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Lavori, stronzate, e la burocratizzazione del mondo

di Jason E. Smith

smith callcenter4«In nessun altro luogo, troviamo uno spreco altrettanto vergognoso della forza lavoro umana, per gli scopi pù spregevoli, di quello che troviamo in Inghilterra, la terra delle macchine.» (Karl Marx, 1867)

Probabilmente, ne avete sentito parlare per la prima volta quando avrete letto - su Bloomberg.com oppure sulle pagine del "The New Yorker" - del ruolo che ha avuto come uno dei "fondatori" del movimento di Occupy Wall Street. È probabile che alcuni di voi si siano imbattuti in lui anche prima, quando il The New York Times ha pubblicato un breve articolo sul professore di antropologia, apertamente anarchico, dove si lamentava del fatto che la politica aveva sventato i suoi piani per ottenere una cattedra a Yale. Altri, probabilmente un po' più giovani - che sono andati alla deriva nel periodo politico "radicale" successivo al 2008 - lo hanno trovato la prima volta su Twitter, dove mantiene assiduamente contatti con quasi 70.000 followers. Radicali un po' più anziani lo ricorderanno all'inizio del secolo, come partecipante entusiasta, e cronista, al movimento anti-globalizzazione. "Slate", The Guardian, The Financial Times ed altri organi delle potenze dominanti, aprono gli spazi delle colonne dei loro giornali alle sue riflessioni sulla tecnologia, sul denaro e sul Corbynismo, oppure ai suoi appelli in cui si richiede soccorso occidentale per i "rivoluzionari curdi" di Rojava (che hanno goduto per molti anni del letale supporto aereo degli aerei da guerra statunitensi). Figlio di un newyorkese di sinistra - suo padre ha combattuto nelle leggendarie Brigate Lincoln - oltre che uno degli ultimi studenti di Marshall Salins, oggi David Graeber è più noto per il suo monumentale libro del 2001, “Debito. I primi 5000 anni”, che è stato pubblicato appena un paio di mesi prima che sorgesse l'accampamento in Zuccotti Park.

Quel libro - che ha impiegato anni per scrivere - è sembrato, sia per il suo tempismo che per il suo contenuto, l'opera storica e teorica più in sintonia con il movimento di Occupy Wall Street e con le sue richieste. Oggi, sette anni dopo quella pubblicazione - e dopo l'ascesa e l'esaurimento di quel movimenti - Graeber è ritornato sui suoi precedenti studi relativi al "mito del baratto", e alla priorità del debito rispetto alle relazioni di scambio nella storia umana, con un nuovo libro, stavolta scritto a proposito di una questione contemporanea.: "l'attuale regime lavorativo". Ovvero, per metterla nel suo gergo insistentemente populista, la "proliferazione di lavori stronzata". Nella prima pagina di "Bullshit Jobs", Graeber riferisce che nel 2013 aveva pubblicato un breve articolo che «aveva scatenato un po' di scalpore a livello internazionale» [*1]. Lo scopo di quel pezzo era quello di evidenziare un eccesso di lavoretti "completamente inutili" che affollano i mercati del lavoro nelle società capitaliste contemporanee, e dare dei suggerimenti sul perché, in un ordine sociale che pretende di premiare l'allocazione efficiente di risorse, rispetto a questo, sembra esserci così tanto forza lavoro umana sprecata. Dal momento che molti - forse la maggior parte - lavoratori salariati, nelle economie sviluppate dell'Europa e del Nord America - e non solo lì - trovano noioso ed inutile il loro attuale lavoro (uno spreco di attenzione e di attività che potrebbe essere usato meglio), l'articolo aveva colto nel segno. Le repliche, forse un po' affrettate, hanno trovato posto nei mezzi di informazione che avevano ospitato Graeber. Commenti sono arrivati un po' da ogni dove. Ha risposto The Economist; i quadri intermedi delle banche hanno inviato e-mail. Graeber è arrivato alla conclusione che era incappato in qualcosa di importante. Così ha sviluppato quell'articolo in un libro. E oggi, cinque anni più tardi, Simon & Schuster ha pubblicato l'edizione americana; Allen Lane, un sigla editoriale della Penguin Press, l'edizione inglese. Seguiranno le traduzioni. Attraverso il web, nelle reti sociali, si avverte un'eccitazione internazionale assai minore. Il passaparola è appena cominciato.

