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La Cina nella globalizzazione

di Romeo Orlandi*

Dal numero speciale di "Primo Maggio"

230d6c13 acc9 4283 b192 93941ff54cc8il dragoneMediumLa Cina, nel senso ovviamente della Repubblica Popolare, non è mai stata un magnete intellettuale per la nuova sinistra italiana e internazionale. Ha attratto invece l’attenzione di un variegato gruppo di seguaci che ne esaltavano la fedeltà manichea e si identificavano nella propaganda di Pechino. La liturgia era immutabile, il rosso indelebile, il lessico della Terza Internazionale. L’attenzione apologetica apparteneva ai marxisti-leninisti, per i quali la conservazione del trattino assicurava la linearità di pensiero. Chi derogava dalla linea, indipendentemente dal suo contenuto, era oggettivamente un amico della reazione e del capitalismo. L’analisi serviva a scovare i nemici, a denunciare i traditori. Per queste versioni, la Cina di Mao era la continuazione dello stalinismo – e dunque della retta via – mentre quella di Deng emulava il revisionismo di Kruscev. Le dinamiche della storia sembravano irrilevanti; l’identità manteneva sempre il primato sull’analisi. La verità valeva fino al prossimo Congresso del Pcc, dove chi prevaleva dettava la linea e chi era sconfitto finiva nei campi di rieducazione. Il dibattito che ne derivava non era fertile. Mao era la continuazione o la crisi del bolscevismo? Deng ha salvato il Partito o la Cina? Il Pcc può definirsi ancora comunista? Le domande sono mal poste, probabilmente inutili; negli anni ’60 si sarebbe risposto The answer is blowing in the wind.

Una lente disincantata, minoritaria, ideologica ma non ossificata, ha invece analizzato con spirito critico l’esperienza cinese. Certamente la sua epopea ne è stata glorificata, dalla Lunga Marcia alla guerra civile contro i nazionalisti di Jiang Jie Shi, dal terzomondismo di Bandung alla lotta imperialista.

Senza dubbio il fascino della Rivoluzione Culturale ha infiammato i militanti, con la sua pratica egualitaria, il ricorso alla violenza, l’affermazione della volontà soggettiva. L’appoggio militare al Vietnam e alla Corea del Nord, il sostegno ai popoli del Terzo Mondo, la fede nel Sol dell’Avvenire marchiavano lo stemma dell’appartenenza in un mondo diviso tra due blocchi contrapposti. In quel tempo, nessuno in Occidente aveva osato prendere nettamente le distanze dalla Cina di Mao.

Tuttavia, persisteva nei militanti e nelle organizzazioni rivoluzionarie un senso di fratellanza senza appartenenza, di comunanza con la diversità, di lontananza geografica e politica. Era impossibile schierarsi con gli Stati Uniti, Taiwan o il Giappone, ma a cosa poteva servire l’esperienza cinese in Occidente? Se i suoi soggetti politici erano i contadini e le guardie rosse, qual era il loro contributo agli operai di fabbrica? La base rossa di Yenan poteva essere utile a Mirafiori? Che rapporto esisteva tra chi lottava contro il sottosviluppo e chi poneva il problema della rivoluzione in un paese a capitalismo avanzato? La lezione – pur vittoriosa – di un partito post-leninista in Cina era coerente o inservibile a chi teorizzava inedite forme organizzative, nuovi soggetti politici? Se la coscienza di classe deriva dal conflitto immediato tra capitale e lavoro, se non c’è bisogno di intermediazioni per farla esplodere, è ancora necessaria una direzione come quella cinese, “un partito di quadri legato alle masse”?

Inoltre, le istanze di liberazione – dal lavoro e dalle costrizioni sociali – che sorgevano nelle metropoli occidentali, come si conciliavano con un regime che proprio al controllo e alla fatica manuale aveva affidato la propria legittimità? I soggetti eversivi che negli anni ’70 hanno accompagnato le lotte operaie – il proletariato giovanile, le femministe, gli intellettuali – che sponda potevano trovare in un regime dispotico, allineato, unidirezionale? Tutti questi interrogativi stimolavano risposte con il cuore prima ancora che con il cervello: tiepida accoglienza, diffuso scetticismo, simpatia sentimentale. La Cina è lontana, soprattutto è la Cina.

La morte di Mao nel 1976 ha sigillato la fine di un esperimento politico eroico. Con la sua scomparsa, l’arresto della Banda dei Quattro e la fine della Rivoluzione Culturale viene consegnato alla storia il tentativo estremo della tradizione comunista novecentesca. Da allora, con una sapiente e redditizia innovazione, la Cina abbraccia molte delle logiche capitaliste, inaugurando un modello politico mai visto, con contagi universali ed esiti imprevedibili. Si può dunque ora tentare un’analisi più fredda, lontano dal fervore delle adunate oceaniche a Tian An Men, senza la commozione delle bandiere rosse, Far from the Madding Crowd. I passaggi fondamentali che hanno condotto la Cina nella globalizzazione sono sostanzialmente tre: la svolta di Deng Xiao Ping, l’attrazione delle multinazionali, i nuovi assetti nella crisi.

