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“Lavoro mentale e classe operaia”

Le categorie di Marx applicate al capitalismo del XXI secolo

di Paolo Plona

Brookings robotsIl testo che segue, elaborato a partire da “Lavoro mentale e classe operaia” di Guglielmo Carchedi, costituisce il tentativo di sviluppare un punto di vista politico sull’argomento. Per questo abbiamo organizzato la presentazione di tale saggio dentro lo spazio occupato “Ci Siamo”, in via Esterle a Milano, come parte delle attività che vede coinvolta la Rete Solidale insieme ad un gruppo di immigrati arabi e africani, in un percorso di lotta sulle tematiche dell’immigrazione e del lavoro.

Portare questo dibattito all’interno di tale realtà non è stato semplice. Questo ci ha permesso un originale esperimento: provare a parlare, all’interno della scuola popolare di italiano che si tiene in quella sede, di alcune categorie base della teoria marxista, rendendole semplici e comprensibili, adatte ad essere oggetto di un dibattito tra italiani e immigrati. Il tutto tradotto simultaneamente in tre lingue, inglese francese ed arabo. I risultati di questo momento “propedeutico” hanno di gran lunga superato ogni aspettativa. Siamo partiti dall’esempio concreto del bracciante agricolo raccoglitore di frutta, per definire parole come “sfruttamento”, “plusvalore”, “capitalista”, “proletariato”. Da questa base abbiamo parlato degli effetti della meccanizzazione, della competizione al ribasso tra lavoratori, delle delocalizzazioni, dei licenziamenti, dello sciopero e delle lotte.

Molte sono state le domande e i contributi venuti proprio dagli abitanti stessi. Un punto fondamentale è stato ovviamente quello di definire lo sfruttamento come categoria comune a tutto il lavoro salariato, che prescinde da divisioni di etnia, genere, territorio, provenienza geografica, inquadramento contrattuale e attività specifica svolta.

Il testo di Carchedi offre in tal senso svariati spunti. Proviamo a tracciarne alcuni nell’articolo che segue.

* * * *

1. Introduzione

La prima caratteristica della merce, analizzata nella principale opera di Marx come “forma elementare” e unità costitutiva del modo di produzione capitalistico, è di essere

Oggetto esterno, che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di qualsiasi tipo. La natura di questi bisogni, il fatto che essi provengano dallo stomaco o dalla fantasia, non cambia nulla1.

Con questo, si sostiene che la produzione è al contempo materiale e immateriale; e che i bisogni umani più disparati vengono soddisfatti, nel capitalismo, soltanto attraverso lo scambio di merci di ogni tipo.

Ma la merce è solo la forma esteriore di qualcosa che attiene ai rapporti sociali stessi:

L’arcano della forma di merce consiste nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi [ … ] Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi.2

L’elemento determinante non è quindi la merce, ma il rapporto sociale che da essa viene celato. La caratteristica comune a tutte le merci, che permette loro di assumere questa funzione, è di essere depositarie di valore. E la scoperta fondamentale (già propria degli economisti classici come David Ricardo, ma approfondita e completata poi da Marx) è che il valore di tutte le merci è determinato dal tempo di lavoro sociale necessario alla loro produzione. Per questo esse sono comparabili e quindi scambiabili, per questo è possibile mettere in relazione attività dal contenuto così diverso, senza altro elemento in comune che non il tempo di lavoro astratto.

Di questo occorre tenere conto, in qualsiasi indagine abbia per oggetto l’evoluzione degli assetti produttivi con i loro effetti sullo sfruttamento. Qualsiasi merce va sempre considerata a partire dal rapporto sociale che essa sottende: nello specifico, la relazione tra capitale e lavoro.

La presentazione del saggio “Sulle orme di Marx, lavoro mentale e classe operaia” di Guglielmo Carchedi ci permette di approfondire ed analizzare proprio queste trasformazioni, determinate nuove tecnologie e moderna comunicazione. Vedremo come lo sfruttamento tragga oggi nuova linfa da tali modificazioni, e come i nuovi paradigmi dell’’accumulazione flessibile e dell’industria 4.0 altro non siano che versioni aggiornate dell’atavica necessità di massimizzare il profitto.

