattatoio e un deserto di rovine, la causa principale delle ondate migratorie; che, a loro volta, stanno contribuendo a destabilizzare la già fragile Unione dell’Europa.

Allo stesso modo e su un altro piano, solo apparentemente meno cruento e disastroso, gli avvenimenti mondiali, con la crisi scoppiata nel 2007, hanno dimostrato la fondatezza dell’analisi di quel movimento e, all’inverso, il fallimento di una globalizzazione basata sulla libertà assoluta delle corporation e della grande finanza. Così come gli studi scientifici registrano con evidenza crescente quanto fossero centrati e realistici gli allarmi sul degrado del pianeta, sui cambiamenti climatici e sui loro drammatici effetti, già presenti e futuri.

Insomma, quel movimento diceva e spiegava che i grandi mali che stanno deteriorando le condizioni di vita e compromettendo il futuro sono tutti intrecciati tra loro: disuguaglianze, guerre, migrazioni, olocausto ambientale, diritti umani. Verità confermate dai fatti nel quindicennio successivo, ma ancora negate e avversate. Prenderne atto, infatti, comporterebbe mettere radicalmente in discussione il sistema e l’attuale modello, in ogni sua articolazione.

Così come il trauma dell’11 settembre 2001 non ha portato a resipiscenze, ma anzi è stato strumentalizzato per destabilizzare il mondo e per annichilire quel movimento antisistema che voleva “cambiare il mondo senza prendere il potere”, così la crisi economica in corso dal 2007, invece di portare a un drastico ridimensionamento del potere della finanza speculativa che l’ha provocata, sta traducendosi in un’accelerazione dei processi tecnocratici, da un lato, e populistici, dall’altro, che stanno modificando in radice in senso autoritario e antidemocratico le istituzioni rappresentative, a partire dal quadro europeo.

«L’ultimo quarto di secolo ha segnato il trionfo della globalizzazione dei mercati e della finanza internazionale, divinità inique di una società ingiusta. Poteri opachi e irresponsabili, molto più potenti dei governi nazionali, fuori da qualsiasi controllo che abbia una parvenza di democrazia. Totem intoccabili e vendicativi davanti ai quali si è prostrato il pensiero debole delle élite sia in Europa che in America […] il paradosso delle nostre democrazie: stanno entrando una dopo l’altra in crisi attraverso l’esercizio più democratico che vi possa essere, il voto popolare. È già accaduto con il referendum britannico, può accadere negli Stati Uniti di Trump, è in incubazione nella Francia di Marine Le Pen. Altro che sistemi elettorali e riforme costituzionali, intorno a cui ci arrabattiamo noi italiani» (Luigi Vicinanza, Quando le religioni si sostituiscono alla politica, “L’Espresso”, 28 luglio 2016).

A distanza di qualche lustro, insomma, nell’epoca del dominio incontrollato della finanza e per colpa dei suoi effetti, il mondo e l’Europa sono scossi e messi a rischio dal ritorno delle piccole patrie e delle frontiere blindate, dai populismi contagiosi e avvelenati di una democrazia che si autoerode. Mentre in alto il capitalismo diventa sempre più globale e imperiale, in basso lo spaesamento diventa arroccamento identitario e perimetrazione egoistica.

Sotto l’urto dell’austerity, della crisi, delle guerre, dei flussi dei profughi, la risposta politica alla crisi – peraltro vistosamente strutturale –, mutatis mutandis, avviene a destra, per usare categorie del Novecento, forse troppo frettolosamente archiviate. Non un’uscita dalle catene della globalizzazione liberista nel segno dei diritti dei più deboli e della giustizia sociale, ma in quello dei recinti e del diritto del più forte, della xenofobia, del rancore dell’ex ceto medio impoverito.

Le forze politiche che più cavalcano i risentimenti verso l’Europa delle banche, ottenendo crescenti e preoccupanti consensi in diversi Paesi, a partire dalla Francia, non sono però l’alternativa a quel sistema, ne costituiscono piuttosto una variante e uno strumento. Un «violento declino della democrazia», che non riguarda solo l’Europa, come ha ricordato Noam Chomsky a proposito della campagna elettorale di Donald Trump, che ha fatto emergere negli USA «situazioni analoghe a quelle del Nord Europa con episodi di xenofobia, rabbia, paura: la popolazione bianca, che ha una forte tradizione di supremazia bianca, è attraversata però da un inquietante e nuovo fenomeno demografico: c’è un aumento del tasso di mortalità tra i maschi bianchi della classe lavoratrice (35-55 anni) e questo non era mai accaduto in un paese sviluppato e non in guerra» (Chomsky: «Vergognosa l’Europa su Siria e Turchia», intervista a cura di Virginia Tonfoni, “il manifesto”, 15 settembre 2016).

Ecco: la paura è una delle chiavi indispensabili per decifrare e comprendere come e perché i ceti e le persone colpite dalla crisi siano vittime di quello strabismo che si traduce nella più classica delle guerre tra poveri, o meglio tra gli ultimi e i penultimi della fila.

 

Crisi di sistema

La “lotta di classe dall’alto” in pochi decenni ha cambiato il mondo, non solo i rapporti di forza a favore dei ceti dominanti. Sotto alcuni aspetti quei cambiamenti non sembrano neppure reversibili. Vero è che la crisi è di sistema, lo scriviamo e documentiamo da tempo. Eppure non appare messo in discussione il mantra sulla crescita, anche se ormai essa si gioca su percentuali risibili, né la contradditoria religione dell’austerità, che ha prodotto e sta producendo guasti economici e devastazioni sociali.

L’approfondirsi delle diseguaglianze, la proliferazione delle guerre (calde e fredde), il correlato esodo di intere popolazioni, la progressiva catastrofe ambientale sono altrettanti capitoli di questa crisi strutturale. Risvolti di essa, in Europa ma non solo, sono lo vuotamento dei processi e degli istituti democratici, con il rafforzamento dei poteri dell’Esecutivo e riforme elettorali mi-rate a rendere controllabili e comunque ininfluenti i Parlamenti; la sterilizzazione del welfare state; la manomissione delle Costituzioni antifasciste nate nel secolo scorso; la messa in mora dei sindacati e le radicali (contro)riforme del lavoro (cui è dedicato il nostro Focus del primo capitolo, che analizza quelle intervenute o in corso in Italia, Francia e Belgio), con massime libertà per le imprese, a partire da quella di licenziare; l’ulteriore restrizione della libertà di stampa e del pluralismo dell’informazione.

Alcune di queste misure erano state richieste all’Italia dalla Commissione Europea nella famosa lettera del 2011, altre sono state indicate dalla potente JP Morgan. Ma prima di loro erano state immaginate e strutturate in un vero e proprio programma di governo (il Piano di rinascita democratica) dalla massoneria di Licio Gelli. Che citiamo non per agitare vecchi e consunti spauracchi, ma per evidenziare quanto la strategia di restaurazione globale di un nuovo ordine autoritario e delle ragioni primarie e assolute del profitto di impresa, dopo le conquiste democratiche, sociali e sindacali degli anni Sessanta e Settanta, fosse in campo da tempo, quanto meno dagli anni Ottanta del secolo scorso. Allorché la crisi di sovrapproduzione e la contemporanea discesa vertiginosa del saggio di profitto evidenziavano la debolezza e arretratezza, politica e progettuale oltre che economica, della grande impresa; tra il 1970 e il 1980, negli USA come in Europa, la diminuzione dei tassi di profitto rispetto al capitale investito era stata di circa 5,5 punti percentuali.

Secondo lo storico Ignazio Masulli (Chi ha cambiato il mondo? La ristrutturazione tardocapitalista, 1970-2012, Laterza, 2014), quella situazione mise i poteri economici transnazionali di fronte a un bivio: o innovare sistemi di produzione, di relazioni industriali, di organizzazione del lavoro e ridisegnare complessivamente il patto sociale, attraverso adeguati investimenti e un nuovo e più avanzato compromesso capitale-lavoro, oppure cercare scorciatoie che riguadagnassero nell’immediato margini maggiori di potere e di profitti. La strada scelta fu questa seconda. I mezzi furono: le delocalizzazioni produttive in aree periferiche, dove conflitti, diritti e salari potessero essere facilmente compressi e i vincoli fiscali e ambientali elusi; un grande impulso all’automazione, grazie alla microelettronica; la tendenziale deindustrializzazione con il parallelo spostamento degli investimenti nel campo finanziario. Contemporaneamente, nei Paesi industrializzati veniva portato avanti un imponente ridimensionamento dei diritti e dei salari dei lavoratori conquistati nel ciclo precedente.

 

La rivincita del capitale

Il neoliberismo che sta governando la globalizzazione è nient’altro che una reazione e una rivincita riguardo alle conquiste dei lavoratori progressivamente avvenute dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Settanta nei Paesi a maggiore industrializzazione, ovvero nei punti alti dello sviluppo capitalistico. Fatto sta che, in meno di vent’anni, dal 1990 al 2009 la quota salari sul PIL italiano è diminuita di 7 punti, dal 62 al 55%, equivalenti a quasi 110 miliardi, trasferiti ai profitti e alle rendite. Minori, ma sempre significative, le percentuali negli altri Paesi europei nel medesimo periodo: 5% in Germania, 4% nel Regno Unito, meno del 3% in Francia; Italia e Germania sono, in effetti, i Paesi a più alta diffusione del precariato, condizione che sempre si associa al basso salario. In generale, nella UE15 dagli anni Ottanta all’inizio della crisi nel 2007, la quota salari sul PIL è diminuita di ben 10 punti, passando dal 68% al 58%. Questo ridimensionamento, peraltro, è tuttora pesantemente in corso, come dimostrano il Jobs Act italiano, la Loi Travail in Francia e la Loi Peeters in Belgio.

