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criticaimpura

Ludwig Wittgenstein

Della Certezza, della Verità e del Senso nel problema del fondamento

di Sonia Caporossi

johntierney 670x400Con questi brevi appunti intendiamo, se possibile, aprire una possibilità di riflessione sul difficile tema del fondamento della verità, della certezza e del senso, a partire dalla seguente proposizione di Ludwig Wittgenstein contenuta in Della Certezza: «Se il vero è ciò che è fondato, allora il fondamento non è né vero né falso» [1]. In questo passo, Wittgenstein intende affermare che, in qualche modo e in un qualche senso, il fondamento è infondato. Ma in quale modo e in quale senso si potrebbe dire ciò? E soprattutto, in quale modo e in quale senso che non sia assiomaticamente aristotelico, ovvero anapoditticamente dato per certo generando così un circolo vizioso evidente fra la certezza e la sua stessa posizione? Il Wittgenstein uscito fuori dalla chiusura logicistica asfittica del Tractatus Logico – Philosophicus, il Wittgenstein apertosi alla visione estetica delle cose contenuta nelle Ricerche Filosofiche, risponderebbe forse, in modo un po’ enigmatico, che il fondamento è “una forma di vita”: la nostra. E, soprattutto, superato qualsiasi residuo di logicismo, che non c’è più bisogno di rinnegarlo, come dire: keep calm and hold your Grund.

Quest’intuizione, che per i filosofi non costruttivisti risulta essere tutt’altro che autoevidente, porta a una serie di considerazioni dalla cogenza filosofica inusitata. Infatti, dovremmo partire dalla considerazione del fatto che il vero, se è se stesso, deve essere fondato, altrimenti non sarebbe vero, ma falso.

Wittgenstein sembra quindi suggerire che per dire che qualcosa è vero bisogna prima (in senso logico) sapere che cosa sia la verità: egli mostra l’evidenza di un problema davvero fondamentale, ovvero il fatto che sussista una sostanza retrostante (un’idea) che mi fornisce in qualche modo il senso di ciò che è vero. Il che sembra come voler appiccicare un’etichetta su un oggetto, alla vecchia maniera nominalistica; e tuttavia, questa sostanza è come l’idea di Platone, non è né vera né falsa, perché se lo fosse non sarebbe fondamento, bensì fondata a sua volta. Espressa la questione in questi termini, però, più che con Platone sembra avere a che fare col vecchio adagio del Motore Immobile di aristotelica memoria, ovvero l’esigenza, dotata di volontarietà e decisionalità logica, di fermarsi a un Atto Primo dietro al quale non vi sia altro, per evitare metafisicamente qualsiasi regressus ad infinitum. E tuttavia, per Wittgenstein non si tratta, a ben vedere, di un sistema assiomatico chiuso, bensì di una visione legata ad una logica della scoperta, ad un sistema linguistico – esperienziale euristico, quindi aperto: si tratta di un gioco linguistico:  «oppure si dovrebbe dire che la sicurezza è soltanto un punto costruito, cui alcune cose si approssimano di più, altre di meno? No. Il dubbio perde gradatamente il proprio senso. Così, appunto, è questo gioco linguistico. E alla logica appartiene tutto ciò che descrive un gioco linguistico» [2].

Il fondamento risulta, di fatto, infondato, e questo, lungi dall’incombenza del pericolo  di qualsiasi regressus ad infinitum, al contrario lo toglie (in senso hegeliano), perché ci si ferma ben prima del circolo vizioso di hegeliana considerazione, quello che il filosofo di Stoccarda risolve poi in circolo virtuoso col suo stesso sistema e concetto della filosofia in quanto tale: giacché, se fosse fondato, allora sarebbe senz’ulteriore determinazione o vero o falso, e invece, interpretando Wittgenstein, esso vive «sul discrimine invisibile che separa senso e non-senso» [3], come suggerisce Emilio Garroni, ovvero cammina sul filo che divide proprio il vero dal falso.

Con ciò, Wittgenstein suggerisce anche qualcos’altro, una concezione che a Deleuze e ai filosofi di ascendenza costruttivistica in genere non sarebbe affatto risultata gradita: che la filosofia descrive cose più semplici ed ovvie di ciò che appaiono. Certo, questo ha senso solo se lo concepiamo all’interno di una semiosfera, direbbe Lotman: cioè, di un punto di riferimento mentale condiviso, di una “forma di vita”, per usare di nuovo termini wittgensteniani. Del resto, il Wittgenstein delle Ricerche Filosofiche sostiene fortemente che tutto è nel linguaggio: non c’è una realtà fuori, perché se ci fosse si ricadrebbe metafisicamente nel dualismo cartesiano. Il compito della filosofia è quindi di natura descrittiva, semplificatoria ed esemplificativa: Wittgenstein, in qualche modo, affermando che la filosofia non dica le cose, ma le mostri, a sua volta non dice la filosofia, la mostra. È anche questo il senso recondito del famoso motteggio contenuto nelle Ricerche Filosofiche: «Non pensare, guarda!».