 

L’indifferenza al colore dei gatti

La Cina che Deng eredita alla fine degli anni ’70 è in una situazione drammatica; la Repubblica Popolare appare consolidata ma ancora povera e fragile. Circondata da vicini ostili, è fuori e contro il vecchio “campo socialista” dell’Urss, non ancora alleata degli Stati Uniti in chiave anti-sovietica e anti-vietnamita. La sua classe dirigente è inadeguata, a stento contrasta il sottosviluppo ma non lo debella. Il Pcc acquisisce la tragica consapevolezza di non essere in grado di produrre sufficiente ricchezza sociale. Come in altri momenti della storia comunista, scopre che l’egualitarismo ha compresso la crescita, che il pauperismo non garantisce il riscatto, che lo “sviluppo delle forze produttive” non è soltanto una pericolosa deriva di destra dall’ortodossia. Nell’ultimo decennio della Guerra Fredda la Cina è esposta a tensioni militari che probabilmente non è in grado di fronteggiare. Le due superpotenze le sono ostili, Taiwan, il Giappone, la Corea del Sud e l’India la circondano armati. Il paese è praticamente escluso dai circuiti economici mondiali. Imperniato su autarchia e nazionalismo, è ai margini del commercio internazionale e non registra investimenti stranieri sul suo territorio. Il Pcc assorbe in quegli anni l’ineludibile certezza che la sua esistenza è legata all’integrità della Cina. Solo creando una solida base economica, il paese avrà la forza di mantenere la sua unità.

L’amara verità impone di trasferire questo compito ad altri soggetti politici, non più alla collettivizzazione, alle comuni popolari, alle imprese di stato. Stimolata da un partito che tuttora si chiama comunista, una nuova classe di imprenditori si impone, blandita e protetta. Con rapide frequenze viene eliminata la frazione nostalgica, smantellato il welfare di base, tolta la tutela sindacale. Il percorso è tracciato, intellegibile nella sua spietatezza: l’aumento del Pil, il rafforzamento della Grande Madre Cina sono la misura di tutto, del consenso e del mantenimento del potere.

Per questa eclatante svolta politica la direzione di Deng ha impresso due forti accelerazioni. La prima è la libertà per le imprese di accumulare, investire, sfruttare. Negli anni immediatamente precedenti soltanto immaginare questo percorso sarebbe costato anni di rieducazione a chi lo suggeriva. Essersi avven turati “sulla via del capitalismo” aveva procurato parecchie congestioni stradali. Con Deng si cementa la convinzione tipica del capitalismo: le disuguaglianze sono l’anima della crescita economica, causa ed effetto, antecedente e conseguenza. Gli imprenditori diventano patrioti, creano lavoro e diffondono ricchezza. To get rich is glorious. Con una straordinaria visione si inizia un processo che pochi anni dopo rinnegherà un caposaldo radicato: la volontà di un partito non è sufficiente. L’economia ha le sue leggi. In Asia la sovrastruttura è più potente e complessa. Le scorciatoie verso il comunismo non sono praticabili. Forse, probabilmente, certamente, la Cina non era matura per una rivoluzione socialista. Cosa poteva dunque fare un’organizzazione che ha provato a forzare la storia ma si trovava nel labirinto della cronaca? Nell’impellenza delle decisioni, la soluzione più difficile è apparsa quella obbligata: cambiare politica ma non i simboli, mantenere il potere politico e delegare l’iniziativa economica, affidare al controllo la propria sopravvivenza. La Piazza Rossa è lontana, l’Unione Sovietica al tramonto, Gorbacev un irresponsabile. Gli ideali comunisti non sono stati sconfitti a Pechino, erano già morti. Queste erano le impellenti conclusioni tratte dal Politburo. Sono bastati pochi anni per avvalorare la spericolata, inevitabile, geniale lungimiranza della Cina.