La redistribuzione della ricchezza e del reddito dal basso verso l’alto viene definita da Luciano Gallino «il più drammatico mutamento sociale degli ultimi trent’anni»: «La caduta della quota salari in quasi tutti i Paesi OCSE è stata soltanto un aspetto di tale redistribuzione alla rovescia, che facendo crescere a dismisura le diseguaglianze ha contribuito non poco a preparare la crisi esplosa nel 2007» (Come - e perché - uscire dall’euro, ma non dall’Unione Europea, Laterza, 2016).

L’intreccio e la disamina di questi elementi porta a comprendere le radici del-la crisi attuale e quanto l’economia sia divenuta interamente dipendente dalla finanza e dal “tribunale delle Borse”:

«Lo scopo principale delle aziende è diventato quello di soddisfare le esigenze e aspettative degli azionisti. Il che ha condotto a una valutazione dei risultati delle aziende in base all’apprezzamento maggiore o minore dei loro titoli finanziari, invece che sulla base dei risultati raggiunti in termini propriamente produttivi e di mercato. D’altro canto la rincorsa alla concentrazione tecnico-produttiva in rapporti di scala sempre più ampi ha ulteriormente rafforzato il ruolo del capitale finanziario in tutti i settori» (Ignazio Masulli, Le tre ancore dell’economia globale, “il manifesto”, 30 agosto 2016).

Un circolo vizioso ormai difficile da interrompere, tanto più in assenza di una capacità di governo dell’economia da parte della politica e degli istituti democratici e parlamentari. Basti guardare a un altro eloquente dato, riferito sempre da Masulli: a fronte dei milioni di disoccupati prodotti dalla crisi in Europa (a luglio 2016 nell’UE28 erano disoccupati 21.063.000 uomini e donne, di cui 16.307.000 nella zona Euro; dal 2008 solo l’Italia ha perso 1.600.000 posti di lavoro), il flusso degli investimenti dei singoli Paesi continua a indirizzarsi in misura cospicua all’estero: quelli operati da imprese non finanziarie nel 2015 in Italia sono stati pari al 25% del PIL, in Francia al 51%, in Germania al 42%, nel Regno Unito al 54% (la minore percentuale italiana, in questo caso, testimonia quanto nel nostro Paese le condizioni siano già molto sbilanciate a favore degli interessi dell’impresa).

Nonostante aumenti di produttività, diminuzione di salari e rarefazione dei conflitti, insomma, il capitale preferisce spostarsi nei Paesi in via di sviluppo e nell’Est europeo, divenendo al tempo stesso sempre più concentrato, quanto a potere, e sempre più disseminato geograficamente, capace così di colonizzare nuovi mercati e di imporre i propri modelli. Ciò anche grazie al land grabbing, vale a dire l’accaparramento di terre che sottrae quote crescenti di territorio agli interessi dei singoli Paesi a favore dei progetti multinazionali, con, in molti casi, sensibili rischi per la sicurezza alimentare. Ad esempio, dal 2000 al luglio 2016 le terre accaparrate in Sudafrica sono arrivate a 302.000 ettari, a fronte dei 3.998.410 utilizzati per la produzione di cereali; in Argentina 2.418.000 ettari accaparrati rispetto ai 12.185.670 coltivati; in Brasile 4.213.000 su 21.850.734 coltivati (http://landmatrix.org).

Il mondo è in vendita, e gli acquirenti sono voraci e insaziabili.

Grazie ai tre assi portanti della ristrutturazione tardocapitalista, delocalizzazione, automatizzazione, finanziarizzazione, «i Paesi di più antico sviluppo hanno stabilito solide alleanze con i gruppi dominanti tradizionali e i nuovi ceti in ascesa in grandi paesi dell’Asia, Africa e America Latina inducendoli a perseguire modelli di sviluppo e processi di modernizzazione affatto simili. E là dove tali allineamenti hanno incontrato resistenze, si è ricorso a ogni tipo di pressione, economica, politica e, all’occorrenza, militare. Il risultato è un sistema di potere economico, finanziario, tecno-militare, politico e mediatico, tanto concentrato, quanto esteso e pervasivo». Questa convincente narrazione di Masulli sintetizza molto bene lo sviluppo storico della globalizzazione neoliberista, affermatasi nei primi anni Ottanta con il reaganismo, il thatcherismo e condivisa dalle (ex) socialdemocrazie europee agli inizi degli anni Novanta. Contemporaneamente, è una delle chiavi di lettura che aiutano a comprendere l’attuale espansione delle formazioni populiste, nazionaliste e xenofobe che dalla Francia alla Germania, passando per l’Austria e il Nord Europa vedono un crescente consenso anche elettorale.

Un’altra chiave di lettura, forse meno frequentata, la suggerisce un altro storico, Valerio Castronuovo, secondo cui un ulteriore ingrediente che in quei frangenti consentì l’incontrastato affermarsi di quella strategia fu la scomparsa di paradigmi alternativi e il rovinoso franare della maggiore esperienza storica di economia pianificata: «Venne meno in quel periodo l’esigenza di confrontarsi, sul terreno politico e sociale, con il sistema economico collettivista, talmente minato dalle sue disfunzioni interne e da un dirigismo burocratico, da non apparire più un modello alternativo, come sembrava in passato, e anzi prossimo al collasso, al pari dell’Unione Sovietica, il Paese guida del “socialismo reale”. Ciò che valse a dare le ali, col concorso della deregulation di Reagan e della Thatcher, al revival di un neo-liberismo mercatista, tendente a divenire altrettanto dogmatico che pervasivo, e sfociato, dagli inizi del nuovo secolo, nel sopravvento del capitalismo finanziario sull’economia reale e nell’amputazione dello “Stato sociale”» (Valerio Castronuovo, Quarant’anni di neoliberismo, “Il Sole-24 Ore”, 17 agosto 2014). A ricordare nessi e interdipendenze tra economia, storia e geopolitica e anche tra economia e ideologia.

Eppure, la “lunga marcia” dell’affermazione neoliberista è assai precedente: è una strategia che prende le mosse già nel 1947, con la fondazione in Svizzera della Mont Pelerin Society (MPS), da parte di un piccolo gruppo di economisti e pensatori, chiamati a raccolta da Friedrick von Hayek, come racconta Luciano Gallino nel suo ultimo libro, uscito postumo e che raccoglie una serie di articoli pubblicati negli anni scorsi (Come - e perché - uscire dall’euro, ma non dall’Unione Europea, Laterza, 2016). Grazie all’espansione e al capillare lavoro di quel gruppo iniziale, divenuto “intellettuale collettivo”, all’inizio degli anni Ottanta, «le dottrine economiche e politiche neoliberali avevano occupato tutti gli spazi essenziali nelle università e nei governi». Basti un esempio, decisamente eloquente: nel periodo del suo mandato di presidente degli Stati Uniti, tra i 76 consiglieri economici di Ronald Reagan, 22 erano membri della Mont Pelerin Society. Oppure basti sapere, come ricorda Gallino, che il grande piano di liberalizzazioni finanziarie varato dal governo Thatcher nei primi anni Ottanta fu in buona parte elaborato da una filiazione della Mont Pelerin Society, l’Institute of Economic Affairs.

Pur senza concessioni a visioni complottistiche della Storia, tutto ciò ci richiama però alla progettualità e intenzionalità che indirizza non solo la politica ma pure le politiche economiche, la “scienza triste”. Osservazione solo in apparenza banale, se si considera come e quanto, in questi decenni, l’economia di mercato e la sua asserita capacità di autoregolamentarsi siano state presentate, e infine quasi unanimemente accettate, come dogma indiscutibile. Certo appare del tutto fondata l’affermazione del compianto sociologo torinese secondo cui «gli economisti formato MPS hanno predisposto i dispositivi che hanno prodotto la Grande Crisi; non l’hanno vista arrivare; non hanno saputo spiegarla; e hanno proposto rimedi che hanno peggiorato la situazione. Ad onta di tutto ciò, continuano a occupare il ponte di comando delle politiche economiche della UE».

 

La polveriera instabile di Borse e Banche

Tanto è vero che, a differenza delle retoriche e degli atti di fede su cui si reggono le chiese della religione neoliberale, vale a dire le Borse, i fatti sono più difficilmente opinabili. In questo caso, i fatti sono numeri, e ci dicono che la finanza non ne è strumento, come dovrebbe, ma governa l’economia (e il mondo): il volume dei prodotti finanziari altamente speculativi come i derivati assomma a 550.000 miliardi di dollari; aggiungendo circa 80.000 miliardi di obbligazioni e 60.000 miliardi di capitalizzazione delle Borse mondiali si arriva all’incredibile cifra di 700.000 miliardi, o 700 trilioni che dir si voglia, ovvero quasi dieci volte l’intero prodotto interno lordo globale (Federico Rampini, Banche: possiamo ancora fidarci?, Mondadori, 2016).