Partiremo collocando il cosiddetto “lavoro mentale” tra le attività lavorative a pieno titolo materiali, e approfondiremo la diffusione di Internet e dei mezzi informatici come strumenti di lavoro ed elaborazione di conoscenza, determinati e veicolati nella produzione capitalistica.

Lo sviluppo stesso di nuove professionalità, accompagnate dai relativi metodi di comando e gestione della forza lavoro, impongono questa riflessione. Organizzarci come lavoratori implica necessariamente la piena comprensione della nostra condizione di classe sfruttata, a partire dal modo con cui avviene la valorizzazione dei vari comparti della forza lavoro stessa.

Negli ultimi decenni abbiamo assistito, nelle economie a capitalismo avanzato, alla contrazione del lavoro operaio in senso stretto, e al notevole aumento di settori legati alla produzione “immateriale” e ai servizi. Ben lungi dal determinare un’emancipazione delle classi subalterne, il mutamento del tessuto produttivo si è tradotto in maggiore sfruttamento per tutti i lavoratori; la crisi ha esacerbato tale tendenza, e alla deregolamentazione del mercato del lavoro sono seguiti a ruota intensificazione dei ritmi, abbassamento dei salari, aumento della giornata lavorativa e della vita lavorativa, taglio ai diritti e alla spesa sociale.

Una riflessione sugli attacchi in atto non può quindi prescindere dalla comprensione del livello raggiunto dalle forze produttive, e dalle modificazioni che il loro ulteriore sviluppo introduce; soprattutto nel momento in cui l’utilizzo di sistemi automatizzati e informatizzati, oltre a togliere contenuto all’attività lavorativa stessa, da un lato trasforma l’operaio in una mera appendice del macchinario, dall’altro diviene veicolo di disciplinamento e irreggimentazione della forza lavoro.

La scienza e la sua applicazione non sono mai forze “neutre”. Si sviluppano e agiscono all’interno del rapporto e dello scontro tra le classi. Non solo quindi determinano la base tecnica data entro la quale si decide “cosa si produce, come si produce e come si scambia”, ma esse stesse sono una forza viva dentro tale conflitto.

Comprenderne il movimento diventa quindi un aspetto fondamentale nelle lotte di tutti i lavoratori.

 

2. L’estrazione del valore

Le tematiche affrontate rimandano, in maniera diretta, ad una ben precisa analisi dei rapporti di produzione, delle classi sociali e della natura dei loro contrasti. Attraverso una “creativa” applicazione del marxismo, si riducono le più svariate forme assunte oggi dal lavoro salariato al tratto fondamentale che tutte accomuna. Quello di essere cioè fonte del valore, di tutto il valore, base del profitto capitalistico nel suo complesso.

Balza subito all’occhio la capacità dell’autore di definire con precisione, per tipologie di lavoro normalmente considerate agli antipodi, il tratto comune dello sfruttamento. E il “dato politico” che se ne desume non è di poco conto: la parola d’ordine della ricomposizione passa anche attraverso la collocazione e il riconoscimento delle più disparate modalità di valorizzazione della forza lavoro, che nel caso di determinati settori della classe lavoratrice assumono caratteri poco comprensibili, quasi indecifrabili. E’ il caso di coloro che producono merci “immateriali”, sovente con rapporti di lavoro che, rispetto alla classica subordinazione con relative tutele contrattuali, nulla hanno in comune.

