La guerra fredda contro la Cina
Ovvero l'autogoal dell'occidente
di Carlo Formenti
Mentre scrivo queste pagine, il neo presidente Biden viaggia per il mondo nel tentativo di costruire un fronte euroatlantico in funzione anticinese e antirussa, ovviamente sotto egemonia statunitense. Un progetto che costerebbe caro agli alleati europei (per i quali uno sganciamento dalla partnership economica con la Cina comporterebbe effetti catastrofici), per cui è prevedibile che raccoglierà molti consensi sul piano formale assai meno sul piano sostanziale. Ancor più irrealistico appare l’obiettivo di rompere il legame fra Cina e Russia, convincendo la seconda a schierarsi con l’Occidente, soprattutto perché fondato non su aperture e concessioni, bensì su continue provocazioni politico-militari – vedi Ucraina e Bielorussia – e sanzioni economiche (con il risultato che per la Russia l’alternativa obbligata diventa quella fra capitolazione e ulteriore avvicinamento alla Cina). Pura stupidità, sopravalutazione delle proprie forze, sottovalutazione di quelle degli avversari? Probabilmente un mix di questi fattori, ma soprattutto c’è l’ottusa ripetizione di vecchie strategie inadeguate al nuovo contesto mondiale, così come c’è una chiara incomprensione della logica di un competitor – la Cina – assai diverso dall’Urss, il rivale sconfitto qualche decennio fa. A tale proposito, per chi volesse dotarsi di un minimo di conoscenze attendibili – al posto dell’indigeribile paccottiglia che ci viene quotidianamente propinata dai media di regime, con la complicità di non pochi intellettuali “di sinistra” – su cosa è la Cina di oggi, è consigliabile la lettura de La via cinese. Sfida per un futuro condiviso, di Fabio Massimo Parenti, professore associato alla China Foreign Affairs di Pechino e docente al Lorenzo de Medici, The Italian International Institute di Firenze (il libro è appena uscito da Meltemi). Qui di seguito anticipo alcuni argomenti di questo lavoro.
Il volume è introdotto da un breve testo di Shaun Rein, amministratore delegato del China Market Research Group, che evidenzia i principali errori (errori che si trasformano in fatti nella testa dei cittadini disinformati) che circolano in Occidente sulla Cina, concentrandosi in particolare su tre cliché: 1) i cinesi non sostengono il loro governo o, se lo sostengono, vuol dire che hanno subito il lavaggio del cervello. Si tratta palesemente di un punto di vista razzista, commenta Rein, secondo il quale il cinese medio sarebbe un idiota incapace di giudicare l’operato dei propri leader, dopodiché aggiunge che, al contrario, i cinesi manifestano un alto livello di consenso nei confronti del regime perché consapevoli di quanto quest’ultimo abbia migliorato le loro condizioni, e di come si sia preso cura di loro nel corso della pandemia, il che li riempie di orgoglio e di patriottismo; 2) la Cina non innova, si limita a copiare le idee altrui. A smentire questo luogo comune basterebbe il semplice fatto che i maggiori brand cinesi sono oggi all’avanguardia nell’innovazione. Non solo: a consolidare ulteriormente il loro primato, argomenta Rein, contribuiscono paradossalmente quelle sanzioni occidentali che le inducono a concentrarsi sull’innovazione interna e sull’autosufficienza nella catena delle forniture tecnologiche, spingendole a estendere le proprie competenze in campi sempre nuovi; 3) l’abilità tecnologica cinese è molto indietro rispetto a quella occidentale. Questa suona ormai come un’illusione autoconsolatoria per un Occidente che, negli ultimi decenni, avendo imboccato la via della finanziarizzazione, ha progressivamente ridotto gli investimenti in ricerca, mentre la Cina moltiplicava di vari ordini di grandezza gli investimenti strategici a lungo termine in settori come la medicina, i trasporti, la logistica, l’intelligenza artificiale, i veicoli elettrici, ecc. Passando al testo di Parenti, mi concentrerò su tre temi: le peculiarità storico culturali della società cinese e del sistema politico che le incarna; qual è il reale significato della Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative, d’ora in avanti indicata come BRI); le differenze fra la visione occidentale e visione cinese del processo di globalizzazione.