Questa massa enorme è il prodotto del processo di finanziarizzazione dell’economia cresciuto in questi decenni senza alcun contrasto dei poteri pubblici e costituisce una polveriera a costante rischio di esplosione. Come bene ha spiegato Luciano Gallino (e prima di lui Karl Marx), secondo cui la finanziarizzazione, in sostanza, è «un gigantesco progetto per generare denaro mediante denaro […], ma si tratta di “denaro fittizio”, in quanto non è appoggiato ad alcun bene reale. Il che significa che così come è stato creato velocemente senza avere nulla alle spalle, altrettanto velocemente può sparire (Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia, Einaudi, 2009). È forse questo l’elemento maggiore di perversa genialità del capitale finanziario: ha costruito un castello di carte, fragilissimo e costantemente esposto ai venti, ma trasformando la sua debolezza in forza, dal momento che la sua caduta sarebbe la caduta catastrofica dell’intero sistema globalizzato. Lo abbiamo imparato in questi anni, con le banche troppo grandi per fallire. E anche quando prevedibilmente i nodi degli eccessi speculativi vengono al pettine, come nel caso dei subprime, il fallimento viene trasformato in rilancio, in occasione di attacco a quel che resta dello Stato sociale, in operazione speculativa sui fondi sovrani, nello strangolamento della Grecia e della sua economia, a scoraggiare ogni altra e futura riottosità e tentativo di sganciamento dal sistema, in nuovo drenaggio di risorse pubbliche. «Camuffare la crisi da debito privato delle banche come una crisi da debito pubblico degli Stati: ecco il maggiore successo della retorica neoliberale», commenta Gallino nel libro uscito postumo.

Del resto, se molte multinazionali e banche hanno bilanci superiori ai PIL degli Stati, non è difficile capire chi comanda davvero nel mondo. Il colosso USA dei supermercati Walmart impiega 2,2 milioni di persone e realizza un fatturato di oltre 485 miliardi di dollari, come l’intero PIL dell’Argentina. Il bilancio della banca BNP-Paribas, quasi 2.000 miliardi di euro, equivale al PIL del Paese in cui ha sede, la Francia, la sesta più grande economia; eppure BNP è “solo” l’ottava banca a livello mondiale. La capitalizzazione di giganti come Google e Apple supera il PIL della Svezia, Polonia o Nigeria, il Paese più popoloso dell’Africa, con 180 milioni di abitanti.

Gigantismo, deregolamentazione, concentrazione sono le caratteristiche di questo vero e proprio governo mondiale. Interi settori vitali per l’umanità, come quello alimentare e dell’agrochimica sono nelle mani e nel potere di poche corporation. I tre quarti del mercato delle sementi sono posseduti da sole dieci multinazionali; la statunitense Monsanto, da sola, ha oltre un quarto del mercato globale (Qui gouverne le monde? L’État du monde 2017, a cura di Bertrand Badie e Dominique Vidal, La Découverte, 2016).

Se nelle fasi precedenti l’obiettivo della globalizzazione neoliberista era quello di trasformare il lavoro in una merce come le altre, ora è quello di approfondire e generalizzare l’arrembaggio ai beni comuni. I trattati di libero scambio TTIP e CETA (di cui parliamo nel Focus del quarto capitolo e anche nel se-condo, riguardo alle diseguaglianze nella salute e alla messa sul mercato di servizi essenziali) sono, al riguardo, una delle chiavi di volta, così come lo so-no state e sono tuttora le privatizzazioni.

Si guardi, riguardo all’Italia e di nuovo a solo titolo di esempio, alla vicenda della Cassa Depositi e Prestiti, che viene ricostruita qui in un’intervista a Marco Bersani, assieme al ruolo sempre più centrale e strategico che essa è venuta ad assumere dopo la sua privatizzazione. Del resto, l’Italia è l’unico Paese in Europa ad aver interamente privatizzato il proprio sistema bancario. Con gli effetti che proprio in questi ultimi tempi si sono resi ancor più manifesti, con 50 miliardi di debiti accumulati dal 2011 a oggi, con i 18.200 esuberi, di cui 6.900 in Italia, annunciati da Unicredit, con, da ultimo, il fallimento di Banca Etruria e altri tre istituti e la perdurante e costosa agonia di Monte dei Paschi.

 

Il pensiero debole delle sinistre di governo

Dietro alla conversione di gran parte delle sinistre europee di governo al neoliberismo, alla loro omologazione ideale e culturale, alla quasi scomparsa di opposizioni politiche che non siano quelle delle destre estreme e xenofobe, al lievitare incontrastato dei populismi nazionalistici, insomma, vi è anzitutto un profondo e decennale deficit di progettualità e di pensiero alternativo al catastrofico modello che ha avuto campo libero in oltre trent’anni.

Unica eccezione: la “seconda potenza mondiale” di cui dicevamo prima. Seconda, e di breve durata, di andamenti carsici e di pratiche politiche inefficaci. Che tuttavia ha lasciato semi potenzialmente fruttiferi, a volerli adeguatamente coltivare. Basti guardare al pensiero e alle proposte ecologiste, che hanno in-fine convinto e contagiato un’altra potenza mondiale, poiché tradotte e rilanciate autorevolmente lo scorso anno nell’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco. O, nel campo della politica, si guardi al testimone di Occupy Wall Street raccolto da un candidato alla presidenza degli Stati Uniti non certo di secondo piano come Bernie Sanders: di fronte agli studenti della University of New Hampshire, «Sanders ha detto che è ora di farla finita con la deregulation delle banche e con gli accordi commerciali scritti dalle multinazionali con la scusa di una prosperità che poi arriva solo ai ricchi speculatori causando precariato, sottoccupazione, delocalizzazioni, povertà. Ha detto che l’educazione deve es-sere accessibile a tutti e pubblica, e così la sanità, che Wall Street truffa la gente e controlla la politica, che bisogna lottare per creare più uguaglianza economica e un mondo più umano. Parole nuove, che osano mettere in discussione l’egemonia politica, economica e anche culturale del neocapitalismo liberista, che rifiutano di vedere nella globalizzazione un destino manifesto» (Francesco Erspamer, “Voce di New York”, 13 febbraio 2016, citato in Paolo Maddalena, Gli inganni della finanza, Donzelli, 2016).

Anche in Europa, con la nuova leadership del Labour passata a Jeremy Corbyn, l’infatuazione centrista e liberista delle sinistre di governo perde un pezzo importante, se si guarda alle intenzioni programmatiche del nuovo leader, che propone di smettere di elargire risorse alle banche e di pensare invece a un “Quantitative easing for the people”; che immagina un piano di investimenti per l’edilizia e per le infrastrutture, rimettendo tra le priorità i diritti dei lavoratori, la protezione dell’ambiente, lo Stato sociale, la lotta alla povertà minorile, la fine delle concessioni e privilegi fiscali alle multinazionali; che, anche in materia di diritti civili, intende affrontare temi come il multiculturalismo, la discriminazione di genere e i matrimoni gay; che si sintonizza con il popolo pacifista dichiarando di volere la cancellazione del programma di missili nucleari Trident e la cessazione delle forniture di armi all’Arabia Saudita, uno dei Paesi meno liberi del mondo, tra i mallevadori e finanziatori dell’ISIS (il regime saudita è uno dei migliori clienti dell’industria bellica dell’Italia, i cui governanti di centrosinistra, invece, non appaiono per nulla da ciò turbati).

Per quanto sia stretta la porta, questo è il punto: senza costruzione di un pensiero di alternativa, economica e politica, senza una capacità di egemonia culturale sulla società, o almeno su sue importanti parti, non vi è possibilità trasformativa in grado di sottrarre il mondo dal disastro attuale e dall’ancor maggiore catastrofe incombente. Una catastrofe – non spaventi la parola, semmai occorre preoccuparsi della realtà cui questa descrizione rimanda – ecologica e umanitaria, prima di tutto.

 

Costituzioni e sindacati, ultimi baluardi della democrazia

Arruolati o convertiti i ceti politici, “il colpo di Stato di banche e governi e l’attacco alla democrazia in Europa”, per citare il titolo di un altro importante libro di Luciano Gallino, trovano ancora un punto di resistenza nelle Costituzioni democratiche. Da qui l’esplicitazione della necessità di una loro revisione venuta da parte di una delle più potenti banche di affari del mondo, la JP Morgan, come già abbiamo riferito nel nostro Rapporto del 2014. Di nuovo, non si possono non cogliere precise assonanze con il precursore programma della Loggia P2. Indubbiamente, per rimanere all’Italia, l’ingegneria costituzionale della Carta è un delicato ma perfetto strumento sapientemente costruito per garantire l’inalienabilità dei diritti democratici e per perpetuare una sottostante filosofia di giustizia e di emancipazione sociale. Filosofie e letteralità decisamente antitetiche alla religione neoliberista, i cui alfieri e istituti non possono dunque che cercare di abbattere. Si legga, per fare un solo esempio, l’articolo 41, laddove recita che l’iniziativa economica privata è sì libera, ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

Diventa allora più facile comprendere come i ricorrenti tentativi di mettere mano all’architettura istituzionale disegnata dalla Carta nella Parte seconda facilmente o inevitabilmente siano propedeutici alla revisione della Prima parte e degli stessi principi generali.