L'affermazione centrale del libro è che negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nelle altre economie in cui il settore finanziario genera più reddito di tutti gli altri settori, incluso quello manifatturiero, e in cui la maggior parte dei lavoratori trascorre la propria giornata eseguendo ciò che in maniera confusa vengono definiti "servizi", esiste un numero smisurato di lavori inutili, e perfino dannosi. In questi lavori, che Graeber categorizza come "lavoro di informazione", le persone producono molto poco valore, mentre quegli stessi lavori esigono un enorme tributo "spirituale", sia da parte di coloro che sono costretti ad eseguirli, sia da parte del tessuto sociale frammentato, rispetto al quale queste occupazioni costituiscono una parte sempre più grande. I dati confermano che questa caratteristica del mondo del lavoro contemporaneo è onnipresente, e incontrovertibile. I lavori-stronzata, tuttavia, hanno difficoltà a penetrare la barriera dell'ovvietà. Lo schema concettuale di Graeber è impreciso ed elusivo, e sembra esserlo quasi di proposito. In un primo momento, nel tentativo di valutare questi "lavori stronzata" - al fine di distinguerli, per esempio, dai meri "lavori di merda" - a Graeber viene l'idea di "valore sociale positivo", al quale contrappone il "mero valore di mercato". Il valore di mercato, il tasso corrente che ciascuno pagherà per un determinato bene o servizio, è misurabile; il valore sociale positivo, invece non lo è. Secondo Graeber, l'unico modo per valutare il valore sociale, paradossalmente, è fare affidamento sulla testimonianza individuale, resa in prima persona dal lavoratore che svolge quei compiti richiesti da una data occupazione: «In realtà, sto solo dicendo che dal momento che esiste una cosa come il valore sociale, oltre al semplice valore di mercato, ma dal momento che nessuno ha mai trovato un modo adeguato per misurarlo, è probabile che sia il punto di vista del lavoratore quello che è più vicino ad arrivare a una valutazione accurata della situazione.» Sebbene la storia del movimento operaio offra una ricca, anche se minore, tradizione di inchiesta militante a proposito dell'esperienza di dominio e di lotta dell'operaio all'interno del posto di lavoro, Graeber ha in mente qualcos'altro. Fa una selezione di esempi tratti dalla "grande discussione online" generata, ci viene a dire, dal suo articolo iniziale, nel mentre che sollecita conferme da parte dei suoi follower su Twitter. Tuttavia quest'attenzione alla singolarità dell'esperienza soggettiva, produce una definizione a volte frettolosamente banale di che cosa sia il lavoro "che ha valore"(parla a proposito di "significativa differenza nel mondo", ecc.), e alla fine, ostinandosi, Graeber rifiuta di assumersene la responsabilità, buttandolo sul cosiddetto "buon senso". Basandosi sulla testimonianza di Tizio e di Caio, conclude che, per quanto refrattario possa essere alla misurazione oggettiva, il "sottovalutato buon senso", prevalente fra i suoi devoti online, «quando un bene o un servizio rispondono alla domanda ovvero migliorano la vita delle persone, questo allora può essere considerato genuinamente di valore.» Graeber elabora: tali lavori devono «rispondere ad una genuina domanda del consumatore». E nel caso vi stiate chiedendo che cosa, per Graeber, si intenda per "sociale", ecco che la nebbia si alza quando specifica che possono essere considerate occupazioni degne di un lavoro quelle che sono «essenziali per la salute e la prosperità della nazione.» E infatti, Graeber ci prova per tutto il libro a cercare un certo numero di definizioni per un lavoro che sia buono ed onesto. Alla fine, arriva ad una formulazione che sembra aderire - senza dubbio, in parte perché appartiene ad una tendenza secolare propria dell'economia politica classica - e che fa appello a qualcosa che viene dato per scontato e che si suppone che sia apprezzato dal buon senso. Queste attività ed occupazioni che soddisfano la domanda del consumatore e che contribuiscono alla vitalità e alla ricchezza della nazione equivalgono, ci viene assicurato, a «effettivamente fare, muovere, aggiustare, o trasportare le cose» (in una versione leggermente differente a «effettivamente fare, manutenere, aggiustare, o trasportare cose»). Sono le caratteristiche di quello che Adam Smith aveva definito come lavoro "produttivo", con cui intendeva che «il lavoro del produttore [che] aggiunge, in generale, al valore dei materiali quello che è il suo lavoro». A questo lavoro che aggiunge valore, Smith opponeva un vasto e variegato genere di lavoratori improduttivi tipici della fine del XVIII secolo: «preti, avvocati, medici, uomini di lettere di ogni tipo; giocatori, buffoni, musicisti, cantanti d'opera, ballerini, & Co.» [*2]. In più occasioni, Graeber ammette implicitamente questa ben distinta suddivisione fra lavoro produttivo ed improduttivo, facendo riferimento al lavoro di creare, muovere e manutenere le cose, in quanto «reale, produttivo.» Qualsiasi cosa sia che faccia ricorso all'immediatezza dell'esperienza vissuta dei lavoratori - il vivido senso di inutilità, che viene trasmesso a Graeber dai suoi follower - gli assunti concettuali del libro sono presi da un'economia politica classica, per non parlare di un recente idillio populista, rivisto di recente, in cui rimpiange un'epoca di grasso ed abbondanza quando "noi" facevamo (o muovevano o facevamo manutenzione)  realmente le cose.