Sulle nostre incomprensioni
La nostra incapacità di capire la Cina si riflette nelle risposte apodittiche e diametralmente opposte (1) che tendiamo a dare all’interrogativo se questo Paese sia da considerare socialista o capitalista (sia pure con modalità sui generis). In effetti è l’interrogativo stesso a essere mal posto o addirittura privo di senso, se avulso dalla conoscenza di una civiltà millenaria che, benché abbia subito un rapido e radicale processo di modernizzazione economica, politica e sociale, resta ancorato a un retroterra filosofico – l’etica confuciana – che ne ha determinato e continua a determinarne l’evoluzione non meno del marxismo (che, contrariamente a quanto sostenuto da molti intellettuali di sinistra (2), è ancora l’ideologia ufficiale dello stato-partito cinese). Al pari di altri autori (3) che, come lui, conoscono bene la realtà politica e sociale cinese dall’interno, Parenti mette in luce alcune delle conseguenze più significative di tale retaggio confuciano, sia nei confronti dell’etica pubblica che dello stesso assetto istituzionale del Paese. Per quanto riguarda il primo aspetto, sostiene, va ricordata la grande importanza che il confucianesimo attribuisce ai legami familiari e all’armonia sociale, assieme alla centralità degli interessi collettivi rispetto agli interessi individuali e di gruppo, tutti fattori che hanno contribuito alla facile accoglienza e al rafforzamento dei principi comunitari del marxismo. Quanto all’apparato istituzionale, è del tutto sbagliato vedere nello stato e nel partito cinesi una sorta di replica del modello sovietico. In primo luogo, perché la mentalità cinese è fortemente pragmatica, per cui rifugge dall’adesione a modelli astratti (“se c’è un modello cinese, scrive Parenti, consiste nella volontà di sperimentare differenti modelli”). Secondariamente, perché, anche in questo caso, fa valere le sue ragioni un’antichissima tradizione che considera la netta separazione di ruoli fra governati e governanti come una virtù e non come un vizio, ma soprattutto perché, a fronte di tale separazione, la totale e sollecita risposta dei primi nei confronti dei bisogni e delle esigenze dei secondi è considerata un imprescindibile obbligo morale, per cui chi sgarra nei confronti di tale obbligo è passibile di dure sanzioni (solo nell’anno scorso – cioè nel 2020 – , ricorda Parenti, sono stati sanzionati 7000 dirigenti statali e politici per avere mancato al proprio dovere).
Quanto appena asserito ci porta a sfatare un quarto luogo comune, da aggiungere ai tre contestati in precedenza, vale a dire quello secondo cui il regime cinese sarebbe totalitario e il suo sistema politico non comporterebbe alcun tipo di partecipazione democratica al processo decisionale. In primo luogo, va ricordato che, a partire dagli anni Ottanta, centinaia di milioni di cittadini cinesi partecipano alle elezioni di villaggio, basate sul suffragio universale e alle quali possono liberamente partecipare candidati indipendenti. Ai livelli superiori, dalle amministrazioni cittadine e provinciali a quelle centrali, vigono invece tre tipi di democrazia che Parenti definisce, rispettivamente, democrazia a posteriori, meritocrazia politica verticale e democrazia consultiva.
