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a.verare

Marx e la politica

di Franco Romanò

Marxismo e Politica a Dualidade de Poderes e Outros Ensaios Carlos Nelson Coutinho 118854Il recente film Il giovane Marx ha posto l’attenzione, fra l’altro, su un periodo cruciale della storia europea, che gli storici e anche i programmi scolastici definiscono come Restaurazione. Secondo Mario De Micheli, invece, i trent’anni successivi al Congresso di Vienna1 vanno visti come il tempo in cui si diffondono in tutta Europa gli ideali rivoluzionari che prepareranno il ’48, sia da un punto di vista politico, sia artistico e culturale. Dentro questa temperie, si colloca anche il lavoro del giovane Marx e quello di Engels sulla classe operaia inglese. Il culmine di questo periodo, durante il quale nasce anche la loro profonda amicizia, sarà, nel ’47, la stesura del Manifesto del partito comunista, che sarà pubblicato nel 1848 qualche mese prima dello scoppio dei movimenti rivoluzionari in tutta Europa; un evento che Marx ed Engels avevano previsto. Qual è e come cambia nel tempo il loro rapporto con la politica, tema di questo scritto?

Occorre prima di tutto considerare un problema preliminare e cioè che noi vediamo il rapporto con la politica da post bolscevichi e post socialisti. Uso l’espressione in senso ampio e non la riferisco solo a chi è stato comunista o socialista o che lo è ancora, perché i partiti socialisti e poi Lenin e i bolscevichi non hanno creato solo i loro organismi politici, ma hanno inventato il partito politico moderno novecentesco, un modello che è stato seguito più o meno da tutti, con qualche distinguo per quelli inglesi e una più ampia differenziazione per quelli statunitensi. Può sembrare a prima vista sorprendente tale affermazione, ma se storicizziamo alcuni passaggi, il quadro che ne esce apparirà forse meno sorprendente. Risaliamo allora al periodo successivo alla Comune di Parigi e poi, specialmente, al 1902, quando Lenin scrive Che fare.

In esso vengono formulati alcuni principi basilari che non sto a ricordare per intero; mi limito solo alla formula sintetica che ha attinenza con questo scritto: un partito di rivoluzionari di professione. L’enfasi di tutti, sia di chi accolse quella formula con entusiasmo, sia di chi ne ebbe paura o la rifiutò (anche fra i socialisti che avevano dato vita ai loro partiti nell’ultimo decennio del diciannovesimo secolo), perché politicamente schierato sul versante opposto, cadde sulla parola rivoluzionari, ma la seconda parte della formula leninista - di professione - è quella più importante e storicamente decisiva. Per la prima volta veniva formulato il concetto che l’attività politica è una professione e che il partito politico diventava perciò un organismo che cessava di essere qualcosa di empirico, che manteneva con i movimenti sociali un rapporto flessibile e adattivo, come fra vasi comunicanti, ma diventava un organismo

dotato di vita propria, tendenzialmente permanente, costituito da politici e funzionari, la cui vita, anche lavorativa, dipendeva, se non sempre esclusivamente, da quello. Tutti i partiti novecenteschi si sono ispirati in modo più o meno flessibile a tale modello, aldilà di alcuni distinguo privi d’importanza e di altri più significativi ma che si presentavano come modifiche, a volte rilevanti, ma sempre interne al modello.2

Mi rendo conto che una semplice nota non basta a risolvere tutte le problematiche che un discorso come questo può suscitare, ma tale premessa è necessaria per dire che il rapporto di Marx e di Engels con la politica, era così tanto strutturalmente diverso dal nostro, che se vogliamo ripercorrere il loro percorso, dobbiamo sgombrare completamente il campo dalle concezioni correnti e anche dal dibattito attuale sulla deriva dei partiti e della democrazia rappresentativa.3

Visto a partire da questa angolazione, il rapporto di Marx ed Engels con la politica, fatte salve le differenze caratteriali fra i due che andranno tuttavia considerate, si sviluppò nel tempo in tre fasi diverse. Durante la prima, quella che si svolge proprio nel periodo cruciale post Congresso di Vienna e che culmina con la pubblicazione del Manifesto, tale rapporto è empirico e adattivo, fondato sulla necessità di distinguersi dalle altre correnti interne al movimento operaio, ma tenendo sempre presente che molte scelte si definivano momento per momento e cambiavano dentro un rapporto strettissimo fra una prassi di movimento e più teorie in formazione. La preoccupazione fondamentale di Marx ed Engels fino alla pubblicazione del Manifesto, inoltre, fu l’individuazione del soggetto rivoluzionario, la classe operaia, senza il quale nessuna politica era per loro concepibile: siamo lontanissimi da un concetto – seppur vago – di autonomia della politica, ma molto prossimi a un’idea che riassumo in questa formula: la politica o è rivoluzionaria o non è. C’è poi un secondo aspetto che appartiene a questa prima fase e che passerà anche alle altre due: lo definirei di tipo analitico e cioè una straordinaria capacità di leggere e prevedere le mosse politiche di stati e aggregazioni politiche estemporanee. Oggi la definiremmo una capacità geopolitica e anche una forma nuova per l’epoca, di critica radicale e spesso irridente dello stato di cose presenti. Mi riferisco in particolare alla raccolta di articoli pubblicati sulla Gazzetta renana che diventeranno un libro (Le lotte di classe in Francia), pubblicato nel ’49 ma appartenente a pieno titolo alla prima fase.