Nella “Politica di apertura e riforme” di Deng, queste ultime sono più conosciute, per la virata di 180° che hanno imposto. Tuttavia la prima – cioè la contaminazione con gli altri paesi – non si è rivelata una scelta scontata. Permaneva infatti un postulato originale: soltanto la Cina deteneva la corretta linea rivoluzionaria, premessa e viatico per la liberazione delle masse. Ogni contatto con il capitalismo era contagioso, tutti i legami con il social-imperialismo diventavano pericolosi, infido veicolo di revisionismo. Contare sulle proprie forze, ricordava il Presidente Mao. I contadini sorridenti potevano rimandare l’acquisto di trattori. La comune agricola garantiva loro il riso. Gli “altiforni da cortile” del Grande Balzo in Avanti fornivano l’acciaio. Appena tutto ciò diventa insostenibile, quando i granai si svuotano, l’apertura all’estero è cogente. Le carestie non sono più né perdonabili, né ripetibili. È necessario importare tecnologia, dare fiato all’industrializzazione, senza aspettare la disponibilità di tecnici allevati alla scuola del socialismo. La Grande Muraglia si abbassa, il guscio ideologico che aveva protetto la Cina consente l’arrivo di beni strumentali stranieri. Il sinocentrismo perde un suo architrave. Per una volta si inchina alla superiorità dell’Occidente. Se ne riconosce il primato industriale, non politico o culturale, certamente non etico. Un paese intriso di nazionalismo, orgoglioso della sua storia, irrobustito dalla sua omogeneità, per la prima volta nella storia decide di sancire il proprio ritardo. Quando Pechino afferma di essere un paese povero, in via di sviluppo, non ammette una vergogna ma inizia una trattativa. Le sono necessari torni, fresatrici, trapani, tutto ciò che possa creare valore aggiunto. Da quegli anni ha inizio l’ingresso della Cina nella globalizzazione corrente.

 

Un matrimonio di puro interesse

Nella storia economica nessun esperimento ha registrato un successo così clamoroso. Nei 30 anni dal 1979, Pechino ha inanellato una serie straordinaria di risultati. Il Pil è cresciuto a una media annuale del 10%. Il paese ha conquistato varie supremazie mondiali: primo esportatore, principale destinazione degli Fdi (Foregn direct investments), maggior detentore di riserve. Tutti questi primati si sono rafforzati ogni anno. Le condizioni di vita dei cittadini sono migliorate sensibilmente; appartengono ormai ai ricordi gli indescrivibili bagni pubblici, le distese di biciclette, i carri trainati dagli asini. Pur con modeste flessioni nel tasso di crescita, la Cina vanta ora la seconda economia al mondo, la prima dal 2014 se si considera il Pil a parità di potere d’acquisto. Sul versante internazionale la Cina è solida, rispettata, temuta. Non esistono nell’agenda mondiale argomenti che la vedano esclusa dalle trattative. È inimmaginabile che qualche paese tenti un’avventura militare contro la Cina; al contrario la sua forza è ora capace di intimorire, talvolta viene addirittura auspicata nelle crisi internazionali.

Questo progresso epocale è avvenuto con pochi scossoni, con l’eccezione della repressione di Tian An Men nel 1989. Aver coniugato crescita e stabilità è stato il merito maggiore della dirigenza. Il controllo della forza lavoro, dei cittadini è stato rigido. Se il Partito ha concesso molte libertà individuali all’imprenditoria, ha invece mantenuto un polso saldissimo sul resto della società. L’arsenale tipico è stato mantenuto: nessun sindacato antagonista, repressione del dissenso, chiusura sui diritti umani, censura sulle comunicazioni. Il Pcc, fiero del proprio ruolo, si avvia a celebrare i 100 anni di vita, nel 2021, e i 70 al potere, dalla fondazione nel 1949 della Repubblica Popolare. Tutto questo ha avuto certamente un costo sociale. Deng aveva affermato, per minimizzare la sconfitta del Maoismo, che quando si aprono le finestre per cambiare aria, è inevitabile entrino dei moscerini. In realtà i nuovi intrusi sono stati più grandi degli insetti: disuguaglianze, espropri delle proprietà contadine, inquinamento, sordità alle rivendicazioni. Nella nuova sinistra i traguardi raggiunti suscitavano indifferenza, il cambio al timone generava disincanto. La disillusione colpiva chi si era illuso. La Cina non aveva liberato la società, né cambiato i rapporti di produzione. Il lavoro salariato aveva sostituito la fatica nei campi. Le libertà individuali rimanevano ridotte, la democrazia non era all’ordine del giorno, agli operai era riservato soltanto un riscatto materiale. Paradossalmente, questa analisi identificava nel “socialismo di mercato con caratteristiche cinesi” i peggiori difetti del capitalismo e del collettivismo: sfruttamento e controllo, alienazione e conformismo, disparità sociale e grigiore. La Cina non ha il dinamismo degli Stati Uniti, ma vanta un valore più alto del Gini Index, il coefficiente che misura la distribuzione del reddito. Pechino registra più disuguaglianze di Washington. Tuttavia non se ne cura, l’unico suo metro di giudizio è il tragitto della continuità. Alla fine degli anni ‘70, Deng era stato acuto, lucido ed esplicito: “Il nostro nemico non è il capitalismo, ma il feudalesimo”.