La democrazia liberale di tipo rappresentativo è una democrazia procedurale che seleziona “a monte” – attraverso il voto – i rappresentati del popolo ma che, per varie ragioni (sulle quali Parenti non si sofferma, mentre vengono approfondite in un lavoro di Daniel Bell (4), un altro intellettuale che vive da tempo in Cina) non assicura – come testimonia la crescente sfiducia dei cittadini occidentali nei confronti dei rispettivi regimi politici – la democraticità delle politiche a “valle” del processo elettorale. Democrazia a posteriori significa che i rappresentanti del popolo in Cina vengono selezionati con altri metodi, vale a dire attraverso una rigorosa valutazione delle loro esperienze e prestazioni pregresse, prestazioni che vengono misurate in termini di soddisfacimento dei bisogni delle masse, di riduzione dei tassi di povertà e inquinamento ambientale, ecc. La valutazione non arriva solo dai gradi superiori della gerarchia, ma anche dal basso, attraverso canali spontanei e informali che vanno dalle manifestazioni di protesta al tamtam delle denunce e delle rivendicazioni attraverso le piattaforme di microblogging. Ironicamente, questi fenomeni vengono presentati dai media occidentali come sintomi dell’esistenza di una consistente massa di dissidenti e cittadini insoddisfatti, laddove, spiega Parenti, il regime li considera strumenti preziosi per misurare il tasso di soddisfazione o insoddisfazione popolare e procedere alle eventuali, opportune rettifiche di indirizzo politico.
La piramide gerarchica che viene costruita per mettere in atto questa democrazia a posteriori, si basa sul principio di “meritocrazia politica verticale” (5), cioè su un sistema di durissime selezioni per scegliere funzionari statali, dirigenti politici e quadri di partito (a partire dalla decisione se accogliere o meno le domande di iscrizione che pervengono alle cellule di base). Una volta ammessi alla carriera politica o amministrativa (spesso strettamente intrecciate se non coincidenti) si sale solo se si fa bene (applicando i criteri e i metodi di valutazione illustrati poco sopra). Gli organi di partito sono il Congresso Nazionale (ogni cinque anni) la Commissione Centrale, il Politburo e il Comitato Permanente del Politburo, composti, rispettivamente di 370, 25 e 7 membri selezionati sulla base dell’anzianità (6). Il vertice statale coincide con il Consiglio di Stato (cui partecipano i ministeri chiave) mentre l’organo legislativo è il Congresso Nazionale del Popolo (anche questo in carica per cinque anni) che conta circa 3000 delegati e del quale fanno parte, a ulteriore smentita della natura monolitica e totalitaria del regime, 800 delegati degli altri otto partiti ammessi dalla costituzione e 500 delegati indipendenti, oltre a rappresentanti delle minoranze etniche.
Infine esiste un importante organo di democrazia consultiva, la Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese (CCPPC) in cui siedono rappresentanti di varie componenti della società civile (imprenditori, giornalisti, ricercatori, scienziati, ecc.) che hanno il compito di elaborare analisi e fare proposte per le autorità dello stato-partito: “Da qui discendono, scrive Parenti, i piani di sperimentazione di nuove politiche, esperimenti pilota, correzioni delle politiche vigenti, nonché lo sviluppo di strategie di lungo termine e, in generale, i processi di pianificazione”. Se a questa complessa e articolata struttura aggiungiamo gli ampi margini di autonomia di cui godono le amministrazioni locali, è evidente che non ci troviamo di fronte a un rigido e immodificabile apparato burocratico (7), caratteristico dei regimi totalitari, bensì a un sistema articolato e flessibile in cui le interazioni scorrono sia dall’alto verso il basso che dal basso verso l’alto (e anche in senso trasversale, in quanto si tende a favorire lo scambio e la diffusione delle migliori pratiche).
Un’altra idea di globalizzazione
Nel tratteggiare le differenze fra globalizzazione neoliberale e globalizzazione a trazione cinese, Parenti richiama sinteticamente l’ampio patrimonio di contributi marxisti all’analisi del fenomeno, a partire dagli effetti generati dalla prima a partire dalla controrivoluzione neoliberale e monetarista degli anni Ottanta (rapido e drammatico aumento delle disuguaglianze, processi di destabilizzazione economica, politica e sociale). In particolare, sulla scia di autori come Samir Amin (8), mette in luce come, esauritasi la fase della colonizzazione diretta, Stati Uniti ed Europa, abbiano messo in atto nuove forme di oppressione e sfruttamento attraverso la loro supremazia tecnologica, militare e finanziaria. L’intera politica degli “aiuti” occidentali è apparsa finalizzata a mantenere i Paesi del Terzo mondo in una condizione di dipendenza (9) obbligandoli a seguire precise politiche (liberalizzazione dei mercati, privatizzazione dei servizi pubblici e strategici, ecc.) in cambio dei prestiti ricevuti (10).