Nella disciplina economica, la distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo ha una lunga storia. Smith era solito opporre il settore manifatturiero e quello agricolo, a quello che noi chiamiamo il settore dei servizi (tipicamente, per Smith, gli "umili" servitori ed il personale governativo). Ma Smith, come Graeber, confonde il lavoro produttivo con il suo contenuto completo; entrambi presumono di giudicare la questione sulla base dell'osservazione diretta della natura dell'attività in questione, anziché esaminarne il suo posto all'interno del modo sociale di produzione, in quanto sistema. Identificare il lavoro reale, produttivo, con la produzione e lo spostamento di cose sembra escludere decine di milioni di posti di lavoro, negli Stati Uniti, nel settore della salute e dell'istruzione - a meno che non si consideri l'assistente sanitario che cambia le lenzuola e somministra farmaci ad un anziano o ad un malato come un riparatore che faccia manutenzione delle cose. Equiparare il lavoro socialmente di valore al lavoro produttivo, presuppone anche l'utilità sociale di qualsiasi bene prodotto, purché esso sia una "cosa". Bietola, metanfetamina, latte in polvere, o fucile d'assalto. I camionisti che trasportano migliaia di galloni di bevande gassate a basso costo, dalle fabbriche di imbottigliamento agli enormi supermercati alla periferia delle città rurali, svolgono un lavoro più socialmente "utile" di quello, per dire, di una segretaria malpagata di uno studio medico, che aiuta i pazienti a compilare i moduli dell'assicurazione? Il lavoro che viene svolto in una fattoria da uno che alleva bestiame - producendo, in cambio, enormi quantità di gas metano che sovverte il clima - per fornire bistecche a basso costo a quegli stessi operai malpagati, è inequivocabilmente un bene sociale? I lavoratori nelle fabbriche tessili indonesiano che producono borse per i compratori che fanno parte dell'alta borghesia della periferia newyorkese si sentono soddisfatti perché stanno producendo degli oggetti individuali e presumibilmente utili, in quanto il lavoro che loro svolgono contribuisce ad una qualche positivo "valore" sociale?

Simili esempi, simili domande, sono facili da moltiplicare; è evidente, da quelli che ho scelto in maniera arbitraria, che la domanda relativa a cosa sia socialmente utile è una domanda politica, non è questione di opinione. Ma anche questa linea di ragionamento, manca qui quello che è il vero punto. Presumendo che il gioco fra lavoro produttivo ed improduttivo possa servire qui a qualcosa - il concetto di lavoro "produttivo", in quanto tale, è alla base di tutti gli argomenti di Graeber [*3] - esso richiede che noi si faccia una qualche riferimento all'attività concreta (costruire/muovere/mantenere) che viene svolta come decisiva. Il grande merito della rielaborazione, svolta da Marx, delle categorie di Smith consiste nel fatto che essa si focalizza non sul loro contenuto concreto (il genere di lavoro ed il suo prodotto), ma sulla posizione che viene assunta da una data attività all'interno del processo per mezzo del quale il lavoro viene messo all'opera per produrre un profitto per il capitale, visto che il profitto - e non la soddisfazione della domanda sociale in quanto tale - è il punto di arrivo ultimo della produzione nel capitalismo. La stessa attività - per dire, svuotando le padelle - può essere non pagata quando viene svolta da dei membri della famiglia, oppure può essere "improduttiva" quando c'è un assistente sanitario che viene pagato per mezzo del reddito personale di quella stessa famiglia, e può essere "produttiva" quando gli stipendi dei lavoratori dell'assistenza sanitaria vengono pagati da un datore di lavoro che vende al consumatore i servizi dei suoi dipendenti. Una simile discriminazione concettuale non può essere osservata direttamente attraverso i sensi; la differenza non risiede nella concreta attività in sé stessa, ma nella forma sociale all'interno della quale l'attività viene incorporata. Uno dei modi per distinguere fra lavoro produttivo ed improduttivo, è quello di distinguere le attività che vengono pagate dai redditi personali da quelle - forse le stesse - che vengono pagate da un imprenditore. Un altro modo, è quello di distinguere fra attività che producono una merce vendibile, a prescindere dal fatto che si tratti di una merce o di un servizio, ed attività che richiedono che queste merci siano trasformate in denaro. Pubblicità, immagazzinamento, contabilità stesura di contratti legali: sono tutte operazioni che costruiscono il momento dello scambio, quell'istante in cui i soldi cambiano di mano. Si consideri il cassiere, che secondo il giudizio di chiunque è certamente il titolare di un lavoro-stronzata. Il cassiere non crea, non manutiene e non aggiusta niente. È il burocrate per eccellenza: facilita il processo dello scambio, attraverso il quale il possesso di un bene o di un servizio viene trasferito ad un acquirente in cambio di denaro. In una società capitalista, tale lavoro accelera la "realizzazione" del valore che viene aggiunto durante la produzione, la sua trasformazione in denaro che possa essere reinvestito nella produzione, oppure speso nel consumo, da parte del proprietario dell'impresa, mentre allo stesso tempo permette al consumatore di poter accedere alle merci, qualunque sia la loro utilità sociale (Bietola, metanfetamina, latte in polvere, o fucile d'assalto). Gran parte del lavoro che viene svolto dai lavoratori in tutto il mondo, ed in particolare nei paesi ad alto reddito, consiste proprio in questo: soggettivamente inutile, eppure oggettivamente necessario per la distribuzione delle merci e dei servizi prodotti, dal momento che nella nostra società essi vengono prodotte da imprese private il cui unico obiettivo non è incontrare i bisogni sociali, bensì la trasformazione di un'iniziale somma di denaro in una somma di denaro più grande. [*4]