Cionondimeno, questi settori del lavoro salariato sono soggetti ad una pressione continua, con ritmi di lavoro massacranti e stabilità inesistente; talvolta, la più totale flessibilità di impieghi saltuari fa il paio con gli stipendi da fame. Per i cosiddetti “lavoratori della conoscenza” valgono le stesse dinamiche della fabbrica; ma a differenza del lavoro operaio, la mistificazione alla quale soggiacciono li rende meno disponibili all’elaborazione di una loro coscienza collettiva, che rigetti il rapporto individualizzato imposto dall’azienda di turno. Vecchi metodi di sfruttamento per nuove professionalità. Non c’è da stupirsi; il padronato ha sempre fatto leva su ogni possibile elemento sovrastrutturale per dividere la classe dei lavoratori. Dalla contrapposizione tra chi lavora e chi è disoccupato, passando per divisioni di etnia, provenienza geografica, genere, territorio, inquadramento contrattuale, livello di salario. A maggior ragione sfrutta anche la diversa natura dell’attività lavorativa e del suo scopo, e ne fa un feticcio. Per questo percepiamo come tanto diverso un impiegato di banca da un bracciante agricolo. E sotto molteplici aspetti lo sono, tranne che per l’unico carattere che realmente conta nel modo di produzione capitalistico: il loro utilizzo per un tempo specifico, sufficiente a produrre una quantità di merci ben superiori a quelle necessarie per riprodursi come forza lavoro. E’ la produzione del plusvalore, carattere comune a tutto il lavoro salariato.

I costi giornalieri di mantenimento della forza lavoro e il dispendio giornaliero di questa sono due grandezze del tutto distinte. La prima determina il suo valore di scambio, l’altra costituisce il suo valore d’uso. Che sia necessaria una mezza giornata lavorativa per tenerlo in vita per ventiquattro ore, non impedisce affatto all’operaio di lavorare pe una giornata intera. Dunque il valore della forza lavoro e la sua valorizzazione nel processo lavorativo sono due grandezze differenti. A questa differenza di valore mirava il capitalista quando comperava forza lavoro. Decisivo era il valore d’uso specifico di questa merce, che è quello di essere fonte di valore, e di più valore di quanto ne abbia essa stessa.3

Se la forza lavoro venisse utilizzata solo per aggiungere ai fattori produttivi tanto valore quanto essa costa, il suo impiego si limiterebbe ad una minima frazione della giornata lavorativa. La sua caratteristica è proprio quella di costare molto meno in quanto necessita di mezzi di sussistenza di un valore molto inferiore rispetto a quanto essa stessa può produrre, sempre in termini di valore, in una giornata lavorativa completa.

Il valore di scambio della forza lavoro, somministrato all’operaio per la perpetuazione della sua esistenza, è una grandezza molto più piccola della grandezza del valore che egli crea col suo lavoro giornaliero. Ciò sta alla base dello scarto esistente tra D e D’, nella relazione D-M-D’.

Lo sfruttamento di tutto il lavoro salariato costituisce dunque la base attorno alla quale si articola questa formazione economico sociale.

Ne deriva che anche per i lavoratori della conoscenza non è tanto l’oggetto della loro attività a doversi considerare, quanto il tipo di rapporto entro cui avviene l’espletamento di tale attività. Detto in altri termini, non conta il processo lavorativo, conta il processo di valorizzazione.

Il punto centrale della teoria valore/lavoro fissa un concetto chiaro: il profitto si basa sulla differenza tra il valore della merce forza lavoro e il valore che essa produce in una giornata lavorativa. Gli elementi sovrastrutturali vanno considerati in un secondo momento: non sono un criterio di classificazione utile, per ora.

Rilevare questo aspetto porta a definire con precisione le caratteristiche del lavoro produttivo e di quello improduttivo.

La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore. L’operaio non produce per sé, ma per il capitale. Quindi non basta più che l’operaio produca in generale, deve produrre plusvalore. E’ produttivo solo quell’operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all’autovalorizzazione del capitale. Se ci è permesso scegliere un esempio fuori dalla sfera della produzione materiale, un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare la testa dei bambini, ma se si logora di lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola. Che questi abbia investito il suo denaro in una fabbrica d’istruzione invece che in una fabbrica di salsicce, non cambia nulla nella relazione. Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione tra attività ed effetto utile, fra operaio e prodotto del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificatamente sociale, di origine storica, che imprime all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale. Dunque, essere operaio produttivo non è una fortuna, ma una disgrazia.4