L’altro baluardo indubbiamente è il sindacato. Non già perché arroccato in difesa del passato e dei privilegi di una sola parte dei lavoratori, come vogliono i suoi detrattori, ma perché rimane l’ultima organizzazione di massa capace di proposta, di iniziativa e di efficacia nella tutela non solo dei propri associati ma dei diritti e delle libertà di tutti. Come, ad esempio, sui Trattati di libero scambio TTIP e CETA, rispetto ai quali, scrive qui nella sua Prefazione il segretario generale della CGIL Susanna Camusso, crescono le resistenze, soprattutto in Europa. Capacità di proposta e d’indicazione di alternative e dovere di critica e di resistenza sono due facce complementari di una stessa medaglia e di uno stesso obiettivo: quello dei diritti nel e del lavoro e, in generale, della giustizia sociale.

Si tratta di una forza d’urto che, quando sa e vuole creare alleanze e ricomposizione sociale, diventa un potente grimaldello capace di forzare il dominio incontrastato del liberismo. Lo abbiamo visto nei mesi scorsi anche in Francia, con il grande movimento contro la Loi Travail, che ha avuto la sua spina dorsale nella Confédération Générale du Travail (CGT), guidata da Philippe Martinez, oltre che nei giovani mobilitati nella Nuit Debout. Che quella legge sia infine passata, grazie all’imposizione da parte del governo Valls del meccanismo costituzionale 49.3, che evita il confronto e il dibattito esautorando il Parlamento, è certo rilevante, ma non decisivo. Altrettanto e strategicamente importante è che una lotta di tale portata e durata – che ha saputo mettere e tenere assieme lavoratori, studenti, precari e cittadini di tut-to il Paese, nonostante la pesantezza della repressione scatenatasi contro le piazze e in un frangente di Stato d’emergenza e di leggi di eccezione – abbia dimostrato che lottare è possibile, che una trasformazione radicale è pensabile. Le lotte sociali e sindacali, specie se sanno dialogare e riunirsi, sono una grande palestra, un’ineguagliabile scuola dove si costruisce e si pratica democrazia, dove si vive una diversa socialità, dove si acquisisce e si affina un’intelligenza critica collettiva; dove, infine, si torna a immaginare un altro mondo possibile: il che è il primo necessario passo per la sua affermazione.

 

Davide contro Golia. Le resistenze crescono

«Nella foresta scoppia un incendio, tutti gli animali fuggono, solo un colibrì vola fino al fiume, si riempie d’acqua il minuscolo becco e riparte velocemente per versarne il contenuto sulle fiamme. E continua così, andando avanti e indietro per tutto il giorno, fino a quando un ippopotamo gli fa notare che quelle poche gocce su un incendio così grande sono ridicole; lui risponde: forse, ma faccio la mia parte. La parte del colibrì, per i miei amici di Calais, consisteva, quando i migranti occupavano ancora gli edifici abbandonati nel centro della città, nel portargli cibo, coperte, vestiti, nel discutere con loro, e ora che li hanno evacuati e trasferiti nella Giungla, nel fare più o meno la stessa cosa, ma un po’ meno spesso. Si sentono in colpa, si chiedono angosciati quanto coraggio avrebbero dimostrato sotto l’Occupazione [nazista, ndr], gli piacerebbe impegnarsi di più – proprio come piacerebbe a me, che nel quartiere in cui vivo, a Parigi, avrei a disposizione tutti gli afgani e i curdi del mondo, se solo volessi essere un colibrì più energico» (Emmanuel Carrère, A Calais, Adelphi, 2016).

Con parole diverse, Noam Chomsky sembra esprimere lo stesso concetto quando, guardando al quadro mondiale, ferito dalle guerre neocoloniali, dal-lo strapotere delle multinazionali e dal terrore globale, il cui più grande artefice, secondo il linguista e filosofo statunitense, è peraltro proprio l’Occidente, scrive: «Ci sono in gioco due tendenze simultanee. Dall’esterno sembrerebbe che la traiettoria principale porti dritto al suicidio, come se corressimo a precipizio verso il baratro. D’altra parte, però, è in atto una resistenza che cresce ogni giorno di più, e che finora ha portato a qualche risultato. Negli ultimi trenta o quarant’anni sono stati fatti diversi passi avanti, alcuni di una certa rilevanza. Il punto è: quale di queste due alternative avrà la meglio? Volendo essere realistici, non è che vi sia troppo spazio per la speranza, ma abbiamo solo due scelte. Possiamo dire: “Non c’è speranza, mi arrendo”. E a quel punto saremo certi che il peggio arriverà. Oppure possiamo dire: “Va bene, voglio fare qualcosa per migliorare le cose, quindi ci provo”. Se funziona bene, altrimenti possiamo sempre tornare alla scelta peggiore. È l’unica alternativa che abbiamo» (Noam Chomsky con Andre Vltchek, Terrorismo occidentale, Ponte alle Grazie, 2015).

Un’esemplificazione della fondatezza di quest’affermazione l’abbiamo sotto gli occhi, da anni nella Valle di Susa e, più di recente, a Calais appunto, a Ventimiglia o a Como dove singoli cittadini e piccoli gruppi organizzati (dai centri sociali alle associazioni cattoliche) si sono attivati per portare solidarietà concreta ai migranti bloccati da polizie e frontiere, a fronte dello scaricabarile istituzionale, delle aggressive campagne mediatiche e del soffio mefitico dei razzismi in doppiopetto o coi manganelli.

In quei luoghi, e in altri simili, diffusi e invisibili, si sono confrontate due visioni, e due pratiche, del mondo.

La lunga lotta della Valle di Susa ha visto, proprio come a Genova nel 2001, mischiarsi sino a diventare un indistinto corpo unico, anziani e ragazzacci dei centri sociali, anarchici e ferventi credenti, insegnanti e operai, agricoltori e creativi, sindaci e autonomi. Un popolo. Un mondo. Un mondo possibile, con i suoi stili di vita, la sua socialità, le sue differenze, ma soprattutto la sua alterità rispetto ai valori dominanti, a partire da quelli che hanno cercato di colonizzare e depredare il loro territorio e la loro vita, finendo per essere manifestamente nient’altro che un’occupazione militare, con il corollario di violenze poliziesche, arresti e denunce, sino al ridicolo (se non fosse lesivo della libertà e della dignità delle persone) di ultrasettantenni sottoposti a misure di prevenzione e ad arresti domiciliari. Una sequela impressionante di interventi giudiziari, «una strategia diretta a reprimere in modo indifferenziato il dissenso», ha scritto l’ex magistrato Livio Pepino in polemica con la Procura di Torino, ricordando che gli indagati per reati connessi con l’opposizione al TAV, anche di rilevanza minima, sono stati negli ultimi anni ben più di 1000, erano 987 già a fine dicembre 2013 (Livio Pepino, No TAV, la Procura dialoga? Partiamo da qualche domanda, “il manifesto”, 15 luglio 2016).

Un esempio paradigmatico della supremazia (che in questo caso diventa anche supre-mafia, dati gli inquinamenti venuti alla luce) della logica schiacciasassi delle Grandi opere, quasi mai davvero necessarie o anche solo utili, ma sempre capaci di garantire larghi profitti. A tutto discapito dell’ambiente e dei territori, oltre che delle finanze e degli interessi pubblici. L’infrastruttura dell’alta velocità in Valle di Susa costerà 8,6 miliardi di euro (sulla carta, dato che non esiste precedente di Grandi opere che non abbia visto lievitare e talvolta raddoppiare i costi previsti in partenza). Più o meno la stessa cifra ipotizzata per il Ponte sullo Stretto, altra opera inutile ma dispendiosa che da molti anni si cerca ricorrentemente di portare avanti, dato che il Partito delle Grandi opere e degli appalti è assolutamente bipartisan e risorge a ogni cambio di governo. «Quanti borghi e città avremmo reso antisismici con tutti questi quattrini pubblici? Ma se i piloni del Ponte non ci sono, la talpa in Val di Susa sì», chiedeva e scriveva un giornalista de “L’Espresso” all’indomani del terremoto in Centro Italia che ha causato quasi 300 vittime, devastando in particolare la cittadina di Amatrice (Giovanni Tizian, TAV. E intanto si spreca, “L’Espresso”, 4 settembre 2016).