Gli esiti del suo esperimento non sarebbero stati comunque così spettacolari senza la globalizzazione. La Cina ha tratto vantaggio dalla sua affermazione e ne ha impresso il volto corrente, quello più conosciuto. La fine dell’Unione Sovietica, il sipario sulla Guerra Fredda sembravano aver decretato la “fine della storia”. Il mondo era avviato a un’era di pace e di benessere, dove il capitalismo avrebbe allungato i suoi tentacoli ovunque creando libertà e prosperità. Sembrava irreversibile il crepuscolo del dirigismo, della politica industriale, della programmazione. In ultima analisi, anche la socialdemocrazia europea presagiva un destino avverso. Il bagaglio teorico era il liberismo dominante: ogni limitazione alla libera circolazione di capitali, persone, merci, era un ostacolo alla ricchezza sociale. Il mercato avrebbe reperito i fattori di produzione ovunque fossero disponibili al meglio: operai in Asia, materie prime in Africa, ingeneri in Germania, banchieri nel Regno Unito, consumatori negli Stati Uniti. Senza vincoli ideologici, ormai appassiti, era possibile trasformare il pianeta in un mercato globale, piatto e senza asperità, dove tutto si poteva spostare senza limiti. The World is Flat. Lo certificavano il Wto, la World Bank, il Washington Consensus.

Se tutto questo è vero, quale appare la destinazione migliore per gli investimenti internazionali? Se il mondo è un’immensa arena di produzione e consumo, dove è possibile assecondarla? Se le aziende, ormai non più indirizzate dalla sfera politica, cercano l’approdo migliore per i loro capitali, a quale paese possono rivolgersi? La Cina è una calamita imbattibile per chi vuole essere coerente con un bastione della globalizzazione: Manufacture everywhere, sell everywhere. Per questi everywhere, la Cina è il posto migliore. Offre una combinazione straordinaria di attrattività. Cosa cercano le multinazionali? Qual è l’orizzonte dei Consigli di Amministrazione quando decidono di delocalizzare? Tutto converge verso le opportunità che emergono dalla Cina. La stabilità socio-politica è il primo requisito e Pechino ha già dimostrato di saper usare i cingoli quando è necessario. Il paese è pacifico, disciplinato, ordinato. I costi di produzione rimangono contenuti. La forza lavoro, almeno in una prima fase, era inesauribile, controllata, economica. Decine, centinaia di milioni di contadini si sono dirette in città, per lavorare nelle fabbriche e nei cantieri. Le condizioni di lavoro sono dure, i diritti vengono repressi, anche se per la prima volta nella loro vita i lavoratori partecipano ad un’economia monetizzata: guadagnano un salario e lo spendono nei negozi. Da alcuni anni, per la prima volta nella storia, la popolazione urbana della Cina ha superato quella rurale. Il business climate è favorevole, gli investimenti sono benvenuti, le imposte ridotte, i profitti esportabili. La rete infrastrutturale – decisiva nella distribuzione delle merci – è eccellente. La Cina ha la più estesa rete di ferrovie ad alta velocità al mondo. Sei dei primo otto porti al mondo per movimentazione container sono cinesi, con Shanghai da anni saldamente al primo posto. Infine, esiste in Cina un mercato interno dalle potenzialità immense. Affrancati da una prudenza atavica, i consumatori cinesi si affacciano per la prima volta ad acquisti massificati, rendendo così possibile per le aziende indirizzare le vendite non più all’export ma all’interno dei confini.

Permangono ovviamente dei limiti strutturali: la ridotta indipendenza della magistratura nelle vertenze, la persistenza di copia e imitazione, il trattamento migliore riservato dalle normative alle aziende cinesi. Tuttavia i vantaggi offerti sono imbattibili, anche nei confronti dei paesi emergenti. La Cina consente non soltanto costi più bassi, ma interviene direttamente nella creazione di valore, moltiplicando le vendite e i profitti. Se l’interrogativo fosse teso a scoprire la destinazione migliore per i capitali internazionali alla ricerca di investimenti produttivi, la risposta sarebbe semplice, di una plateale evidenza. Si è dunque assistito negli anni a un matrimonio di interesse tra la Cina e le multinazionali. Un’unione apparentemente innaturale ha dato luogo a un fenomeno di grandi dimensioni. Le conseguenze sono state impressionanti.

La prima, la più conosciuta, è la veloce industrializzazione della Cina, la sua trasformazione in uno sterminato opificio mondiale, dove si produce tutto per tutti. The factory of the world. Un paese agricolo, abituato a misurare il tempo con l’arco del sole, ha appreso i ritmi della fabbrica, la spietatezza dei cronometri. L’artigianato è stato soppiantato dall’industria, il cielo oscurato dalle ciminiere. Le multinazionali non hanno soltanto arrecato le macchine utensili, ma soprattutto le capacità di farle funzionare. I loro ingegneri, sono stati preziosi come la tecnologia che fornivano. Il paesaggio demografico, etico, sociale in pochi anni ha visto un cambiamento spettacolare. Tutto ciò ha registrato relativamente pochi scossoni. Nessun paese al mondo avrebbe potuto assorbire mutazioni così repentine, enormi differenze economiche, senza vacillare. La Cina invece ha effettuato una rivoluzione rapida e silenziosa, senza il clangore delle armi ma con risultati eccezionali. Ha certamente contribuito il retaggio storico del paese – soprattutto l’omogeneità culturale – ma il merito va ascritto al Pcc. Ha cambiato linea più volte, ma non ha derogato dalla funzione che aveva assunto: selettore delle priorità, sentinella dello sviluppo, guardiano del dissenso, regolatore delle tensioni.