Questo passaggio definisce quindi con precisione il lavoro produttivo: esso costituisce ogni attività svolgentesi come lavoro salariato. Da notare come Marx stesso non prenda un esempio tratto dalla produzione materiale di merci, ma da quello che oggi potremmo definire come lavoro mentale, cognitivo. La differenza tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo è che mentre il primo viene scambiato con capitale, il secondo viene scambiato con reddito. Questo è il parametro per distinguere ciò che è produttivo da ciò che non lo è. Un operaio manutentore, ad esempio, è produttivo se impiegato, insieme ad altri operai, alle dipendenze di un capitale che viene per ciò a valorizzarsi; ma diventa improduttivo (di plusvalore) se vende in autonomia la sua forza lavoro. Ciò che viene posto al centro dell’analisi non sono le apparenze immediate del risultato tangibile e quindi il carattere materiale o immateriale della merce prodotta. E’ il rapporto sottostante che conta, che è prima di tutto un rapporto tra classi. Così il libero professionista artigiano, produttore di merci materiali vendute sul mercato non produce plusvalore: il suo lavoro si scambia con reddito, costituito da salari o da profitti; mentre il grafico pubblicitario precario che lavora per un’agenzia di marketing scambia il suo lavoro con capitale. Egli è in tal senso produttivo, produce plusvalore. Come nuova figura del nuovo sfruttamento del nuovo capitalismo cognitivo, la sua esistenza altro non fa che comprovare la vecchia e logora legge del valore/lavoro; l’unica, peraltro, che oltre a permetterci di comprendere tutte le trasformazioni in atto in ambito produttivo fornisce anche una compiuta teoria della crisi.

 

3. Teoria della conoscenza e teoria della crisi

La produzione di conoscenza viene quindi ricompresa nella più generale produzione di merci. Ciò essenzialmente per due aspetti complementari. Primo, la conoscenza ha un valore di scambio: viene venduta e comprata sul mercato come qualsiasi altra merce. Secondo, la conoscenza si traduce in tecnica applicata alla produzione: essa trapassa nel mezzo di produzione, e costituisce oggi la base dei processi di automazione e informatizzazione dell’industria. Ciò implica l’aumento della composizione organica del capitale, cioè del rapporto tra capitale costante (macchine e materie prime) e capitale variabile (forza lavoro). Tale rapporto sta alla base della spiegazione marxista della crisi. Chiamiamo costante quella parte del capitale che entra nel processo produttivo e non muta il suo valore al termine di esso. Mentre per le materie prime la cosa è semplice, in quanto costituiscono il materiale grezzo del prodotto finito e pertanto ritroveremo il loro esatto valore come frazione di quello della merce finale, per i mezzi di produzione la questione è leggermente più complicata. Il loro valore trapassa nel prodotto mano a mano che l’utilizzo ne determina l’usura. Se una macchina dura 10 anni, in ogni unità di prodotto verrà trasferita una parte aliquota del suo valore iniziale. Il suo valore complessivo lo ritroveremo spalmato dentro il valore dei prodotti da essa generati nei suoi 10 anni di vita; al termine del suo ciclo vitale, il valore di tale macchina è diventato pari a zero.

Il capitale variabile è quella parte del capitale iniziale che, al termine del processo di produzione si ritrova accresciuto. Esso viene convertito in forza lavoro, che come abbiamo visto, è l’unica merce il cui utilizzo determina una creazione di valore maggiore di quanto essa costi, e proprio per questo “variabile”. Non vi è altra origine al profitto, solo il lavoro “vivo” crea valore.

Introduciamo ora la concorrenza e vediamo cosa accade. Con l’obiettivo di conquistare più mercati, ogni capitalista cercherà di aumentare la produttività del lavoro, per poter vendere la singola unità di prodotto a un prezzo inferiore e sbaragliare i competitori. Ciò è possibile in vari modi: dal pagare meno l’operaio al farlo lavorare più a lungo o più intensamente. Ma il metodo maggiormente efficace è dotare l’operaio di mezzi di produzione più efficienti: la sega circolare in luogo della vecchia sega a mano, il martello pneumatico al posto del piccone, il pc al posto delle scartoffie. Risultato, la stessa giornata lavorativa ora restituisce al suo termine una massa incomparabilmente superiore di prodotti, che incorporano, ognuno, un valore nettamente inferiore (poiché risultato di tempi di lavoro inferiori) e che possono essere venduti sul mercato a prezzi più bassi. Ma il mercato è dato (non è infinito, evidentemente); conseguentemente, all’aumento di produttività per addetto si dovrà espellere dalla produzione coloro che, dato il nuovo assetto maggiormente tecnologico e dunque più produttivo, non saranno più necessari.