Solo pochi giorni dopo quel servizio giornalistico, tuttavia, è arrivato un annuncio del presidente del Consiglio che depone per il fatto che, invece, i piloni del Ponte potrebbero presto esserci: Matteo Renzi, a un’assemblea del gruppo Salini-Impregilo al quale era invitato, ha infatti rilanciato la grande opera: «Se siete nella condizione di sbloccare le carte e di sistemare quello che è fermo da 10 anni noi ci siamo». Trovando naturalmente immediate disponibilità: l’appetito dei divoratori di denaro pubblico non viene mai meno. Il progetto, lanciato da Silvio Berlusconi al tempo della sua presidenza del Consiglio, era stato bocciato da schiere di ingegneri, geologi, economisti e infine abbandonato. «Non si sa con esattezza quanti soldi siano stati bruciati negli ultimi vent’anni tra carte, studi, progetti preliminari e plastici. Una stima al ribasso indica la cifra di 600 milioni di euro buttati. Per stabilizzare definitivamente i 26 mila precari dei comuni siciliani, figli della politica clientelare dei partiti in Sicilia, ne basterebbero la metà» (Alfredo Marsala, Renzi cambia rotta e balla sullo Stretto, “il manifesto”, 28 settembre 2016). Con la decina di miliardi previsti per l’intera opera, collocata peraltro in area a forte rischio sismico, invece, si potrebbe mettere in sicurezza l’intero territorio, prevenendo così le tante e ricorrenti morti, come quelle di Amatrice. Vittime in gran parte evitabili, come molte di quelle ciclicamente provocate dal dissesto idrogeologico e dalla cementificazione selvaggia del Bel Paese. Ma la manutenzione ordinaria e straordinaria del territorio, le misure di prevenzione antisismica, i controlli e la repressione antiabusivismo evidentemente non consentono i lauti profitti invece garantiti da TAV e Ponti, da grandi opere e da grandi eventi.

Dunque a quei profitti si arriva a sacrificare la libertà e vivibilità di intere aree, come appunto in Valle di Susa, che dal 2012 è divenuta zona militare a tutti gli effetti, essendo stata qualificata per decreto “area strategica di interesse nazionale”. «Una piccola Palestina alle pendici delle Alpi», l’ha definita Tizian. Dopo 25 anni dai primi progetti, dopo molti soldi pubblici spesi, dopo molti studi di fattibilità rivelatisi sballati, dopo molte consulenze milionarie, dopo molte teste rotte dai manganelli, dopo molti arresti, galera e processi, ora è divenuto senso comune che la linea ad alta velocità Torino-Lione non abbia molto senso né probabilmente futuro. A dimostrazione di come l’auspicio e l’invito di Chomsky a non arrendersi, a resistere, a provare a opporsi abbia una concretezza possibile.

 

Ambiente, lavoro e diritti umani

Non è la prima volta che Davide sconfigge Golia. Non sarà l’ultima. Molte di queste impari battaglie sono in corso, ma le conoscono solo i soggetti in campo, perché le resistenze, nell’epoca della globalizzazione neoliberista, so-no spesso un reato e sempre una realtà da rimuovere e da nascondere all’informazione e alla consapevolezza pubblica. Uno dei tanti esempi possibili lo racconta Naomi Klein:

«Gli abitanti delle isole Marshall, Fiji e Tuvalu sanno che il livello dei mari salirà tanto che probabilmente i loro paesi non avranno futuro. Ma si rifiutano di pensare al ricollocamento, e non lo farebbero neanche se ci fossero paesi più sicuri pronti ad aprire le frontiere. Questa è un’eventualità tutta da verificare, perché attualmente i profughi climatici non sono riconosciuti dal diritto internazionale. Preferiscono resistere attivamente: bloccando con le canoe le navi australiane del carbone o disturbando le conferenze internazionali sul clima con la loro scomoda presenza per chiedere interventi più decisi» (Naomi Klein, Let them Drown - The Violence of Othering in a Warming World, “London Review of Books”, 2 giugno 2016).

Questo è solo uno dei tanti conflitti ambientali in corso nel mondo. L’Atlante Globale della Giustizia Ambientale (http://ejatlas.org) ne è riuscito a censire già 1.846. In molti casi questi conflitti sono intrecciati alle violazioni di diritti umani, alle discriminazioni per arrivare a forme sottili ma sanguinose di genocidio di popolazioni indigene: nel 2015 almeno 185 attivisti e attiviste per i diritti umani sono stati assassinati in 16 Paesi, in particolare Brasile, Filippine e Colombia; in molti casi erano impegnati in battaglie ambientali, in particolare riguardo a miniere, dighe ed estrazione di legname. Circa il 40% delle vittime apparteneva a un popolo indigeno. Molti degli omicidi hanno rivelato collusioni tra Stato e imprese, oltre a vedere l’impunità dei responsabili. In 16 casi gli assassini erano legati a gruppi paramilitari, in 13 all’esercito, in 11 alla polizia e in altrettanti a vigilantes privati (Global Witness, On Dangerous Ground, 2016).

Si tratta di un altro, ma assai intrecciato, fronte della lotta globale per il lavoro dignitoso, contro lo sfruttamento, per le libertà sindacali e i diritti umani. Gli avversari molto spesso sono i medesimi: le multinazionali che, direttamente o indirettamente, sono responsabili di gravi violazioni, quando non della morte di chi si oppone alla religione neoliberista del massimo profitto e del saccheggio dei beni comuni. Violazioni in vistosa crescita, secondo l’annuale Rapporto del Sindacato internazionale: il numero di Paesi in cui i lavoratori sono stati vittime di violenza è aumentato da 36 nel 2015 a 52 nel 2016 (ITUC, Global Rights Index - The World’s Worst Countries for Workers, 2016). Violenza che in non rari episodi arriva all’omicidio: in almeno 11 Paesi sono avvenuti assassini di sindacalisti; tra questi la Turchia, cui la Commissione Europea ha appaltato, dietro lauto compenso, l’interruzione del flusso di profughi dalla Siria verso l’Europa, in una cinica “esternalizzazione” delle proprie frontiere. Di fronte alle necessità primarie del profitto non ci sono, infatti, diritti umani che tengano.

Da questa constatazione e per lottare contro questa diffusa realtà è nata a livello internazionale una vasta rete di gruppi, ONG e associazioni che lavora per promuovere un International Peoples Treaty, al fine di difendere i diritti umani e i diritti dei popoli contro il potere e l’impunità delle multinazionali, imponendo regole vincolanti e istituendo un Tribunale internazionale (http://www.stopcorporateimpunity.org, https://business-humanrights.org).

Le piccole resistenze dal basso crescono ovunque, e premono con determinazione su istituzioni europee e mondiali distratte o, più spesso, complici di questo stato di cose e co-responsabili delle tante vittime del profitto.

 

L’insurrezione delle coscienze

La leggenda del colibrì di cui scrive Emmanuel Carrère risale ai nativi americani (nella versione originale l’interlocutore del piccolo uccello è però un armadillo) ed è stata ripresa, raccontata e posta a base della sua intensa opera da Pierre Rabhi, filosofo, pioniere dell’agricoltura ecologica in Francia e mol-to attivo anche in Africa attorno ai temi della nutrizione e della giustizia alimentare. Iniziatore di tante esperienze e aggregazioni associative con al centro l’ecologia e l’umanesimo, nel 2007 ha fondato il Movimento Colibrì con l’obiettivo di «ispirare, collegare e sostenere i cittadini che scelgono uno stile di vita diverso», a partire da una «insurrezione delle coscienze».

Di fronte alle complessità sistemiche della globalizzazione potrebbe apparire ingenuo, eppure la coscienza, intesa come intima consapevolezza, è ciò che dirime e orienta i comportamenti individuali, ma anche concorre a comporre l’universo culturale e valoriale all’interno del quale questi si estrinsecano. È il “grado zero” da cui parte ogni azione umana. Propedeutico alla loro insurrezione è, però e perciò, il loro risveglio. E questo rimanda all’egemonia culturale oggi esercitata dai cantori dell’individualismo, dell’egoismo proprietario e del neoliberismo, alla concentrazione e monopolio dell’informazione che caratterizza questa fase storica e che manipola appunto le coscienze, quanto meno quelle che non hanno una sufficiente capacità critica nel conoscere e interpretare la realtà che ci circonda. Non è privo di significato che, assieme a quella del lavoro (con la finalità di disciplinare, ricattare e precarizzare i lavoratori, aumentando il tasso del loro sfruttamento e massimizzando i profitti dell’imprenditore), in questi anni abbia avuto centralità e binari privilegiati la riforma del sistema dell’istruzione e della scuola. L’obiettivo è di disinnescare alla radice ogni dissonanza rispetto alla narrazione mainstream, rimuovendone la possibilità già nella sfera dell’apprendimento e del linguaggio stesso, oltre che di adeguare le didattiche e piegare i curricoli alle esigenze dell’impresa.

 

La guerra è pace, la menzogna è verità

Come per perseguire la strategia criminale della “guerra permanente” la governance globale (una sorta di rinnovato complesso militare-industriale e politico, ovvero quel blocco di poteri e di interessi circa i cui pericoli ammoniva il presidente USA Dwight Eisenhower nel suo discorso di fine mandato nel gennaio 1961) si è inventata il giornalismo embedded, ovvero la scomparsa della realtà a favore della sua angolata rappresentazione, così nel progetto di rendere eterno e omnipervasivo l’attuale sistema di potere, caratterizzato dal capitalismo finanziario e dal neoliberismo, si intende subordinare a esso ogni sede, istanza, istituto che produca informazione, saperi e culture. Tutto ciò era già stato mirabilmente immaginato e preconizzato da George Orwell nel libro 1984. Fatto sta che oggi viviamo immersi in una grande menzogna, che già non appare più tale nella percezione comune. Tanto che, per tornare al titolo e al contenuto del citato testo di Chomsky, per terrorismo oggi intendiamo unicamente quello che, anche nei mesi scorsi, ha insanguinato di preferenza città francesi o, 15 anni fa, quella di New York.