Una seconda conseguenza, la più pericolosa, è stata la forte de-industrializzazione del Nord America e dell’Europa. Le multinazionali non erano più legate al territorio. Nessun provvedimento politico o normativo proibiva loro di trasferire capacità produttive, di chiudere le proprie fabbriche e aprirne di nuove dove più conveniente. Gli ostacoli ideologici sono un ingombro del passato. McDonald’s ha negoziato 14 anni per avere l’autorizzazione ad aprire i battenti a Mosca, nel 1990, quando il sole già calava sull’Unione Sovietica. Il suo primo ristorante era considerato un veicolo del capitalismo, un nemico da arginare. Oggi sono presenti migliaia di McDonald’s in Cina, per la gioia della multinazionale, dei suoi soci locali e dei consumatori. La globalizzazione elimina dunque le frontiere, trasferisce il sapere industriale, trova nella rete un moltiplicatore di opportunità. La Cina dava il benvenuto agli investimenti diretti e alla committenza, off shoring or sourcing.

Le conseguenze sono state devastanti in alcuni paesi. È’ sufficiente vedere le fabbriche dismesse nel Midwest, le acciaierie abbandonate in Italia, le miniere chiuse in Vallonia o nel Galles, la riduzione degli addetti nell’industria tessile, calzaturiera, in tutti i comparti labour intensive. I recenti risultati elettorali, quelli più importanti negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Europa, hanno sorpreso soltanto chi non aveva in mente queste immagini. La risistemazione della forza lavoro ha assunto dimensioni titaniche, come se la classe operaia rivendicativa, cosciente, sindacalizzata fosse sostituita da un’infinita disponibilità di braccia a basso costo e senza tutele. I paesi di tradizione manifatturiera con prevalenza dei settori maturi, come l’Italia, hanno sofferto l’emersione della Cina. La riduzione dei salari reali, la disoccupazione, il precariato, la nascita di nuove occupazioni al di fuori della fabbrica sono stati la conseguenza, più o meno mediata, dei nuovi assetti globalizzati. Inoltre, i paesi in via di sviluppo hanno trovato ostacoli nel tentativo di industrializzarsi. Come attrarre investimenti internazionali se la Cina presenta approdi più redditizi? Quali prospettive offre una nascente industria nazionale se la manifattura è già dominata da Pechino? L’amara conclusione rivela un destino fatidico: non riuscire a trasformare le proprie materie prime, ma essere obbligati a venderle alla Cina, avversario imbattibile per produzione e distribuzione.

Oltre ai due coniugi, chi ha tratto vantaggio dall’inedito matrimonio? Gli importatori, i paesi con impianti produttivi all’avanguardia e inimitabili, come la Germania, ora la Corea del Sud, prima il Giappone. In un mondo che denunciava l’invasione delle merci cinesi, invocando un aiuto conservatore contro il loro declino, questi paesi registrano ogni anno attivi commerciali. La Cina acquista i loro prodotti, creando dunque reddito e occupazione. Le altre nazioni, la maggioranza, hanno sofferto questa emersione. Alle dinamiche capitaliste non bastava più il controllo della forza lavoro interna, perché sfuggiva loro la concorrenza internazionale. Quest’ultima è una filiazione diretta della lungimiranza delle multinazionali. Anche grazie a loro, il Regno di Mezzo è diventato un Dragone. Gli anelli deboli del vecchio ordine sono stati i più colpiti. Quando non è stato più possibile stampare moneta e finanziare il consenso con il debito pubblico, la crisi è diventata sistemica e forse irrisolvibile. In termini prosaici e con un’eccessiva semplificazione: non si può più finanziare il welfare con il sudore degli altri. Certamente la crisi è endemica nel capitalismo, sicuramente le classi dirigenti occidentali sono state imbelli, ma l’emersione della Cina ha inchiodato alle proprie responsabilità molti sistemi sociali arretrati, non concorrenziali, obsoleti prima ancora che ingiusti. La Cina è stata l’araldo di un riscatto storico, soprattutto dell’Asia. Vecchi e popolosi paesi, sedi di antiche civiltà stanno riprendendo il loro posto. Quando anche l’India e l’Indonesia saranno coerenti con le loro dimensioni, quando riusciranno a coniugare produzione e produttività, le lancette della storia ritorneranno alla tradizione, secondo l’ordine conosciuto prima della rivoluzione industriale.