A conferma del fatto che la globalizzazione neoliberale non è stata un fenomeno “oggettivo” frutto di presunte “leggi” economiche, bensì un lucido progetto egemonico occidentale trainato dagli Stati Uniti, Parenti cita il fatto che, partire dai primi anni del 2000, cioè ancor prima che la lunga crisi iniziata nel 2008 e proseguita con la pandemia innescasse processi di controtendenza, le élite politiche occidentali avevano già cominciato a teorizzare la necessità di invertire il processo di globalizzazione, nella misura in cui si erano rese conto del fatto che alcuni Paesi emergenti (i cosiddetti BRICS) rischiavano di trarne eccessivo vantaggio e di diventare pericolosi competitor. Così il NIC (National Intelligence Council), in un rapporto del 2004, sosteneva appunto la necessità di un rallentamento del processo per penalizzare questi scomodi commensali che si erano uniti al banchetto del sistema economico globale.
Quando Xi Jinping, in un famoso discorso al Forum di Davos di qualche anno fa, sostenne viceversa le ragioni di un rilancio del processo d’integrazione dell’economia mondiale, furono in molti a vedervi una conferma dell’esistenza di un progetto egemonico “simmetrico” – altrettanto imperialista e neo coloniale – rispetto a quello occidentale. In particolare, si è insistito sul fatto che gli aiuti cinesi funzionano come una “polpetta avvelenata” che ha lo scopo di intrappolare i Paesi che li accettano nella “trappola del debito” (cioè di replicare una strategia che le potenze occidentali applicano sistematicamente da decenni!) e di condizionarne in questo modo le scelte politiche nazionali e internazionali.
A questa ed altre accuse replica in una “Appendice” al libro (intitolata Come la Cina sta costruendo un modello non imperialista dello sviluppo internazionale) Michael Dunford, visiting professor presso l’Accademia delle Scienze di Pechino, il quale scrive che, se gli aiuti cinesi sono per certi versi simili a quelli occidentali, gli obiettivi, i principi e le pratiche differiscono molto. Gli aiuti cinesi si basano infatti sui cinque principi della convivenza pacifica (non interferenza, non imposizione, non uso della forza, cooperazione vantaggiosa per tutti, uguaglianza fra i Paesi), rispettando “il desiderio dei Paesi che sono stati vittime dell’imperialismo e del dominio coloniale e semicoloniale di vedere rispettata la loro sovranità e integrità territoriale, di essere trattati da pari a pari e di non subire interferenze nei loro affari interni”. Infine non è vero che impongano condizioni capestro ai Paesi debitori: la Cina fornisce trasferimenti, prestiti senza interessi, “capitale paziente” (a lungo termine) e assistenza agevolata attraverso una serie di istituzioni finanziarie ad hoc. Parenti ribadisce questa tesi scrivendo che la Cina si è agganciata alla globalizzazione neoliberale con modalità sui generis, preservando la propria indipendenza e autonomia politica e promuovendo nuove forme di internazionalizzazione, una modalità alternativa di proiezione internazionale che si fonda appunto su nuove istituzioni internazionali e meccanismi di cooperazione in varie aree del mondo, né comporta una massiccia proiezione militare e l’attivazione un sistema creditizio soffocante. È proprio questa modalità diversa, ed autonoma anche sul piano amministrativo oltre che politico, rispetto alle istituzioni della globalizzazione neoliberale che provoca le dure reazioni di Stati Uniti ed Europa, reazioni che si sono intensificate da quando la Cina ha lanciato il progetto della nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative), del quale andiamo ora a occuparci.