Eppure, secondo dati pubblicati dal “Washington Post”, nell’intero 2015 le vittime di attacchi terroristici in Europa e nelle Americhe sono stati 456. Nel 2016, da inizio gennaio al 20 luglio, sono state 206. I morti per terrorismo nel resto del mondo, invece, sono stati rispettivamente 18.684 e 9.347. Con l’evidenza, e in questo caso la sproporzione, dei numeri si può dunque dire che il terrorismo non sia un problema che affligge principalmente l’Occidente, mentre è affermabile che esso sia semmai un risultato delle sue politiche e strategie.

I quasi 30 mila morti non occidentali in attacchi terroristici in un solo anno e mezzo non provocano emozione, né tanto meno indignazione, perché sono tolti dalla scena, rimossi dalla rappresentazione, alla stessa stregua delle centinaia di migliaia di vittime delle guerre in corso, la cui primaria responsabilità – lo abbiamo scritto e argomentato tante volte – è dell’Occidente e degli Stati Uniti in primo luogo.

Gli attentati in Francia del 13 novembre 2015 hanno naturalmente suscitato cordoglio ed emozione a livello internazionale ma anche provocato l’ulteriore rafforzamento di pulsioni identitarie, già da tempo crescenti e cavalcate politicamente non più solo dal Front National di Marine Le Pen e dall’Unione per un Movimento Popolare di Nicolas Sarkozy, ma dagli stessi socialisti e da François Hollande. Il quale, con Manuel Valls, ha prontamente varato provvedimenti d’eccezione, dichiarando lo stato d’emergenza. Come spesso avviene, la miopia e la strumentalizzazione politica reagiscono al terrorismo non tanto intensificando la capacità di analisi, intelligenza e intervento repressivo mirato, quanto comprimendo le libertà di tutti i cittadini. L’emozione, poi, sovente impedisce la fatica del ragionamento e dell’approfondimento, così come lo sforzo della memoria che a essi necessariamente si accompagna. Sforzo cui, appena dieci giorni dopo i tragici eventi parigini, sollecitava il filosofo e scrittore francese Alain Badiou durante un seminario, dichiarando necessario «ricordare che gli stessi spaventosi omicidi di massa accadevano e accadono altrove tutti i giorni […] in Nigeria e in Mali, in tempi molto recenti anche in Iraq, in Pakistan, in Siria… È anche importante ricordare che solo pochi giorni fa più di duecento russi sono stati massacrati sul loro aereo sabotato, senza che questo abbia destato, in Francia, un’emozione particolare» (Alain Badiou, Il nostro male viene da più lontano, Einaudi, 2016).

Badiou – con rigore e coraggio, dato il clima di quei giorni – metteva così il dito nella piaga dell’ipocrisia occidentale che continua a dividere il mondo e l’umanità in due: i propri simili, per origini, costumi, culture, valori, credenze religiose e gli altri, i barbari. È il retropensiero del neocolonialismo che, in forme e con strumenti parzialmente differenti ma non meno sanguinosi rispetto ai secoli scorsi, continua a impadronirsi di territori, ricchezze e risorse appartenenti ad altre popolazioni e Paesi; che, allo stesso tempo, ha ereditato dal precedente anche quell’approccio che non si può che definire razzista e che è naturale corollario, o forse premessa, delle pulsioni identitarie.

Un ragionamento analogo a quello di Badiou è stato fatto dal sociologo Salvatore Palidda, anche in questo caso a caldo, all’indomani della strage del Bataclan a Parigi:

«Contrariamente a quanto sciorinano tanti commentatori, la strage di Parigi non è un fatto orrendo mai accaduto in Europa o nel resto del mondo. Al di là della macabra contabilità da becchini, basta ricordare le bombe di un mese fa contro i manifestanti pacifisti in Turchia, o del 2004 alla stazione di Madrid, o le stragi di palestinesi con le bombe al fosforo israeliane, o centinaia di altri massacri. Secondo Claudio Magris siamo alla quarta guerra mondiale, dopo la terza – la guerra fredda, dal 1945 al 1989 – che ha fatto circa 45 milioni di morti; il Papa e altri ripetono da tempo che siamo alla terza guerra mondiale. La guerra è il fatto politico totale che s’è imposto e pervade tutto e tutti. Come in tutte le guerre anche in quella odierna – che non si svolge contro Stati nemici e non è regolata da norme internazionali – i contendenti coinvolgono la popolazione civile massacrandola, e chiedendo il suo sostegno per proteggerla. Ma chi sono i contendenti di oggi? Come siamo approdati alla guerra attuale?» (Salvatore Palidda, Escalation della guerra permanente, “Alfabeta2”, 16 novembre 2015).

Da queste domande, e dalla denuncia dello strabismo morale che considera leggere come piume le vittime non occidentali di guerre e terrorismi, è necessario partire e a esse trovare risposta, se non si vuole consegnarsi alle sterili emozioni e alle tossine identitarie o rassegnarsi alla mostruosità intellettuale dello “scontro di civiltà” o, ancora, subire passivamente la distorsione delle fattualità e delle verità storiche.

 

Le parole e i fatti

La verità dei fatti non viene occultata solo attraverso la falsificazione costante e massiccia della realtà e mediante la sottrazione della capacità di lettura critica dei cittadini. Vi è un’altra modalità, che sottrae ogni valore e potere alle parole: quella di renderle innocue, vuote, retoriche, inconseguenti. Ne ha dato un autorevole e rinnovato esempio Barack Obama, nel suo ultimo discorso da presidente degli Stati Uniti all’Assemblea delle Nazioni Unite il 20 settembre 2016. Nell’occasione, ha rimarcato che «un mondo in cui l’1% dell’umanità controlla una ricchezza pari al 99% non è uguaglianza», guardandosi bene dal provare a indicare le cause di questo squilibrio, approfonditosi vistosamente proprio in questi ultimi decenni, ma anzi affermando, contraddittoriamente, che «dopo la fine della guerra fredda possiamo dire che il mondo è più prospero che mai» (Marina Catucci, L’ultimo discorso di Obama all’ONU: «Fare di più per i rifugiati», “il manifesto”, 21 settembre 2016).

Riguardo ai migranti, tema centrale dell’Assemblea ONU, sul quale però ancora una volta non si è trovato accordo tra i diversi Paesi, Obama ha detto altre verità, riconoscendo peraltro anche i cambiamenti climatici come causa di conflitti e migrazioni: «Un Paese circondato dai muri imprigiona sé stesso», «aiutare chi ha bisogno ci rende più sicuri», dimenticandosi evidentemente delle barriere che dividono il suo Paese dal Messico e del fatto che sinora gli USA sono stati tra i più decisi avversatori degli accordi per ridurre le emissioni responsabili del riscaldamento globale. Peccato, inoltre, che non più tardi di quattro giorni prima i caccia americani in Siria avessero bombardato le truppe governative, facendo saltare la fragile tregua concordata con la Russia solo la settimana prima, con il consueto corollario di accuse reciproche sulle responsabilità. Per non dire dei frequenti raid aerei che hanno ripetutamente colpito ospedali di Medici Senza Frontiere, a opera direttamente degli USA e della NATO, come a Kunduz in Afghanistan nell’ottobre 2015, mietendo 42 vittime tra medici e ricoverati, o dei loro alleati, come nel gennaio 2016, e di nuovo successivamente in agosto, nello Yemen, per responsabilità della coalizione guidata dall’Arabia Saudita.

Le guerre in corso, e in particolare quella siriana, sono la causa principale degli attuali flussi migratori. Secondo i dati dell’UNHCR, nel 2015 vi erano 4,9 milioni di rifugiati siriani oltre a 6,6 milioni di sfollati interni. Per aiutare davvero i profughi, e rendere più sicuro il mondo, l’unica strada è quella di perseguire e imporre la pace, sempre e comunque. Vale a dire, la strategia opposta di quella sin qui praticata.

Nello stesso giorno del discorso di Obama, parole ben più sincere sono venute da Papa Francesco nell’ambito di una Giornata mondiale di preghiera per la pace che si è tenuta ad Assisi il 20 settembre 2016. «Imploriamo i responsabili delle Nazioni perché siano disinnescati i moventi delle guerre: l’avidità di potere e denaro, la cupidigia di chi commercia armi, gli interessi di parte, le vendette per il passato. Aumenti l’impegno concreto per rimuovere le cause soggiacenti ai conflitti: le situazioni di povertà, ingiustizia e disuguaglianza, lo sfruttamento e il disprezzo della vita umana», dice l’importante e significativa presa di posizione contro la guerra sottoscritta ad Assisi dai leader religiosi di tutto il mondo, cristiani, ebrei, musulmani, induisti, buddhisti.