L’ingresso della Cina nella globalizzazione ha generato una terza conseguenza, di impatto ugualmente grande: il sostegno alla finanziarizzazione dell’economia. Ironicamente, assumendo le capacità produttive, ha liberato energie al capitale finanziario. Mentre le tute degli operai continuavano a creare valore, gli abiti gessati di Wall Street e le bombette della City si preoccupavano di estrarre valore. Trasferivano ovunque masse ingenti di capitale, finanziavano consumi incessanti, perpetuavano il deficit statale. Per l’ennesima ironia della storia, il risparmio dei contadini cinesi concedeva credito ai consumatori americani. Pechino interveniva nei twin deficit statunitensi: con le merci attivava quello commerciale, con gli stessi dollari riparava il bilancio federale comprando titoli di stato. Il matrimonio non poteva essere più solido e conveniente, fino alla prossima crisi. È stato così rafforzato questo tipo di globalizzazione, la sua versione corrente. L’aspetto dominante è quello economico, forse addirittura contabile: rapporti di produzione senza veli nazionalistici, privatizzazione dei beni comuni, crisi del modello socialdemocratico, affermazione dell’individualismo. Il profitto è la misura di tutto, anche degli aspetti etici. Un altro versante della globalizzazione sarebbe stato possibile, se il riformismo non fosse stato così platealmente impotente e riluttante a intercettare le nuove dinamiche sociali. Sarebbero potuti emergere i valori della solidarietà, della democrazia, dei diritti, se la politica non avesse abdicato ai suoi compiti e avesse lasciato la regolazione dei conflitti all’illusione del mercato. Come noto, questa opzione è stata sconfitta. Il trionfo cinese nella globalizzazione ne è una conseguenza, neanche la più nefasta.

 

I nuovi assetti

A dieci anni dall’inizio della crisi, la Cina è ancora più solida e potente. Mentre gli altri paesi hanno pagato un prezzo alto alla recessione e molti ancora si dibattono verso una ripresa incerta, essa continua a crescere a tassi invidiabili. Una gigantesca manovra di stampo keynesiano ha immesso una benefica iniezione di denaro nella società. La crescita del Pil negli ultimi anni si è assestata intorno al 7%, un tasso invidiabile da tutti i premier del mondo. Pur lontano dai record a due cifre, la ricchezza prodotta procede con stabilità. Denota che il lungo percorso per uscire dal sottosviluppo è a buon punto. Segnala che la maturità dell’economia è acquisita: anche senza il traino dei paesi industrializzati la Cina cresce delle dimensioni di un paese come la Turchia ogni anno. L’inflazione è accettabile, i conti appaiono in ordine, la disoccupazione rimane sotto controllo, la bilancia commerciale in costante attivo. Le proteste sono contrastate in anticipo, talvolta mediate, spesso represse. Soprattutto, la Cina non deve rendere conto a nessuno, se non a se stessa. I governi, l’opinione pubblica occidentale, le cancellerie – tutti attraversati da una pregiudiziale venatura anti-cinese – non possono far altro che trattare con Pechino, con leve negoziali sempre più deboli. Per una paradossale inversione della storia, devono fronteggiare una potenza della quale hanno accelerato l’emersione. Sono costretti a importare merci cinesi, perché i consumatori le richiedono: costano poco e possiedono qualità crescente. Blandiscono i turisti cinesi: sono tanti e acquistano molto. Richiamano capitali dalla Grande Muraglia: sono disponibili e cercano all’estero la qualità che non hanno in patria. Continuano a coltivare il miraggio d’Oriente, convinti da due secoli che la Cina sia comunque the largest market on earth. Il gigante asiatico si staglia dunque vittorioso da questa prima fase della globalizzazione, congiuntamente ai profitti delle multinazionali.

Tuttavia, se il punto di massimo sviluppo coincide con la crisi, il Regno di Mezzo si trova a fronteggiare problemi inediti che la rincorsa economica aveva trascurato. Non a caso, una delle prime direttive del segretario Xi Jin Ping, appena eletto nel 2012 è stata di “uscire dall’ossessione della crescita”. Si tratta di un passaggio cruciale, ribadito dal recente XIX Congresso del Pcc. Impone la ricerca di un modello di sviluppo più sofisticato, indipendente, sinizzato. Chi trae vantaggio dalla “fabbrica del mondo”? Certamente la committenza e la distribuzione, più della Cina. La nazione ha potuto accettare un ruolo meno redditizio in cambio delle competenze per sconfiggere l’arretratezza. Ora è più forte e può imporre accordi più vantaggiosi. Inoltre, si interroga se non sia pericoloso affidare la crescita alle esportazioni. Se il resto del mondo entra in crisi, chi comprerà le merci cinesi? Si possono affidare le sorti di un grande paese alla congiuntura internazionale? Laddove il Made in China non venisse esportato, quante fabbriche chiuderebbero, quanto salirebbe la disoccupazione, che rischi correrebbe la stabilità? Nel momento in cui l’opificio mondiale tocca il suo vertice, se ne scopre la debolezza. Si comprende dunque l’insistenza verso un assetto economico più adeguato, stabile, potente, moderno. I consumatori cinesi acquisteranno le merci che producono, il consumo interno dovrà aumentare. Il modello dovrà cambiare, da investment-export led growth a domestic led growth. Non ha più significato stabilire gli ennesimi record nella produzione di acciaio, cemento, vetro, abbigliamento, calzature. Se il mondo ha bisogno di beni di scarso valore aggiunto, si rivolga ad altri paesi in via di sviluppo. La Cina è indirizzata verso un impianto più ambizioso, quality vs quantity.