Graeber peggiora il suo errore - valutando e mettendo in ordine le varie occupazioni sulla base del fatto che aggiungano o meno valore attraverso la "reale" manipolazione delle cose materiali - in seguito nel libro, mappando questa distinzione su interi settori dell'economia. In realtà, il confine fra attività produttiva ed improduttiva evocato sopra, non esiste in ogni settore dell'economia, ma scorre attraverso ogni impresa capitalista privata, e spesso anche attraverso una singola occupazione, a seconda di quelli che sono i tipi di compiti che vengono raggruppati in una particolare descrizione di un lavoro. Ad ogni modo, i Lavori Stronzata non rientrano in tali precauzioni analitiche. Nel momento in cui la quota di PIL del settore finanziario, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ha di gran lunga superato quella del settore manifatturiero - e visto il ruolo giocato dalle nuove tecnologie finanziarie nella crisi economica globale del 2008 - non sorprende che i mirini di Graeber siano tarati sui gatti grassi di Wall e di Lombard Street. Eppure il suo modo di trattare la questione, nel suo design è decisamente populista, con le operazioni bancarie, il credito, ed i mercati dei capitali che vengono più e più volte presentate come un'intricata, ingannevole "frode" («una sorta di truffa», «fondamentalmente una truffa») perpetrata da una piccola élite posizionata al vertice della catena alimentare sociale. Questa retorica si completa per mezzo di una favola circa un periodo subito precedente alla "fusione" della finanza e della grande industria (compagnie che effettivamente creano, muovono e manutengono cose) a metà degli anni '70. Quella di Graeber è una storia che ci racconta le "responsabiltà morali" delle corporazioni, e di quanto coscienziosamente i leader dell'industria - «manager di aziende dedite alla produzione di cereali per la colazione, o di macchinari agricoli» - nutrissero prima un particolare disprezzo per i trucchetti dei prestatori di denaro e raccoglitori di titoli, vedendo «sé stessi come persone che avevano più cose in comune con gli operai di linea nelle proprie aziende, di quanto ne avessero con speculatori ed investitori». C'erano una volta, e non è molto tempo, i capitani d'industria e i lavoratori nell'officina, quelli la cui attività era "ugualmente essenziale per la salute e per la prosperità della nazione", formavano un baluardo contro le predazioni di coloro che scambiano solo denaro per denaro; se non condividono né la proprietà dei mezzi di produzione, né i flussi di reddito cui tale proprietà li legittima, la loro attività socialmente utile si trova in netto contrasto con il nichilismo del losco mondo delle banche e dei fornitori di servizi finanziari. Tuttavia, la tesi secondo la quale «durante la maggior parte del XX secolo, le grandi corporazioni industriali erano molto indipendenti, e in qualche misura perfino ostili, rispetto agli interessi di quella che veniva chiamata "alta finanza"», è qualcosa di difficile da vendere. Il primo ventennio del XX secolo, ha generato una valanga di teorizzazioni a proposito dell'integrazione - che allora era una novità - fra settore bancario ed industriale. Hilferding e Lenin - per richiamare solo i casi più ovvi, avevano esaminato questa nuova era di trust e cartelli vista come una mutazione matura dell'ordine capitalistico, in cui concentrazioni di capitali mai visti prima davano vita a monopoli che turbavano la funzione di allocazione "efficiente" dei mercati e i segnali dei prezzi. Alcuni, come Giovanni Arrighi, hanno sostenuto che la subordinazione del settore produttivo alla logica ed al dominio del capitale finanziario è, se compreso storicamente, un fenomeno ciclico che indica un'imminente crisi di accumulazione. Se ci domandiamo il perché la finanza abbia assunto una simile preponderanza a partire dagli anni '70, possiamo fare di meglio che concentrarci su questo. Dovremmo preoccuparci degli alti e (soprattutto) dei bassi del modo di produzione capitalista degli ultimi 50 anni. [*5]