La seconda fase possiamo collocarla entro l’arco temporale che dal ’48 arriva fino al ’71 e cioè alla Comune di Parigi. Il periodo è contrassegnato da un’intensa attività di studio e agitazione politica: quest’ultima culmina nella fondazione della Prima Internazionale. Cambia in questa fase il rapporto di Marx e di Engels con la politica? Molto meno di quanto non si creda e specialmente non si stabilì fra loro una sorta di divisone dei compiti: la parte politica delegata a Engels e a Marx lo studio. Tale idea si consoliderà nel tempo, tanto che a Engels verrà attribuita la definizione di demiurgo; ma è in larga parte basata su un equivoco, la confusione fra le loro differenze caratteriali e la realtà delle azioni concrete compiute. Marx era insofferente e collerico e a volte caricava a testa bassa; inoltre era un campione della diffidenza e si può certo dire che diffidasse anche della politica. Engels e Jenny von Westphalen erano i soli che riuscivano a farlo ragionare pacatamente quando esagerava, ma sapevano entrambi che aveva spesso ragione lui. Quando però non aveva ragione, Engels era fermissimo nel contrastarlo, come avvenne per esempio con la stesura del Manifesto del Partito Comunista, che forse senza la fermezza di Engels sarebbe uscito chissà quando. Engels, rispetto a Marx, aveva un talento organizzativo e anche una visione del lavoro strutturato che gli derivava dalla sua formazione nell’industria di famiglia, verso la quale era insofferente fino all’aperta ribellione, ma che tuttavia ebbe una parte decisiva nel suo modo di lavorare e operare, mentre Marx aveva un atteggiamento più romantico nel modo di condurre la propria vita. Tuttavia, Marx sapeva anche ascoltare (Friederich e Jenny, gli altri un po’ meno) e i passaggi politici importanti della seconda fase e cioè la Fondazione della Prima Internazionale nel 1864 fu una scelta militante pienamente condivisa: Marx fu l’estensore del documento programmatico e dello statuto. La Prima Internazionale aveva di certo un’organizzazione più strutturata e meno flessibile, compreso un apparato di funzionari, ma siamo sempre molto lontani dalla concezione del partito moderno che si affermerà prima nei partiti socialisti e poi in modo definitivo con Lenin. Oltretutto, la Prima Internazionale si pose come un organismo fortemente centralizzato solo per ragioni di necessità che furono però presto abbandonate, anche prima del suo scioglimento nel 1876. La necessità di centralizzazione era dovuta al fatto che in certe nazioni esistevano solo sparute rappresentanze, a volte anarchiche, a volte blanquiste a volte socialiste, a volte comuniste: il processo di centralizzazione, che non ha nulla a che vedere con il centralismo come lo intendiamo a seguito dell’esperienza bolscevica, fu il passo necessario per poi liberare le energie in ciascuna nazione europea una volta che si era creata una massa critica di militanti in ogni paese. Tuttavia, siamo sempre dentro un processo adattivo e flessibile, e paradossalmente lo sarà ancora di più La Seconda Internazionale che non fu altro, infondo, che un organismo federale, più che centralizzato, fra i diversi partiti socialisti. Questa seconda fase finisce nella tragedia della Comune di Parigi.

Il terzo periodo è quello successivo alla Comune, che inizia con quel magnifico testo che è La guerra civile in Francia, che ripropone la straordinaria capacità di lettura degli eventi che si era già vista all’opera negli articoli del ’48 e ’49, ma con una maggiore capacità analitica. A questo testo affiancherei un altro meno noto ma assai rilevante, ripreso recentemente da Sbilanciamoci e di cui allego il link: si tratta dell’intervista rilasciata da Marx a Landor, corrispondente del World, il 3 luglio 1871 A Londra. Soltanto un paio di mesi prima, la Comune di Parigi, era stata soffocata nel sangue. L’intervista fu ripubblicata nel 1997 su www.internazionale.it, ma la trovate anche sul blog www.2011oraequi.blogspot.com