Da un lato quindi, l’innovazione tecnologica permette ad ogni singola azienda di avvantaggiarsi nel breve periodo, a discapito delle aziende concorrenti nel medesimo settore; ciò sta alla base del mantra dell’economia borghese per il quale più investimenti significa più occupazione. Dall’altro lato, sul medio/lungo periodo e in termini aggregati, questo produce un abbassamento della redditività dei capitali investiti in quel settore (serve molto più capitale per mantenere invariato il livello dei profitti) e alla nuova base tecnica più avanzata consegue l’espulsione di parte della forza lavoro.

La “legge in quanto tale” risulta così sintetizzabile:

s = p/c+v

Dove s è il saggio di profitto, cioè il rapporto tra il plusvalore e tutto il capitale anticipato; p indica il plusvalore; c il capitale costante, quindi macchine e materie prime; v il capitale variabile, quindi la forza lavoro.

Innovazione, ricerca e investimento si traducono in un aumento spropositato della parte costante (c) del capitale investito.

La cosiddetta disoccupazione tecnologica è il risultato più visibile di questo processo. L’applicazione del patrimonio tecnico scientifico alla produzione implica quindi, in termini generali, l’espulsione di parte dei lavoratori dalle unità produttive. La macchina incorpora funzioni precedentemente svolte dall’operaio, e più grande la scala della produzione, più è visibile tale processo. Settori ad altissima concentrazione di capitali come quello automobilistico o siderurgico ne sono all’avanguardia. Interessante notare che è proprio la ricerca scientifica e tecnologica, con l’aumento degli investimenti, a determinare questa tendenza. Perché dunque nella realtà mistificata dell’ideologia dominante, più investimenti significa crescita dell’occupazione?

Questa opinione diffusa deriva da un fatto vero ma assolutamente parziale. Nel breve periodo, e per singole aziende, innovazione e investimento possono anche determinare un aumento degli addetti. Il prezzo della merce finale si riduce, le vendite schizzano alle stelle e la percezione immediata è che l’investimento abbia influito positivamente sull’occupazione, che può anche crescere se l’azienda conquista più mercati. Ma questo è vero soltanto in apparenza. Ciò che succede è che l’investimento in capitale costante e il relativo aumento di produttività avviene a discapito di altri capitali che soccombono, determinando quindi l’espulsione dal comparto delle loro relative forze lavoro; inesorabilmente, e nel lungo periodo, la tecnica produttiva più avanzata si afferma poi in tutto il settore, tendenzialmente su tutto il mercato mondiale. Il risultato sarà sempre più macchine e meno operai. Restando all’interno dei rapporti di produzione capitalistici, questa contraddizione non è risolvibile.

L’aumento del capitale costante ha anche un’altra pesante ricaduta: la scala della produzione deve obbligatoriamente aumentare a dismisura. Il rapporto tra il capitale investito e profitti conseguiti si assottiglia dunque sempre più: nella nostra formula esposta in precedenza, l’aumento del denominatore riduce gioco forza il valore del rapporto tra profitti e costi sostenuti. E’ ciò che Marx definisce come tendenziale caduta del saggio di profitto, vero motore della crisi intesa come impossibilità alla valorizzazione perpetua dei capitali. Mentre questi possono crescere senza limiti, il mercato mondiale è dato. E paradossalmente, più aumenta la scala della produzione e più è difficile trarre profitto da queste enormi concentrazioni di capitale. La concorrenza determinata ormai dai grandi colossi continentali dell’industria e della finanza determina quindi quali capitali continueranno a competere e quali invece dovranno perire.