Indubbiamente, la portata delle operazioni finanziarie nei paesi del centro capitalista, può essere attribuita in parte alla crescente divisione globale del lavoro, caratteristica dell'era attuale. Più precisamente, tuttavia, ciò avviene perché il capitale è mobile, e perché per definizione cerca il più alto tasso di rendimento degli investimenti, ed è estremamente sensibile alle discrepanze rispetto al profitto nelle differente industrie e nei differenti settori dell'economia. Dal momento che il saggio di profitto nel settore manifatturiero ed industriale - in genere in tutto il mondo, in media dappertutto - negli ultimi 50 anni è diminuito, non sorprende che il capitale abbia cominciato a riversarsi in delle attività che promettono un rendimento più elevato sugli investimenti [*6]. Una delle caratteristiche salienti del modo di produzione capitalista, riguarda il fatto che i proprietari di quei beni che non sono capitalisti produttivi industriali - proprietari terrieri, capitalisti monetari, commercianti, e così via - sono in grado di catturare il plusvalore generato dal capitale produttivo. Visto dalla prospettiva di una data somma di capitale, la differenza fra le attività che producono lavoro e quelle che si limitano solamente a far circolare il capitale, è irrilevante. Esiste un'unica legge di gravità per tutti i proprietari di capitale: il saggio del profitto. La finanza è solo uno dei tanti modi per poter catturare una porzione del plusvalore che è già stato prodotto; i giganti del commercio al dettaglio, come ad esempio Amazon, Walmart e Alibaba, traggono la maggior parte delle loro entrate da delle operazioni che non aggiungono alcun valore alle merci che essi offrono online, ma che eppure sono necessarie per chiudere il circuito del capitale, e fare in modo che il denaro possa ritornare alla sua fonte (in questo caso, ad una schiera di produttori, di capitalisti monetari, ecc.) sotto forma di ancora più denaro.

In "Bullshit Jobs", Graeber non dimostra alcun interesse circa il motivo per cui il settore finanziario, intorno al 1975, abbia assunto una posizione di primaria importanza per quanto riguarda il funzionamento dell'economia globale. Per lui, l'ascesa del settore finanziario ha importanza solo in quanto spiegazione del perché i lavori-stronzata siano così tanto numerosi. Quasi tutta la crescita di posti di lavoro improduttivi, a partire dagli anni '70, afferma Graeber, è inspiegabilmente avvenuta nel settore finanziario, il quale si è allargato, per includere le industrie correlate, come il settore delle assicurazioni e quello immobiliare (messi insieme sotto l'acronimo di FIRE), per poi espandersi dell'altro includendo qualcosa che lui chiama "lavoro di informazione". Com'è possibile, si chiede, che in un'economia nella quale i vincitori sopravvivono e prosperano grazie all'allocazione più efficiente possibile delle risorse, ci possa essere un così enorme spreco, a prevalere, per quel che riguarda l'utilizzo della forza lavoro umana? Proprio per il fatto che il settore finanziario è una frode, proprio perché è un predatore sempre alla ricerca di rendita; in quanto assorbe e utilizza il lavoro che aggiunge valore; poiché, nel caso di una delle principali banche statunitensi, «circa i due terzi dei suoi profitti derivavano da "tasse e ammende"», anziché per mezzo dell'efficienza nell'utilizzo del lavoro e del capitale, e da innovazioni che possano incentivare la produttività del lavoro [*7]. I profitti così ottenuti, assomigliano, più che a profitti, a tasse e rendite, come quelle che vengono estorte dai proprietari terrieri, o dai governi sovrani. In questo modo, i dirigenti che gestiscono queste imprese vivono come se fossero dei notabili rurali dell'ancien régime. L'argomentazione di Graeber è che quest'incrostazione sociale prospera su dei flussi di reddito fisso, e sperpera questi guadagni illeciti in ogni tipo di lusso - soprattutto, per degli assistenti salariati, e per quelli che i primi economisti politici chiamavano "umili servitori": tirapiedi, portieri, assistenti personali, e subalterni di ogni sorta. La ragion d'essere del settore finanziario non coincide con i tassi di rendimento del capitale investito, bensì con la produzione di ciò che Graeber, in "Bullshit Jobs", chiama categoricamente "gerarchia" - una «infatuazione per la gerarchia fine a sé stessa» - nella quale, potere significa accumulazione di subordinati, di lecchini, e di sicofanti.