In definitiva, il pensiero di Wittgenstein riporta la filosofia al suo compito descrittivo primigenio: la filosofia non dice sistemi complessi e astrusi, bensì descrive le cose nella loro intrinseca semplicità, o, per dirla con Garroni: «la filosofia scopre l’ovvio della non-ovvia condizione dell’ovvio». E tuttavia, come si diceva, non si tratta di un descrittivismo di tipo geometrico, assiomatico, puramente dimostrativo, bensì quello di Wittgenstein è un descrittivismo mostrativo, ostensivo: e a ben vedere, mentre il costruttivismo considera se stesso il modus principale della visione aperta e osmotica delle cose, non c’è nulla di più aperto e osmotico di questo assunto wittgensteiniano.

Ammettere la funzione puramente ostensiva e non dimostrativa del linguaggio e della filosofia vorrebbe dire dover dismettere costruzioni concettuali che sono apparentemente antisistematiche, in realtà di un’artificiosità violentemente costruttivistica in sé: violenta, perché fa violenza al linguaggio creando neologismi inutili per concetti retrostanti che già esistevano in quanto tali e che potevano dirsi, e di fatto si sono sempre detti, in altri modi; laddove il costruttivismo filosofico, in questo senso, rischia davvero di essere una forma di impostura.

In realtà, ancora con Wittgenstein, «i limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo». Ciò significa che, in qualche modo e in qualche senso, noi siamo nel linguaggio e quindi, nell’esperienza come di fronte a un quadro: contempliamo la realtà proprio nel mentre del farne esperienza e viceversa; penetrando i sensi possibili del quadro, ci immergiamo in esso. Siamo nel quadro mentre lo guardiamo: lo guardiamo-attraverso, per dirla ancora con Wittgenstein, secondo un’espressione fatta propria da Emilio Garroni [4]. L’indecidibile fondo estetico della realtà consiste proprio, in questo senso, nella funzione ostensiva del linguaggio.

In una nostra conversazione privata di qualche tempo fa Paolo Beretta, dal canto suo, commentava la questione in termini hegeliani in questo modo: «vista la cosa da un altro punto di vista (ma di nuovo hegeliano), noi siamo già sempre nella verità, altrimenti non potremmo raggiungerla. Siamo e non siamo nella verità (già Aristotele diceva una cosa del genere), dobbiamo guadagnarla standovi dentro. Ma con Hegel è il Concetto stesso di verità che muta (ed in effetti, Heidegger ha torto quando accusa Hegel di pensare ancora la verità come adaequatio: la prefazione e la introduzione della Fenomenologia e della Logica non si possono dimenticare). Un conto è il movimento della verità, un altro sono le figure della verità. Le figure non sono altro che il loro errare (e pagano, anassimandrianamente, il fio della loro “colpa”). I guai cominciano nel dovere mostrare di che tipo di figura si tratti con questa stessa figura che dice le altre figure. Anch’essa dovrà tramontare, non essendo la figura che il suo stesso venire meno in quanto determinata. È qui che si pone la questione “etica” della filosofia (non in senso di morale): non fissarsi sul contenuto, ma lasciarlo passare, esibendo la propria figura di verità e lasciandola morire per il movimento della vita della verità (secondo l’espressione di Enzo Paci). Ecco un tipo possibile di illustrazione».