Ciò ha delle ricadute politiche ben precise per i lavoratori della conoscenza. Non ha senso alcuno considerare questi ultimi come la prova di supposti caratteri strutturalmente “nuovi” del capitalismo. Essi risultano perfettamente organici a questo modo di produzione, oggi, come un secolo fa, finalizzato alla produzione di merci da mettere in competizione le une contro le altre sul mercato mondiale. Conoscenza e scienza sono da considerarsi come forza produttive. E’ la divisione internazionale del lavoro che ripartisce i compiti in maniera differente ai diversi comparti del proletariato. Ma il capitalismo va considerato nei suoi nessi complessivi, e non isolando specifiche aree del globo.

 

4. Lavoratori della conoscenza

La riflessione attorno a queste tematiche ci porta all’elaborazione di un punto di vista politico sull’argomento. La ristrutturazione del mercato del lavoro passa anche attraverso il nuovo contenuto di tecnologia dentro l’attività lavorativa, direttamente relazionato allo sviluppo della conoscenza e della ricerca. Non è soltanto il contenuto del processo produttivo a modificarsi in funzione dell’evoluzione della tecnica, ma anche la gestione e il disciplinamento della forza lavoro stessa evolvono in relazione a tale sviluppo. In generale, più l’evoluzione tecnologica si spinge in avanti più il controllo sui lavoratori diventa pervasivo. Proprio nell’ultima riforma del lavoro (Jobs Act) varata in Italia, uno dei punti cardine riguarda la modificazione della normativa sul controllo a distanza, che permette e liberalizza i controlli sui lavoratori, direttamente effettuabili attraverso gli strumenti di lavoro stessi. Spacciata come aggiornamento della legislazione vigente, in funzione dei nuovi e moderni mezzi di lavoro (computer e smartphone), la riforma dell’art. 4 dello statuto dei lavoratori contenuta nel Jobs Act intende superare la “desueta” impostazione legata ad un modello produttivo ormai sorpassato. Tale mistificazione di natura tecnica nasconde una precisa e concreta esigenza politica, quella dell’intensificazione dei ritmi. Come ben sanno i lavoratori delle grandi aziende, dagli operai delle catene di montaggio, ai lavoratori di call center, agli impiegati di qualsiasi settore, capi e capetti possono ora vedere, estrapolare, ed utilizzare contro il lavoratore, ogni parametro relativo alla sua specifica attività lavorativa.

Per il padronato è ora possibile l’utilizzo dei dati ricavati, ad esempio, dalle moderne catene di montaggio, con macchinari pesantemente informatizzati e connessi in rete tra loro. Non solo: è anche possibile l’installazione di software specifici di gestione della forza lavoro e delle relative attività. In molti contesti ciò è diventato anche oggetto di battaglia sindacale; sia per quanto concerne l’utilizzo dei dati direttamente estratti dagli strumenti di lavoro in quanto tali, sia per l’applicazione dei nuovi software per la gestione delle attività come, nello specifico denominati customer relationship management o work force management. Ciò dovrebbe, secondo il punto di vista delle aziende, generare quella che in gergo viene chiamata “efficienza”; il contenuto neutro di questo concetto sottende tuttavia l’attacco politico a tutta la forza lavoro, la cui modalità di gestione diviene di natura esclusivamente “tecnica”. La gestione del rapporto di lavoro e l’attività stessa del lavoratore diventano sempre più appannaggio di sistemi informatici e dei relativi algoritmi; i lavoratori prima deputati compiti gestionali vengono quindi in qualche modo “espropriati” delle loro specifiche funzioni, trasformandosi a loro volta, come in generale accade alla forza lavoro nel suo complesso, in mere appendici del macchinario. Ma la cosa più grave è che la relazione tra lavoratore e datore di lavoro smette di essere una questione politica per entrare nel campo delle questioni di natura tecnica.

Questo ci dà la misura di quanto l’aspetto tecnico-produttivo dello sviluppo di conoscenza venga compreso ed utilizzato: la ristrutturazione del mercato del lavoro contenuta del Jobs Act non poteva non tenerne conto.