Tuttavia, l'affermazione di Graeber non dice che tutto questo ethos di gerarchia e comando, piuttosto che ricerca del profitto, sia limitato al settore finanziario in crescita (quanto meno in termini di PIL). Ciò sarebbe meno provocatorio, meno propenso a creare una sensazione internazionale secondaria. La sua tesi è che, con la fusione dell'industria e la finanza, il settore privato nel suo complesso ha assunto questo carattere arcaico. Ciò ha comportato la burocratizzazione del settore privato, dal momento che le enormi imprese apparentemente interessate alle quote di mercato ed ai tassi di profitto, in realtà funzionano come dei giganteschi generatori di complesse gerarchie, nelle quali milioni di amministratori di medio livello - "passacarte salariati", secondo Graeber - vengono tenuti a libro paga, non perché svolgono una funzione necessaria, ma in quanto consentono la proliferazione di gerarchie, di piramidi di potere, e di catene di comando in cui ciascuno è il superiore di qualcuno, ed allo stesso tempo ognuno è anche il fattorino di qualcuno. Prendendo il settore finanziario come un paradigma per l'economia nel suo insieme, Graeber suggerisce che, «Una possibile ragione per [la] proliferazione [delle gerarchie] potrebbe essere che il sistema esistente non è capitalismo». Ciò che noi pensavamo fosse un sistema incentrato sulla produzione di profitto per mezzo dello sfruttamento del lavoro è in realtà un sistema di «estrazione di rendita», è un ordine fondato sul prestigio e sull'abiezione, animato da tornei in cui si fa a gara di dominio ed umiliazione, che Graeber chiama «feudalesimo manageriale». L'immagine dell'«attuale regime di lavoro» dipinta da Graeber è quella secondo cui ci sono «milioni di esseri umani che passano anni della loro vita a fingere di scrivere in fogli elettronici, o a preparare mappe mentali per le riunioni di pubbliche relazioni». Questo è senza dubbio vero. Ma dal momento che nel 2017, secondo le stime della Banca Mondiale, la forza lavoro globale ammontava a 3,5 miliardi di persone, possiamo supporre che ci siano molti altri milioni di esseri umani che stanno facendo esattamente qualcos'altro [*8]. In realtà, la strana affermazione che sta al centro del nuovo libro di Graeber è che l'esplosiva crescita del settore dei servizi - oggi, negli Stati Uniti, 4 lavori su 5 sono posti di lavoro nei "servizi" - avvenuta nell'ultimo mezzo secolo, è interamente dovuta al massiccio apporto di occupazioni "inutili" nel settore FIRE [Finance, Insurance, e Real Estate], dove i leccapiedi assunti, per trascorrere la loro giornata, armeggiano con Excel e cestinano strategie pubblicitarie. Dopo aver fatto distinzione fra chi produce, sposta, e fa manutenzione alle cose ed il resto di noi, Graeber traccia una linea che passa in mezzo allo stesso settore dei servizi: «La proporzione della forza lavoro composta dagli attuali camerieri, barbieri, commessi e simili», allucina Graeber, è «in realtà molto piccola». La porzione di occupazione totale di tutti quei posti di lavoro nei servizi, diversi da quelli del settore FIRE, ci conferma Graeber, «è rimasta significativamente stabile nel tempo, mantenendosi per più di un secolo a circa il 20%. La vasta maggioranza di tutti quegli altri che facevano parte del settore dei servizi erano in realtà amministratori, consulenti, impiegati e contabili, professioni dell'Information Tecnology, e simili... Sembra ragionevole concludere... che la maggior parte dei nuovi lavori aggiunti all'economia, nei servizi, [a far tempo dal 1992] in realtà erano dello stesso tipo» [*9].