Non deve infine sfuggire all’analisi la madre di tutte le contraddizioni: la Cina è un attore principale della globalizzazione senza averne condiviso i principi fondamentali. Ha intercettato le opportunità, certamente non la sua filosofia. Glielo hanno impedito la sua weltanschauung e le contingenze legate al ruolo del Partito comunista. Se la globalizzazione implica libertà, movimento, diritti umani, la Cina limita la prima, controlla il secondo, interpreta come vuole i terzi. Il pensiero dominante, affermatosi dopo l’89 a Berlino, riteneva che l’ascesa economica fosse concomitante alla democrazia politica, in una reciprocità logica tra condizioni necessarie e risultati attesi. Il dinamismo individuale appariva la ricetta per sconfiggere la povertà, lo Stato leggero il grimaldello per la prosperità. La Cina, pur abbracciando il capitalismo, lo ha declinato in maniera originale. È proprio la direzione politica a incanalare gli animal spirits. La politica industriale – anche se scevra dai piani quinquennali – impone scelte cogenti, seleziona i settori, incoraggia l’imprenditoria privata. Mentre si celebravano le vittorie ineluttabili dell’homo economicus, spavaldo e cittadino del mondo, Pechino dimostrava che si può creare valore soprattutto con la disciplina, l’aumento delle ore in fabbrica, la riduzione del costo del lavoro. Se il capitalismo avanzato preferiva lo smart work, la Cina si irrobustiva con l’hard work. Quando la globalizzazione imponeva l’uniformità dei gusti, dei modelli culturali, delle abitudini alimentari, la nazione resisteva nell’unicità della propria storia, nell’immenso retaggio comportamentale, nella protezione della Grande Muraglia. È questa singolarità a inquietare il pensiero unico del liberismo, la scoperta di un’alterità non prevista che esalta l’economia pur trovando le sue radici nella sovrastruttura. Non ha importanza che la Cina esprima un modello migliore o peggiore, il vulnus inflitto al capitalismo occidentale è la sua diversità irriducibile.

 

Prospettive

Oggi la dirigenza è impegnata ad acquisire un ruolo ancora più nevralgico nello scacchiere mondiale. Ha più forza nel discutere con i governi e le multinazionali. Possiede le risorse per acquistare la migliore tecnologia, la determinazione per sconfiggere le resistenze interne al cambiamento. All’orizzonte si intuisce la fisionomia di un paese potente e prospero, innervato da capacità ed espresso dalle nuove parole d’ordine: sogno cinese, rinascimento, new normal. Sono emerse dagli ultimi 2 congressi del Pcc che hanno sancito prima l’avvento e poi il trionfo di Xi Jin Ping. La prima fase della globalizzazione si è conclusa con un successo, la delega all’economia per sconfiggere il sottosviluppo è stata un’operazione astuta. Ora il Partito tende a riprendere in mano l’iniziativa politica, rafforzato dalle epurazioni degli oppositori, caduti nella lotta alla corruzione. Nella scena internazionale le timidezze del passato sembrano dimenticate. La Cina non ha timore di elargire i sorrisi e mostrare i muscoli. L’avvio della Belt and Road Initiative è un’operazione diplomatica ed economica che ha ricevuto un plauso diffuso. Una gigantesca tenaglia partirà dalla Cina, si dividerà lungo curve marittime e terrestri e si ricongiungerà nel Vecchio Continente, come l’antica Via della Seta alla quale si ispira. L’Eurasia tornerà ad essere un’immensa massa continentale. I suoi 2 estremi – sulle sponde del Pacifico e dell’Atlantico, passando per l’Oceano Indiano – saranno collegati da una gigantesca rete infrastrutturale dove viaggeranno merci, persone, idee. Finanziata da Pechino, l’iniziativa si muove nel solco della migliore globalizzazione, dove il commercio e la mobilità sono strumenti di pace. È meglio che alle frontiere si scambino manufatti piuttosto che colpi di artiglieria. Ora Xi può affermare incontrastato quello che rivendicava nel 2009: “Esistono degli stranieri annoiati, con gli stomaci pieni, che non hanno niente di meglio da fare che accusarci. In primo luogo, la Cina non esporta la rivoluzione; poi non causa nel mondo fame e povertà, infine non si avventura all’estero per procurare disagi. Cos’altro ancora dobbiamo dire?” Il Presidente ha ragioni da vendere, effettivamente il suo paese ha subito torti che vuole riscattare. Esprime il suo punto di vista, anche se l’analisi trova difficoltà nel distribuire torti e ragioni. Trascura però di ricordare che in una società globalizzata si possono creare danni fuori dai propri confini, anche soltanto offrendo prodotti a basso costo, vendendo in dumping, violando la proprietà intellettuale e ignorando le moderne relazioni industriali.