Io rispondo a Paolo suggerendo che Hegel, a ben vedere, parla in termini di “verità”, ma il discorso, più alla base, si riferisce appunto al “senso”. Secondo Hegel, noi siamo già sempre nella verità ma, in qualche modo, ci siamo e non ci siamo; per questo, siamo incaricati di osservarla con l’attenzione precipua di un guardare-attraverso i fenomeni; ovvero, “dobbiamo guadagnarla standovi dentro”, giacché qualsiasi conoscenza d’esperienza in genere non può che compiersi dall’interno della stessa esperienza nel suo farsi. Questo è esattamente ciò che Garroni in Estetica. Uno sguardo-attraverso individua discutendo per tutto il libro il Kant della Kritik Der Urteilskraft, nonché il circolo virtuoso in Hegel, in Heidegger e in Wittgenstein: riflettere sul fondamento infondato della verità e del senso consiste nel porre, in definitiva, la necessità teleologica di un «dover-essere del senso». Wittgenstein, in Della Certezza, infatti scrive: «Come fa uno a giudicare quale sia la sua mano destra e quale sia la sua mano sinistra? Come faccio io a sapere che il mio giudizio concorderà con quello dell’altro? C’è un perché? A un certo punto non devo pur cominciare a fidarmi? Cioè in un punto o nell’altro devo cominciare con il non dubitare; e questo non è, per così dire, precipitoso, ma è scusabile, ma anzi fa parte del giudicare» (corsivi nostri) [5].

Insomma, per giudicare qualsiasi cosa ed entrare in comunicazione e condivisione con chicchessia tramite il nostro sentire e la nostra facoltà di giudizio, dobbiamo innanzitutto fidarci, come suggerisce Garroni, del fatto che già stiamo all’interno di un orizzonte comune di senso, per poter comunicare e poter quindi accedere a qualsivoglia forma di condivisione, come quando ci risulta urgente, ad esempio, la condivisione del sentimento del bello, esemplare proprio perché lascia intravedere la difficoltà, ancora una volta fondante, di dover essere concepito come una specie di universale soggettivo; concetto apparentemente contraddittorio e paradossale, intuizione suprema del Kant della Critica del Giudizio che apre squarci di indicibile difficoltà e profondità nella storia del pensiero filosofico. Per Kant, noi esigiamo che il nostro sentimento della bellezza sia condiviso da tutti, nonostante lo proviamo, in realtà, nella profondità del nostro io soggettivo; e ci rimaniamo malissimo quando questo passaggio comunicativo non avviene.

Riflettere sulla comunicabilità dell’aisthesis fa sì che l’estetica travalichi i confini angusti della mera filosofia dell’arte e permette l’apertura all’ermeneutica, alla teoretica, alla filosofia del linguaggio, persino a un recupero di una metafisica laica, in direzione di un’indagine rinnovata dell’etica e della teleologia. In effetti, il Kant della Terza Critica, Hegel, Heidegger e Wittgenstein hanno in comune, a livelli differenti di elaborazione concettuale e consapevolezza, l’intuizione estetica del fatto che il senso c’è sempre, ma contemporaneamente a rischio perpetuo della sua stessa perdita. Ecco, peraltro, da dove deriva la pregnanza esemplare dell’arte come forma di esperienza, comunicazione e condivisione: l’arte si mostra su un piano esemplare giacché pone il fruitore dell’objectum di fronte a un oggetto ermeneutico la cui pregnanza consiste proprio nella possibilità, per suo tramite, di provare la vertigine del sublime, che apre a sua volta la visione del fondamento del senso delle cose. Ed ecco allora lo scivolamento indolore dell’estetica nell’etica del dovere: «l’artista sta sempre, esemplarmente, sul discrimine invisibile che separa senso e non – senso, così come, non esemplarmente, ci stanno tutti» [6]. Per cui, in termini garroniani, il senso deriva da un suo intrinseco dover-essere, da una decisionalità umana che, dall’interno dell’esperienza, la guarda-attraverso dando un senso al mondo. Siamo come saltimbanchi che camminano sul filo del senso delle cose: siamo noi a dire, di volta in volta, il vero e il falso di ciò che, di per sé, non è né vero né falso, perché semplicemente viaggia sul discrimine. Giacché, tornando a monte, parafrasando il Wittgenstein che pensa la Certezza in un circolo virtuoso di pensiero che torna all’estetica e al linguaggio, “Se il senso è ciò che è fondato, allora il fondamento del senso non è né vero né falso”.


Note
[1] L. Wittgenstein, Della Certezza, saggio introduttivo di Aldo Gargani, traduzione di Mario Trinchero, Einaudi, Torino 1999, p. 35.
[2][2] L. Wittgenstein, cit. p. 12.
[3] E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992, p. 228.
[4] Cfr. E. Garroni, op. cit.
[5] L. Wittgenstein, cit. p. 27.
[6] E. Garroni, cit., p. 228.

Comments

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Ernesto Rossi
Wednesday, 07 February 2018 08:45
... Se il senso è ciò che è fondato, allora il fondamento del senso non è ne vero ne falso... No, è vero e basta. È il falso che non esiste.
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