Infatti, a partire dagli anni '70, le economie avanzate dell'«Occidente», in generale, hanno visto una crescita vertiginosa  dei posti di lavoro a bassa retribuzione, dei posti di lavoro non qualificati, non da ultimo nella vendita al dettaglio e nei ristoranti, ma soprattutto nella sanità e nell'istruzione. Un recente rapporto del Bureau of Labor Statistics sulle professioni che sono più a rapida crescita negli Stati Uniti corregge in maniera rivelatrice il quadro di Graeber relativo ai «passacarte salariati che non fanno niente»: assistenti alla cura personale, assistenti sanitari domestici, «combinano preparazione del cibo e servizio ai lavoratori, ivi compresi fast food», venditori al dettaglio, assistenti infermieri, rappresentanti del servizio clienti, cuochi per ristoranti, assistenti sanitari e «bidelli e addetti alle pulizie, tranne camerieri e domestici». Undici delle quindici occupazioni non richiedono alcuna laurea, e per lo più nessuna istruzione formale. La paga media è per lo più di 25.000$ l'anno, o meno [*10]. È questo l'«attuale regime lavorativo», per chi ha occhi per poterlo vedere. È un mondo in cui una parte considerevole dei posti di lavoro, nei paesi ritenuti ricchi, assume la forma di lavoro malpagato che si rivolge al malato ed al giovane, cucinando e servendo cibo a buon mercato ad altre persone povere, oppure pulendo uffici, magazzini, e stanze di albergo, dopo che i passacarte salariati hanno finito il turno.

La visione del mondo proposta da "Bullshit Jobs" ricorda soprattutto le predizioni che venivano sviluppate dalla sociologia accademica negli anni '50 e '60, che predicavano il prossimo avvento di un mondo di impiegati borghesi della classe media, nel quale uno strato sempre più ampio di forza lavoro salariata sarebbe stata incaricato di svolgere compiti amministrativi: un mondo di "passacarte salariati". Laddove quelle teorie - come i testi concorrenti del capitalismo di Stato che venivano sviluppati nei decenni appena precedenti - immaginavano un mondo in cui le dinamiche di mercato e i segnali dei prezzi avrebbero avuto sempre meno un ruolo nelle decisioni economiche, Graeber dipinge un mondo in cui dei burocrati che sono alla ricerca di una rendita, nel settore privato ed in quello pubblico, utilizzano lavoro e capitale, non alla ricerca di più alti tassi di rendimento degli investimenti di capitale, ma per ottenere dominio personale, per mezzo della "gerarchia" e del potere. Per poter fare un'affermazione del genere, che ci si potrebbe aspettare da un anarchico che lavora nel settore pubblico accademico, deve chiudere un occhio sul mondo circostante; che invece egli coglie attraverso Twitter, ed i follower, e grazie alla testimonianza del "banchiere ribelle" e degli "avvocati aziendali" - gli interlocutori che egli cita. Anziché mirare alle predazioni del mercato del lavoro, che costringe i lavoratori a competere l'uno contro l'altro per un numero sempre più piccolo di posti di lavoro malpagati, Graeber offre ai suoi lettori un autoritratto di gruppo, una office comedy che mette in scena le piccole diatribe che si svolgono nei cubicoli, le catene di e-mail, e i pasti precotti. A fronte di un mondo capitalista che cammina barcollando mentre si dirige dalla crisi verso la catastrofe, dove assistiamo ad una drammatica polarizzazione della forza lavoro, all'intiepidimento delle figure produttive, ad un settore tecnologico stagnate che opera in condizioni di monopolio, e ad una decennale riduzione dei tassi di profitto che attraversa tutti i settori economici; a fronte di tutto questo, "Bullshit Jobs" mette in scena un vecchio modello: la burocratizzazione del mondo.

Il fatto che nelle società capitaliste la maggior parte dei lavoratori trovi il loro lavoro inutile e dannoso , ha molto più a che fare con le relazioni sociali che lo avvolgono che al contenuto del lavoro stesso. Il lavoro salariato sia obbligatorio per tutti, tranne che per pochi, ed essendo svolto sotto condizioni capitalistiche - razionalizzato, disciplinato - trasforma anche il lavoro attraente in un'esperienza di servilismo. Abbiamo tutte le ragioni per credere che, in un mondo nel quale la produzione non viene più organizzata secondo le linee capitalistiche, una parte consistente di tutti questi lavoretti-stronzate, in quanto appendice umana, verrà resa inutile, e la loro presenza residua sarà un mistero, un problema per le scienze naturali. Ma in tal caso, avremo ormai abolito del tutto il lavoro.