Ancora una volta, tutto questo rientra in quella funzione specifica chiamata da Marx “comando sul lavoro”. I rapporti di forza tra le classi passano direttamente attraverso di esso.

Con la massa degli operai simultaneamente impiegati cresce la loro resistenza, e quindi necessariamente la pressione del capitale per superare tale resistenza. La direzione del capitalista non è soltanto una funzione particolare derivante dalla natura del processo lavorativo sociale e a tale processo pertinente; ma è insieme funzione di sfruttamento di un processo lavorativo sociale, ed è quindi un portato dell’inevitabile antagonismo fra lo sfruttatore e la materia prima vivente da lui sfruttata. Così pure, col crescere del volume dei mezzi di produzione che l’operaio salariato si trova davanti come proprietà altrui cresce la necessità del controllo affinché essi vengano adoprati convenientemente. Quindi, agli operai salariati la connessione fra i loro lavori si contrappone idealmente come piano, praticamente come autorità del capitalista, come potenza di una volontà estranea che assoggetta al proprio fine le loro azioni. Quanto alla forma, essa è dispotica. Questo dispotismo sviluppa poi le sue forme peculiari mano a mano che la cooperazione si sviluppa su scala maggiore. Prima, il capitalista viene esentato dal lavoro manuale appena il suo capitale ha raggiunto quella grandezza minima che sola permette l’inizio della produzione capitalistica; ora torna a cedere a sua volta a un genere particolare di operai salariati la funzione di sorveglianza diretta e continua dai singoli operai e dei singoli gruppi di operai. Allo stesso modo che un esercito ha bisogno di ufficiali e sottoufficiali militari, una massa di operai operanti insieme sotto il comando dello stesso capitale ha bisogno di ufficiali superiori (dirigenti, managers) e di sottoufficiali (sorveglianti, foreman, overlookers, comtremaitres) industriali, i quali durante il processo di lavoro comandano il nome del capitale. Il lavoro di sorveglianza si consolida diventando loro funzione esclusiva.5

La ristrutturazione del mercato del lavoro procede pertanto secondo direttrici che il padronato ha ben presente. Esso non si fa ingannare dalle teorie sul general intellect come veicolo di emancipazione universale, o da quelle sulla nascita delle nuove professionalità cognitive come espressione della relativa scomparsa della produzione materiale. La conoscenza, il suoi sviluppo, e il suo impiego in ambito produttivo, costituiscono un arma formidabile della cui forza il padronato è assolutamente cosciente.

Le potenze intellettuali della produzione allargano la loro scala da una parte perché scompaiono da molte altre parti. Quel che gli operai parziali perdono si concentra nel capitale, di contro a loro. Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero. Questo processo di scissione comincia nella cooperazione semplice, dove il capitalista rappresenta l’unità e la volontà del corpo lavorativo sociale di fronte ai singoli operai; si sviluppa nella manifattura, che mutila l’operaio facendone un operaio parziale; si completa nella grande industria, che separa la scienza facendone una potenza produttiva indipendente dal lavoro, e la costringe a entrare al servizio del capitale.6

Marx, 1867. Gli elementi per descrivere i mutamenti dell’industria 4.0 ci sono già tutti. La scienza è considerata per il principale dei suoi aspetti, come forza produttiva contrapposta agli operai.


Note

1 IL CAPITALE, capitolo 1 – LA MERCE, p.47 (Edizione Editori Riuniti 1973)

2 Ibidem, p. 85

3 Ibidem, capitolo 5 – PROCESSO LAVORATIVO E PROCESSO DI VALORIZZAZIONE, pp. 211-212

4 Ibidem, capitolo 14 – PLUSVALORE ASSOLUTO E PLUSVALORE RELATIVO, p.222

5 Ibidem, Capitolo 11 – COOPERAZIONE, pp 28-29

6 Ibidem, Capitolo 12 – DIVISIONE DEL LAVORO E MANIFATTURA, pp.61-62

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