In contrasto con la visione armoniosa del peaceful rise, l’alba pacifica trova sullo stesso Oceano un teatro di conflitti e di pericoli. La Cina rivendica un’immensa distesa di mare, il perimetro della nine-dash line che collega isolotti, atolli e scogli. Entra così immediatamente in contrasto con il Giappone e molti paesi dell’Asean (Association of SouthEast Asia Nations), principalmente il Vietnam e le Filippine. In questa disputa, Pechino non ha esitazioni nel costruire fari, piste di atterraggio, attracchi su isole disabitate. Se riuscisse nel suo intento, allargherebbe le sue acque territoriali di migliaia di chilometri dalle sue coste attuali. Le ripercussioni sarebbero gravi, soprattutto per la libertà di navigazione. La Pax Americana che regna nel Pacifico Orientale sarebbe messa a dura prova e potrebbe generare tensioni dagli esiti imprevedibili. Perché la Cina ha sollevato queste dispute? Qual è il suo interesse a rinnegare una politica estera silenziosa? Era necessario risvegliare vecchi rancori? Pur nella complessità dell’analisi, una risposta traspare chiaramente: la Cina ora è pronta a ingaggiare nuove sfide. Ha le risorse, la determinazione, il ricordo indelebile della sua grandezza. Inoltre, il nazionalismo compatta i cittadini, il partito tiene sotto controllo l’esercito, le dimensioni contano sul piano negoziale. Tra i molti, è l’indizio più consistente che la prima fase della Repubblica Popolare – la lotta al sottosviluppo e il consolidamento del Pcc – volge ormai al tramonto. Il paese ha tratto forza dalla globalizzazione e ora cerca di riscuoterne i dividendi, imponendo il peso che la geografia e la storia le hanno assegnato.

Non le sarà facile. La Cina si trova infatti non ancora al centro del sistema mondiale, ma certamente ha abbandonato la sua periferia. È più forte, ma più esposta; gonfia il petto ma genera risentimento; è estranea alla tradizione militare ma la sua storia recente è affollata di scontri alla frontiera. Soprattutto, non è abituata a gestire la complessità della globalizzazione. Ha scarsa duttilità, confonde la trattativa con il cedimento, rispetta i rapporti di forza, privilegia il bilateralismo, la sua stella polare è il risultato. Dovrebbe accompagnare una visione più larga alla sua sinitudine, ma questo richiederebbe una responsabilità che la Cina non sa e probabilmente non vuole prendersi. Le sono ancora lontane scelte multidirezionali, la gestione delle tensioni, i conflitti a bassa intensità, la tolleranza del dissenso. Contrariamente alle ingenue attese dell’Occidente, in Cina non sono sorti partiti d’opposizione, le nuove classi non hanno dato vita a raggruppamenti sociali, le dinamiche di una società articolata hanno preso strade diverse, conformi allo spirito di Pechino. La riforma del sistema politico non è in agenda, il controllo rimane ferreo, i lavoratori devono obbedire. La lotta di classe come motore dello sviluppo è una sofisticazione impraticabile, un rischio che la dirigenza non saprebbe come assumere.

Eppure questi compiti saranno ineludibili. Dal loro svolgimento dipenderanno i prossimi assetti strategici e la nuova divisione internazionale del lavoro. La Cina per ora continua a crescere e macinare record. L’ottimismo le indebolisce i dubbi, mentre propone con gli Stati Uniti l’ultima bizzarria mediatica e politica: un paese comunista difende la globalizzazione, mentre l’alfiere del capitalismo ne riduce l’impatto con dazi e muri protettivi.


* Economista e sinologo, Romeo Orlandi è Vice Presidente dell’Associazione Italia-Asean. Insegna Globalizzazione ed Estremo Oriente all’Università di Bologna e ha incarichi di docenza sull’economia dell’Asia Orientale in diversi Master post universitari. Ha diretto il think tank Osservatorio Asia. Ha vissuto e lavorato a Los Angeles, Singapore, Shanghai e Pechino. Collabora a quotidiani e riviste specializzate. È autore di numerose pubblicazioni su Cina, India, Vietnam, Indonesia, Singapore e Asean. Per l’editore Derive Approdi ha pubblicato il romanzo “Il Sorriso dei Khmer Rouge”.

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