Pubblicato l'11 luglio 2018 su The Brooklyn Rail -

NOTE:
[*1] - David Graeber, Bullshit Jobs (New York: Simon & Schuster, 2018), p. xv.
[*2] - Adam Smith, The Wealth of Nations (Chicago: University of Chicago Press, 1976), pp. 351-52.
[*3] - Graeber menziona di passaggio questa versione e questa distinzione, per respingerla nel suo solito modo "popolare".
[*4] - Si consideri nuovamente la segretaria che aiuta il paziente a presentare i documenti necessari a convincere una compagnia di assicurazioni a fornire copertura per una particolare operazione o terapia; immagina di dover provare a farlo da solo, e decidi rispetto ad un simile scenario quale lavoro (non pagato o pagato) sia più "utile", il tuo o quello della segretaria. In una società razionale, in cui le compagnie assicuratrici non esistevano e nella quale le cure sanitarie venivano fornite gratuitamente, per gestire la massiccia distribuzione dei servizi medici e dei prodotti necessari alla salute, in una società complessa, sarebbe stato necessario un esercito di impiegati d'ufficio - anche se più piccolo di quello che viene mobilitato oggi.
[*5] - Giovanni Arrighi, The Long Twentieth Century: Money, Power, and the Origins of Our Times (London: Verso, 1994). La più recente, e convincente, revisione critica circa il dibattito. avvenuto all'inizio del XX secolo, sulla finanza globale e sull'imperialismo si trova in: Tony Norfield’s The City: London and the Global Power of Finance (London: Verso, 2016).
[*6] - Per essere chiari, la crisi strutturale degli anni '70 viene quasi universalmente compresa, fra i marxisti, come una crisi di redditività. Mentre invece ci sono alcuni autori che vedono in essa l'inizio di un recupero dei tassi di profitto, avvenuto negli anni '80 e '90, e questo è stato l'argomento di un dibattito vivace ed importante. Per un esame dei testi recenti su tale soggetto, con particolare attenzione alla crisi del 2008, si veda: Deepankaur Basu e Ramaa Vasudevan, “Technology, Distribution and the Rate of Profit in the U.S. Economy: Understanding the Current Crisis”. Cambridge Journal of Economics 37:1 (January 2013): 57–89.
[*7] - Per questi dati, Graeber non fornisce alcuna fonte; in genere le sue affermazioni più stravaganti non recano né note a piè di pagina né riferimenti. Una fonte ampiamente citata per questo genere di dati, offre una statistica più plausibile: «Nei primi 3 trimestri del 2016, le entrate dovute a commissioni per lo scoperto rappresentano una media dell'8,1% rispetto alle entrate nette dichiarate delle banche, invariato rispetto allo stesso periodo del 2015». Si veda: https://uspirg.org/reports/usp/big-banks-big-overdraft-fees
[*8] - https://data.worldbank.org/indicator/SL.TLF.TOTL.IN
[*9] - Questi dati vengono attribuiti ad una fonte che non viene citata (“Robert Taylor, un bibliotecario scientifico”) da uno studio fatto nel 1992 - lo studio non viene elencato nella bibliografia, o nelle note a piè di pagina. In realtà, dal 1949, l'occupazione nel settore finanziario, è rimasta intorno al 5%.
[*10] - Le affermazioni di Graeber possono essere facilmente confutate, a partire da una rapida occhiata ai dati forniti dal US Bureau of Labor Statistics (o al suo equivalente inglese). In questi dati, troviamo che l'occupazione raggruppata come "attività finanziaria" ammonta a poco più del 5% degli occupati negli USA, e che dal 2006, questo numero è diminuito, nonostante un rapido aumento nel settore della quota di PIL, dopo la crisi del 2008. Al contrario, i posti di lavoro nel "settore alberghiero e del tempo libero " e nel "commercio al dettaglio" insieme formano il 20% della forza lavoro degli Stati Uniti. Il settore della sanità è di gran lunga il settore più ampio, e fornisce il 13,2% dei posti di lavoro degli Stati Uniti; è anche il settore in più rapida crescita, con un aumento previsto, per il 2026, del 1,9%: https://www.bls.gov/news.release/ecopro.t06.htm.

fonte: The Brooklyn Rail - Critical Perspectives on Arts, Politics, and Culture -

Comments

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Mario M
Saturday, 25 August 2018 13:49
Il lavoro diventa stronzata quando perde il fine per cui era stato concepito, o ,peggio, va contro quel fine. Ad esempio molta della burocrazia e dei servizi intorno alla sicurezza rende il mondo e la società meno sicure. Due conoscenti hanno dovuto produrre chili di scartoffie per minimi lavori di ristrutturazione. Ivan Illich, con Nemesi Medica e Descolarizzare la Società, può tornare utile in questa discussione
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