Gli equivoci sulla BRI
La BRI è il più chiaro esempio dello stile cinese di proiezione internazionale che abbiamo appena descritto. La definizione di Nuova Via della Seta, con il suo corteggio di riferimenti storici agli scambi fra gli antichi imperi romano e cinese e ai successivi sviluppi, come il leggendario viaggio di Marco Polo, sono certamente suggestivi (al loro immaginario si sono recentemente inspirati decine di libri e anche qualche film, fra cui alcuni colossal prodotti dagli stessi cinesi) ma possono risultare depistanti. La BRI è un’iniziativa (Parenti spiega che si è preferito questo termine a strategia per sottolinearne lo spirito di apertura, laddove parole come progetto e strategia evocano piani e obiettivi ben definiti) di dimensioni colossali (sono previsti investimenti pari a un trilione di dollari) ed estremamente articolata e complessa. In pratica si tratta di avvolgere l’intera Eurasia, dalla Cina al Mediterraneo, oltre al continente africano, con una fitta rete di linee ferroviarie, rotte navali, cavi in fibra ottica, da supportare con nuove installazioni aeroportuali, nodi stradali, stazioni ferroviarie, ecc.
Questa priorità accordata agli investimenti infrastrutturali è un'altra delle caratteristiche che distinguono la globalizzazione in stile cinese da quella occidentale, prevalentemente di natura finanziaria. Si tratta di una scelta non causale perché, come scrive Parenti, la Cina tende così a esportare un modello di sviluppo economico fondato sulla interconnettività che ha già dimostrato la sua efficienza sul piano nazionale. Alle prese con gli squilibri fra macroregioni generati dai tumultuosi ritmi di crescita innescati dalle zone speciali (situate soprattutto nelle aree costiere) che si erano lasciati indietro le aree interne del Paese, oltre che con la povertà di alcune province. penalizzate da caratteristiche geografiche che tendevano a marginalizzarle, i governi degli ultimi decenni hanno messo in atto strategie di investimenti infrastrutturali che hanno consentito a chi era rimasto indietro di recuperare il proprio ritardo. Quindi la Cina, ancor prima che fosse lanciata la BRI, ha proposto lo stesso modello in Africa, dove ha promosso la costruzione di nuove tratte ferroviarie che hanno favorito la nascita di mercati regionali che prima non esistevano (le potenze occidentali si erano ben guardate di fare altrettanto, perché il loro obiettivo non era favorire lo sviluppo dei Paesi africani bensì mantenerli in una situazione di sottosviluppo che permetteva di continuare a sfruttarli).
Come chiarito nel precedente paragrafo, questo tipo di interventi è stato bene accolto dai Paesi interessati 1) perché inspirati da un principio di partnership inclusiva e non coercitiva (non sono stati imposti vincoli politici di sorta alla sovranità e all’autonomia dei Paesi destinatari); 2) perché hanno generato un aumento delle interconnessioni fra regioni diverse del continente, collegando fra loro spazi che erano rimasti disconnessi e marginalizzati, favorendone in questo modo lo sviluppo. Ciò detto è chiaro che tutto questo non è frutto di puro spirito di solidarietà: la Cina in questo modo si assicura un duplice vantaggio: da un lato, favorire lo sviluppo dei Paesi post coloniali vuol dire assicurarsi nuovi mercati di sbocco per i propri prodotti, dall’altro in questo modo guadagna punti rispetto all’Occidente sul piano del soft power. Tuttavia, argomenta Parenti, concentrarsi su quest’ultimo aspetto, assimilando la BRI a una sorta di Piano Marshall cinese, concepito principalmente, se non esclusivamente, con l’obiettivo di contrapporsi ai competitor geopolitici, è profondamente sbagliato perché proietta sulla Cina la logica egemonica tipica degli Stati Uniti e dei suoi partner occidentali. Viceversa la Cina, come già sosteneva Giovanni Arrighi qualche anno fa (11) non aspira a sostituire gli stati Uniti nel ruolo di nuovo egemone globale, ma mira piuttosto a favorire la nascita di un nuovo ordine multipolare più equo ed equilibrato di quello attuale.