Certo, anche queste sono parole, che però consentono e orientano i fatti, che individuano con chiarezza chi sono i responsabili, quali le cause delle stragi e anche indicano senza esitazioni o ambiguità la soluzione: la pace prima di tutto, ma anche la giustizia economica, sociale, ambientale. «Non ci può essere pace senza giustizia, una rinnovata economia mondiale attenta ai bisogni dei più poveri» e la «salvaguardia dell’ambiente», ha affermato l’ortodosso patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo. Parole forti e nette, che stigmatizzano il “doppiopesismo” con il quale l’Occidente si rapporta a guerre e terrorismi: «Ci spaventiamo per qualche atto di terrorismo», ma «questo non ha niente a che fare con quello che succede in quei Paesi, in quelle terre dove giorno e notte le bombe cadono e cadono» e «uccidono bambini, anziani, uomini, donne», ai quali «non può arrivare l’aiuto umanitario per mangiare, non possono arrivare le medicine, perché le bombe lo impediscono», ha detto Bergoglio (Luca Kocci, Il papa: «La guerra è peggio del terrorismo», “il manifesto”, 21 settembre 2016).

 

I media, le guerre e lo spettacolo del terrorismo

Dall’11 settembre 2001, il tema del terrorismo ha invaso, con brevi pause, la scena mediatica mondiale, e in particolare quella occidentale. Senza che questo abbia però significato davvero approfondimenti e analisi adeguate, né sulle origini del fenomeno né sulle dinamiche dei fatti. Del resto, uno degli ultimi atti non onorevoli da presidente di Barack Obama è stato di porre il veto a una legge (veto successivamente bocciato dal Congresso), il Justice Against Sponsors of Terrorism Act, già approvata sia dal Senato che dalla Camera statunitensi, che avrebbe consentito alle famiglie delle vittime degli attacchi terroristici di 15 anni fa di chiedere un risarcimento all’Arabia Saudita, accusata di aver dato supporto finanziario ai 19 dirottatori, di cui 15 proprio di nazionalità saudita (lo stesso, più di recente, il regime saudita sta facendo con l’ISIS). Di fronte alla sua approvazione il 9 settembre 2016, il regime saudita aveva minacciato di bloccare 700 miliardi di dollari di investimenti negli Stati Uniti se la legge fosse entrata in vigore.

L’indignazione occidentale per il terrorismo e la comprensione per le sue vittime, insomma, arriva sino a dove non si rischia di compromettere gli affari. È la stessa realpolitik, del resto, alla base dei crescenti potere e guadagni del settore bellico mondiale. Tra i primi 25 gruppi di produttori d’armamenti nel mondo 12 sono statunitensi. Nelle prime sei posizioni per volumi di affari, cinque sono di corporation USA. Le due più grandi, Lockheed Martin e Boeing, nel 2014 hanno venduto armi, rispettivamente, per 37,5 miliardi di dollari e 28,3 miliardi; impiegano 112.000 dipendenti la prima e 165.500 la seconda. In nona posizione c’è l’italiana Finmeccanica, con un bilancio annuale di 19 miliardi e mezzo, di cui 10 e mezzo relativi alla vendita di armamenti, e 54.380 dipendenti (L’Etat du monde 2017).

Un’industria dunque florida e redditizia, ancorché dai profitti insanguinati. Uno degli ingranaggi principali, e l’unico beneficiario, della spirale guerraterrorismo-guerra. Una spirale alimentata da un altro potere e centro di interessi: quello mediatico.

La costante enfatizzazione del rischio terrorismo da parte dei media non significa certo ampiezza e pluralismo dell’informazione, data la concentrazione dei gruppi editoriali e il loro intreccio con le dinamiche e i gangli di potere finanziari e politici. Sempre sulla base dei dati de L’Etat du monde 2017, si può osservare che Alphabet (Google) nel 2011 aveva un volume di affari di 36,53 miliardi di dollari, arrivato nel 2015 a 59,53 miliardi, di poco inferiore al PIL dell’Etiopia (61,53 miliardi). Oltre a questo, primo in classifica, gli altri cinque gruppi più grandi sono tutti degli Stati Uniti: DirectTV, Walt Disney Company, Comcast, 21st Century Fox, Cox Entreprise. Subito dopo viene il francese Vivendi, a sua volta seguito da Facebook, anch’esso statunitense, che dai 3,15 miliardi del 2011 quattro anni dopo è salito a 11,49, superiori al PIL del Nicaragua (11,28 miliardi). Sui 34 gruppi multinazionali del settore media, 17 sono nordamericani, due cinesi, uno brasiliano, due giapponesi, i rimanenti europei, compresa Mediaset con i suoi 3,55 miliardi di dollari nel 2011 e 3,39 nel 2015, superiori al PIL della Guyana (3,16).

Quale sia il mondo, la sua descrizione e le chiavi di interpretazione maggiormente proposte da questo sistema mediatico è facile capire: un mondo e una sua visione decisamente “occidentalocentrica”, dal quale il “sistema della guerra”, le responsabilità dei conflitti, gli interessi in campo, sono per lo più espunti o mistificati.

 

La strage degli innocenti

Solo occasionalmente i meccanismi ipocriti di questi media decidono di accendere brevemente un riflettore non sulla immane tragedia delle guerre, non sulla barbarie dell’infanticidio prolungato in corso da anni in Siria, in Iraq, in Afghanistan, in Libia, nello Yemen, ma su singoli frammenti, isolati dal contesto e resi politicamente inoffensivi. Così è stato nell’agosto 2016 per Omran Daqneesh, un bimbo di cinque anni, estratto vivo dalle macerie di Aleppo, a differenza di tanti altri sepolti dai raid aerei e dalle bombe. Lo scat-to fotografico che lo ha immortalato sulla sedia dell’ambulanza, impolverato, pesto e sanguinante, mostra il suo sguardo che non rivela paura, semmai l’irrimediabile disillusione e distanza dell’infanzia tradita e violentata.

Quell’immagine ha fatto il giro del mondo, che ha fatto finta di commuoversi, come già aveva fatto lo scorso anno per Alan Kurdi, prontamente dimenticato assieme alla tragedia collettiva dei migranti e dei popoli in fuga dalle guerre e dalle carestie, di cui era stato per un attimo tragico emblema. Un anno fa l’ipocrisia mediatica e politica aveva rimosso dalla scena gli altri piccoli affogati sulle spiagge turche o greche contemporaneamente ad Alan. Ora, di nuovo, le esigenze del cinico copione rappresentato dai media hanno tagliato dallo scatto fotografico che ritrae il piccolo Omran l’immagine della sorella, appena più grande di lui, seduta sulla seggiola a fianco della sua, egualmente pesta e insanguinata.

Il rito della finta pietà deve infatti focalizzarsi su un unico bambino, un solo dramma. Mostrarne due, o tre, o cento, può indurre il ragionamento che la questione è dunque politica: che non basta l’effimera commozione per il dramma individuale ma occorre ragionare sulle cause che lo hanno prodotto, che producono quotidianamente la strage dei bambini (se proprio non riusciamo a farci impressionare anche da quella dei loro fratelli maggiori, genitori, zii o nonni). E magari interromperla. E magari risalire a Erode e metterlo in condizioni di non più nuocere, di non più devastare interi Paesi, di non più moltiplicare all’infinito i profitti insanguinati e la catena politica e corruttiva che ne sta alla base. Insomma, facendo finalmente insorgere le coscienze. Le 290 mila vittime della guerra in Siria (ma alcune fonti danno una cifra doppia rispetto a questa fornita delle Nazioni Unite), invece, non provocano sdegno. Tanto meno i milioni di sfollati, un piccolo rivolo dei quali riesce a giungere, a caro prezzo e spesso perdendo la vita nel tragitto, nelle nostre città e addirittura sulle nostre spiagge, compresa quella esclusiva di Capalbio, turbando non tanto la coscienza quanto la vacanza.

Ma non c’è solo nascondimento dei fatti e delle vittime. C’è, assieme e contemporaneamente, l’assuefazione allo spettacolo del dolore e della miseria, che solo in apparenza è dovuta a sovrabbondanza d’informazione, poiché si accompagna invece all’occultamento degli interessi in gioco e alla rimozione delle responsabilità.

«[…] gradualmente ma inesorabilmente la pubblica opinione, complici i media assetati di ascolti, inizia a stancarsi di provare compassione per la tragedia dei profughi. Bambini che annegano, la fretta di erigere i muri, il filo spinato, i campi di accoglienza gremiti, i governi che fanno a gara per aggiungere al danno dell’esilio, della salvezza rocambolesca, di un viaggio estenuante e periglioso la beffa di trattare i migranti come patate bollenti: questi abomini morali ormai non sono più una novità, e tanto meno “fanno notizia”» (Zygmunt Bauman, Stranieri alle porte, Laterza, 2016).

I rifugiati non possono commuovere, sono troppi e non ci guardano solo dalle pagine dei giornali ma spesso da vicino, da troppo vicino. Né tanto me-no possono modificare leggi e norme, nazionali ed europee, in nome non della solidarietà ma della giustizia: chi rompe – in questo caso gli equilibri geopolitici – e specula sulle guerre dovrebbe almeno occuparsi dei cocci. Invece, l’Unione Europea preferisce pagare miliardi a quel campione della democrazia e dei diritti umani che si chiama Recep Erdog˘an affinché trattenga in Turchia quel fiume di umanità lacera e dolente. Se il piccolo Omran dovesse mettersi in viaggio per tentare di salvare la propria vita dal prossimo bombardamento, se pure non perisse lungo il viaggio, finirebbe probabilmente maltrattato in qualche campo turco, e poi magari sfruttato e nuovamente maltrattato in quell’industria tessile che consente agli occidentali di comprare abiti a poco prezzo. Ma, a quel punto, il suo sguardo ferito non interesserebbe più nessuno, la sua sorte e condizione diventerebbero invisibili al pari di tutte le altre vittime delle guerre e dell’avidità colonizzatrice dell’Occidente e delle sue multinazionali.