Naturalmente nemmeno quest’ultimo obiettivo è accettabile per una superpotenza come gli Stati Uniti che, dopo il crollo dell’Urss, si era illusa di poter assumere il controllo totale e incontrastato del mondo. Ed è per questo che, a mano a mano che questa illusione si è dimostrata impraticabile (non solo per la crescita della Cina ma anche per l’emergere di nuove potenze regionali come la Russia, l’Iran e la Turchia e per lo scoppio di una serie di rivoluzioni in America Latina), la politica americana si è fatta sempre più aggressiva, scatenando una serie di guerre “umanitarie” locali (giustificate con l’obiettivo di “esportare” la democrazia e i diritti umani nei Paesi che non si allineano ai diktat di Washington). Così, dopo avere assistito all’inasprimento della relazioni Usa-Cina sotto Trump, vediamo oggi che il neo presidente Biden minaccia di generare livelli di tensione ancora più elevati (come sottolinea Parenti, siamo passati dallo slogan America First di Trump a quello, assai più preoccupante, America is Back, Ready to Lead the World, di Biden). Anche nella nuova guerra fredda contro la Cina la propaganda americana fa leva soprattutto sull’argomento delle presunte violazioni dei diritti umani, parlando addirittura di genocidio ai danni della popolazioni uigure dello Xinjiang. Ironicamente, queste accuse – oltre che prive di qualsiasi prova documentale - ignorano il fatto che, in quella regione, la Cina ha combattuto e vinto la lotta contro quello stesso terrorismo di matrice islamica che abbiamo sperimentato in Occidente, ma per gli Stati Uniti quegli stessi terroristi che il governo americano ha imprigionato in condizioni disumane a Guantánamo, in Cina si trasformano magicamente in combattenti per la libertà (per inciso gli Usa finanziano l’East Turkestan Islamic Movement, una formazione affiliata all’Isis che opera nello Xinjiang).
Non meno pretestuosa (e smentita dall’OMS oltre che da numerosi scienziati occidentali) l’accusa secondo cui l’epidemia del Covid 19 sarebbe stata provocata da un virus sfuggito da un centro di ricerca di Wuhan. Posto che le autorità provinciali cinesi hanno certamente commesso – come riconosciuto dallo stesso governo centrale – un errore di sottovalutazione iniziale del problema, il vero motivo per cui si è messa in piedi questa campagna di disinformazione, è la necessità di distogliere l’attenzione dalla disastrosa gestione occidentale (in particolare negli Stati Uniti) della pandemia, costata milioni di morti, laddove la Cina ha compiuto il miracolo di controllare in tempi rapidissimi una emergenza che poteva rivelarsi disastrosa in un Paese con un miliardo e mezzo di abitanti. Ma soprattutto occorre distogliere l’attenzione dagli indizi che proverebbero che il virus circolava in Spagna, Italia, Francia e Usa mesi prima della sua identificazione a Wuhan, mentre non mancano sospetti che a innescarlo possa essere stato un errore commesso in un centro di ricerca militare situato in Virginia (12). Oggi è difficile prevedere se questa politica provocatoria e aggressiva resterà sul terreno della guerra fredda o rischierà di provocare una vera e propria guerra, con conseguenze devastanti per l’intera popolazione mondiale, quel che è certo è che, come osserva Parenti, gli Stati Uniti stanno adottando la vecchia strategia che avevano usato contro l’Unione Sovietica contro un avversario nuovo e in un contesto economico, politico e sociale completamente mutato, il che finirà inevitabilmente per rivoltarglisi contro. Come già detto in apertura di articolo, ci troviamo di fronte a un mix di stupidità, sopravalutazione delle proprie forze e sottovalutazione di quelle dell’avversario.
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