 

Le non-persone e il razzismo contemporaneo

Nello stesso giorno in cui i media mondiali producevano commozione con il fotogramma del piccolo Omran, mutilato della presenza della sorella, Amnesty diffondeva un Rapporto sulle carceri in Siria («It breaks the human». Torture, disease and death in Syria’s prisons). Secondo l’organizzazione umanitaria nelle prigioni di Stato sarebbero morti 17.723 detenuti da marzo 2011 a dicembre 2015, vale a dire una media di 10 decessi al giorno causati da torture, fame, assenza di cure mediche. Un dato così enorme da sembrare sovrastimato, non fosse per l’autorevolezza della fonte. Eppure non ha provocato alcuna indignazione, non ha riempito le prime pagine dei giornali mondiali. La sorte dei detenuti, del resto, non provoca mai interesse nelle pubbliche opinioni, quale che siano il Paese e la causa della prigionia.

Come ci spiega Alessandro De Giorgi, in una delle interviste che corredano questo volume, il razzismo contemporaneo è “colorblind”, ossia formalmente scevro da qualsiasi riferimento al colore della pelle e legato invece alle condizioni sociali o a comportamenti devianti dei soggetti stigmatizzati che consentono «una razzializzazione indiretta dei gruppi sociali più vulnerabili».

Questa forma di nuovo razzismo ha contribuito a rendere gli Stati Uniti il primo Paese per numero di incarcerazioni, con quasi due milioni e mezzo di reclusi, un quarto della popolazione detenuta di tutto il mondo, e anche quello dove è molto facile essere uccisi dalle forze dell’ordine, pur se disarmati e inoffensivi. Con la morte di Keith Lamont Scott, ucciso il 20 settembre 2016 a Charlotte, in North Carolina, dall’inizio dell’anno sono arrivate a 788 le vittime uccise da agenti della polizia statunitense. Nel 2015 erano state 990; di ogni razza ma con una percentuale doppia di afroamericani rispetto ai bianchi. Le non-persone, insomma, non necessariamente abitano in teatri di guerra o all’altro capo della terra, possono risiedere in quel mondo a sé che sono le galere e le periferie urbane, contenitori di vite di scarto a tutte le latitudini. Vero è che non tutte le vite, e dunque neppure tutte le morti, hanno eguale peso nella coscienza occidentale media.

Le reazioni agli attentati terroristici fanno cortocircuito con queste dinamiche, perché estendono la richiesta di sicurezza, funzionale a chi governa per rafforzarsi e al dilagare di razzismi vecchi e nuovi. Come spiega ancora Bauman, ragionando sulle misure prese da François Hollande in Francia – il qua-le ha proclamato lo stato di emergenza nazionale che consente alla polizia di fare irruzione nelle abitazioni senza mandato, di proibire manifestazioni e disperdere riunioni, di imporre il coprifuoco e di schierare i militari per le strade –, tutto ciò ha la funzione manifesta e dichiarata di rassicurare la popolazione, ma anche una funzione latente diametralmente opposta, giacché serve «a promuovere e facilitare il processo di “securitizzazione” della grande varietà di rimostranze e preoccupazioni economiche e sociali che nascono nell’attuale clima di insicurezza generato, a sua volta, dal carattere fragile e fissi-paro delle attuali condizioni di vita». Le misure di emergenza, insomma, «servono a rafforzare chi sta “lassù in alto” nel ruolo provvidenziale di (unico, insostituibile?) scudo capace d’impedire che tremende catastrofi si abbattano sulla nazione e sulla mia casa».

 

Lo scontro tra barbarie

Il terrorismo è funzionale al potere, che lo usa e talvolta promuove. Dopo il varo dello stato di emergenza, il presidente francese ha visto in poche settimane raddoppiare il consenso dei cittadini, secondo diversi sondaggi, e raggiungere un grado di fiducia che non aveva più da diversi anni. Ma altrettanto raddoppiati paiono essere il razzismo e le forme di intolleranza, ben rappresentati e alimentati persino da primi ministri europei, come l’ungherese Viktor Orbán, lesto a dichiarare che «tutti i terroristi sono migranti» e a erigere muri, venendo anch’egli premiato da immediati rialzi di consenso nella pubblica opinione. Muri e paure sapientemente costruite non servono solo a rafforzare i governi. Servono, al solito, a fare profitti, non molto meno insanguinati di quelli bellici e peraltro gestiti per lo più dalle stesse imprese: nel 2015 il volume di affari per la sicurezza e militarizzazione delle frontiere europee è stato stimato in 15 miliardi di euro, con una previsione di crescita a oltre 29 miliardi annuali nel 2022.

Solo pochi anni fa la costruzione simbolica del nemico e del discorso securitario e populista – alimentato da destra, ma non di rado anche da sinistra – faceva leva sull’equazione immigrato = clandestino; oggi trova un perno più efficace in quella migrante = terrorista. In entrambi i casi, però, alla base vi è quel razzismo che identifica l’altro, in questo caso il musulmano, come feroce e alieno. Una concezione del diverso da sé e del mondo alla base del colonialismo ieri, e del neocolonialismo oggi.

Chi teorizza l’esistenza di uno “scontro tra civiltà” in realtà pensa e dice che l’unica civiltà sia la propria, quella occidentale, mentre l’altra è barbarie. Una distinzione, una suddivisione dell’umanità, certo non originale. Ricorda però Alain Badiou, commentando gli attacchi terroristici a Parigi, che se il massacro del 13 novembre è stata «un’azione cruenta, ma vile», «una forma criminale suicida, che porta al culmine l’istinto di morte», «un atto fascista atroce e criminale», non di meno occorre ricordare che «i massacri occidentali sono oggi permanenti e straordinariamente cruenti». Massacri ancor più vili giacché sempre più operati senza rischio, a distanza: «L’assassinio con i droni è più comodo, perché non c’è neanche bisogno di uscire dal proprio studio. Né Obama né Hollande si privano di questi mezzi». Mezzi che, secondo alcune statistiche, comportano nove vittime collaterali per ogni morto effettivamente mirato. Un problema evidentemente messo in conto dagli attuali signori della guerra, che, come abbiamo visto, non solo non tengono in alcun conto la vita dei civili ma bombardano volutamente persino scuole e ospedali in Si-ria, nello Yemen o in Afghanistan, così come in precedenza era avvenuto nei Balcani. «Se dunque si definisce barbaro il fatto di uccidere delle persone per nulla, gli occidentali sono barbari tutti i giorni, questo bisogna saperlo. Semplicemente, nel primo caso di barbarie, la barbarie dei barbari, abbiamo un omicidio di massa rivendicato e suicida. Nel caso della barbarie dei popoli civili, è un assassinio di massa tecnologico, dissimulato e compiuto». Inoltre, una cosa è chiara:

«Non sono i “barbari” che hanno dichiarato una guerra, ma lo Stato francese che, a rimorchio delle imprese e qualche volta degli americani, è andato a immischiarsi in losche faccende imperiali, a partecipare a diverse zonizzazioni, a distruggere degli Stati e a creare precisamente da lì l’insieme della situazione di cui sto provando a delineare il quadro. E questa situazione include la genesi soggettiva di giovani fascisti nelle zone devastate della vita sociale, anche per il fatto che un’intera parte della popolazione mondiale viene considerata pari a zero» (Alain Badiou, Il nostro male viene da più lontano, Einaudi, 2016).

La prima vittima di ogni guerra, si sa, è la verità. Dunque da lì occorre par-tire. Senza verità non ci sono umanità e pace possibili. Senza capacità di riprendere e dare forza alle proposte di alternativa e alla complessiva consapevolezza espresse dai movimenti nel crinale del secolo scorso non si uscirà dal-la crisi economica e umanitaria che il mondo sta vivendo.

Le maggiori 200 multinazionali non finanziarie a livello mondiale impiegano 27.855.641 dipendenti e hanno avuto nel 2015 profitti per 18.811 miliardi di dollari, un valore superiore all’intero PIL degli Stati Uniti (18.700 miliardi). Se non si erode e ridimensiona fortemente questo potere e quello della finanza, causa prima delle enormi diseguaglianze sociali, delle crescenti povertà, delle devastazioni ambientali, del sistema della guerra e del neocolonialismo, di un modello di sviluppo centrato unicamente sul profitto, semplicemente e terribilmente non ci sarà futuro.

Allontanare questa catastrofica prospettiva appare oggi un compito immane. Eppure, se ogni colibrì facesse la sua piccola parte e anche diventasse più energico, se le coscienze insorgessero una dopo l’altra e si collegassero tra loro, la sfida del cambiamento sembrerebbe possibile e necessaria.


* Coordinatore del Rapporto

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