La riflessione sulla Comune di Parigi è, nella vulgata marxista successiva, l’asse portante per dimostrare che il concetto di dittatura del proletariato è centrale nel pensiero di Marx. Se si guarda però all’insieme di questi scritti è facile notare come l’accento sia per intero spostato sulla valorizzazione degli aspetti propositivi e positivi della Comune e di rottura rispetto alle rivoluzioni precedenti: l’espressione dittatura del proletariato non trova spazio nei quattro capitoli de La guerra civile in Francia. Il terzo capitolo, in particolare, è vistosamente orientato in senso propositivo: ne cito alcuni passaggi:

La Comune fu composta dai consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei diversi mandamenti di Parigi, responsabili e revocabili in qualunque momento. La maggioranza dei suoi membri erano naturalmente operai, o rappresentanti riconosciuti dalla classe operaia. La Comune doveva essere non un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo. Invece di continuare a essere l'agente del governo centrale, la polizia fu immediatamente spogliata delle sue attribuzioni politiche e trasformata in strumento responsabile della Comune, revocabile in qualunque momento. Lo stesso venne fatto per i funzionari di tutte le altre branche dell'amministrazione. Dai membri della Comune in giù, il servizio pubblico doveva essere compiuto per salari da operai. I diritti acquisiti e le indennità di rappresentanza degli alti dignitari dello stato scomparvero insieme con i dignitari stessi. Le cariche pubbliche cessarono di essere proprietà privata delle creature del governo centrale. Non solo l'amministrazione municipale, ma tutte le iniziative già prese dallo stato passarono nelle mani della Comune… Sbarazzarsi dell'esercito permanente e della polizia, elementi della forza materiale del vecchio governo, la Comune si preoccupò di spezzare la forza della repressione spirituale, il "potere dei preti", sciogliendo ed espropriando tutte le chiese in quanto enti possidenti. I sacerdoti furono restituiti alla quiete della vita privata, per vivere delle elemosine dei fedeli, ad imitazione dei loro predecessori, gli apostoli. Tutti gli istituti di istruzione furono aperti gratuitamente al popolo e liberati in pari tempo da ogni ingerenza della chiesa e dello stato. Così non solo l'istruzione fu resa accessibile a tutti, ma la scienza stessa fu liberata dalle catene che le avevano imposto i pregiudizi di classe e la forza del governo. I funzionari giudiziari furono spogliati di quella sedicente indipendenza che non era servita ad altro che a mascherare la loro abietta soggezione a tutti i governi che si erano succeduti, ai quali avevano, di volta in volta, giurato fedeltà, per violare in seguito il loro giuramento. I magistrati e i giudici dovevano essere elettivi, responsabili e revocabili come tutti gli altri pubblici funzionari…

La Comune fece di un operaio tedesco il suo ministro del lavoro.4

Ciò che qui viene sottolineato come decisivo non è tanto l’essersi impadroniti del potere statuale, ma di averne smantellate le prerogative in quanto istituto separato e di averne ricondotte le funzioni principali all’interno di una società civile capace di autogestirsi: questo fra l’altro è il senso dell’espressione estinzione dello stato e anche la ragione profonda dell’opposizione all’espressione anarchica abolizione dello stato.

Di dittatura del proletariato, Marx parlò per la prima volta nel ’48, ma solo come descrizione di quello che era avvenuto durante le insurrezioni:

«Al posto delle sue rivendicazioni [si riferisce al proletariato n.d.r], esagerate nella forma, nel contenuto meschine e persino ancora borghesi, e che esso voleva strappare come concessioni alla repubblica di febbraio, subentrò l'ardita parola di lotta rivoluzionaria: Abbattimento della borghesia! Dittatura della classe operaia!5

Marx ed Engels ne scrivono poi vagamente nel Manifesto (nel senso che alcune frasi possono essere interpretate come un abbozzo del concetto), che viene espresso più chiaramente per la prima volta nel 1852, nella lettera a Weydemeyer e poi nel 1875, in Critica del Programma di Gotha, su cui bisogna fare una premessa e cioè che si tratta di un testo fatto di brevi note, chiose e frammenti che non possono costituire di certo una riflessione organica. Il brano, in cui il concetto viene espresso in modo più articolato è il seguente:

Si domanda quindi: quale trasformazione subirà lo stato in una società comunista?

… Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico transitorio, il cui stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato6

Subito dopo, tuttavia, si precisa che il programma del partito non si occupa di questo, non elabora minimamente tale concetto e, continuando nell’analisi, Marx fa alcuni esempi che si riferiscono per esempio alla Svizzera, dai quali si può capire ancor meglio che l’estinzione dello stato di cui parlerà più diffusamente Engels nelle introduzioni successive al testo, dopo la morte di Marx, si riferisce proprio alla riappropriazione da parte della società civile di prerogative statali. L’esempio della Svizzera è quanto mai calzate: nella confederazione, infatti, anche oggi, tutti i cittadini devono svolgere in alcuni momenti della loro vita finzioni statuali: ma nell’adempierle non cessano di essere il maestro elementare, piuttosto che il macellaio del paese. In sostanza non costituiscono un organismo separato, se non agli altissimi libelli della gestione del potere.

Il concetto di dittatura del proletariato fu elaborato per la prima volta in modo esteso e razionale e poi tradotto in un programma politico da Lenin, sintetizzando in una forma nuova e originale singole affermazioni di Marx e di Engels, ma anche attingendo a fonti diverse, quasi sempre trascurate, che affondano le loro radici nella cultura russa7.

L’esigenza di stabilire una ferrea continuità fra il pensiero di Marx e di Engels e il suo, comprensibile in Lenin nel momento della battaglia politica contro la Seconda Internazionale che – non dimentichiamolo – aveva avallato la scelta di concedere i crediti di guerra ai loro stati da parte dei partiti socialisti, con la sola eccezione di quello italiano, diventò solo un’esigenza iconico/propagandistica nelle vulgate successive, tutte volte a sopprimere ogni critica; riproposta oggi assume aspetti farseschi.

 

Marx, Engels, la politica e noi

Pur breve, questo scritto non vuole racchiudersi dentro una semplice ricostruzione storica, ma proprio in omaggio all’insegnamento forse più importante di Marx e cioè la necessità di connettere sempre prassi (che è anche prassi culturale) e teoria, non avrebbe senso evitare di domandarsi cosa possiamo dire sul nostro oggi ripensando alla loro esperienza. Prima di tutto, che ogni discorso politico che prescinda dall’individuazione del soggetto o dei soggetti sociali che possono rendere concreto il discorso, è un esercizio sostanzialmente astratto: bisogna avere il coraggio di dire che il dogma dell’autonomia della politica, sia che lo si faccia derivare da Machiavelli, sia da letture molto parziali che Gramsci fa del medesimo, è la scorciatoia che ha fatto annegare, per esempio il PCI, nel cinismo della tattica. Nelle mani dei nipotini di Gramsci e Togliatti, l’autonomia della politica è diventata la foglia di fico per giustificare qualsiasi scelta e il suo contrario. Ci si dimentica, prima di tutto, che il concetto nacque, in Machiavelli, per dire che l’azione del Principe non poteva essere giudicata in base alle regole della morale cristiana comune: era una constatazione di fatto e se diamo credito ai versi memorabili di Foscolo, un modo per dire al popolo di che lacrime grondi e di che sangue. Marx, che non ha mai citato Machiavelli, ma preferiva guardare - almeno da giovane - al realismo di Hobbes, ammirandone prima di tutto la capacità adattiva di mantenere sempre nelle sue riflessione una stretta connessione fra eventi empirici e riflessione sui medesimi, fu sempre lontano da un concetto di autonomia della politica: lo stesso si può dire di Engels.


Note
1 Mario de Micheli, Le avanguardie artistiche del novecento, Universale economica Feltrinelli, Milano 1977 capitolo primo. De Micheli è un personaggio defilato ma importante della cultura comunista italiana. Ha preso parte attiva al movimento Corrente, ha fondato diverse riviste nazionali e internazionali e i suoi studi sulle avanguardie artistiche del ‘900 sono fra i più rilevanti della critica marxista novecentesca.
2 I crimini e le aberrazioni del regime staliniano non dipendono dal partito in quanto tale ma dal partito unico che si fa stato e cancella ogni altra articolazione del potere assumendo su di sé persino le funzioni che avrebbero dovuto essere dei soviet e dei sindacati , cancellando così ogni dialettica politica e sostituendo al concetto di dittatura del proletariato che – per quanto male o bene se ne possa pensare era del tutto diverso – con la dittatura di un partito unico e poi di un capo unico dal profilo paranoico. Quanto ai partiti, anche quelli organizzati per correnti, riproducono all’interno delle correnti una struttura sostanzialmente centralista e poco cambia se invece di chiamarsi comitato centrale, il centro direttivo si chiama direzione nazionale. La DC fu un partito regime, diviso in correnti, ma lo fu all’interno di un sistema pluri partitico. Il funzionamento interno, non era molto diverso da quello dei partito socialista e comunista. In ogni caso l’enfasi sulla politica come professione appartiene a tutti i partiti. La correzione da partito di quadri a partito di massa voluta da Togliatti non cambia in modo sostanziale il modello. Se mai, alcune riflessioni importanti e potenzialmente aperte a un futuro ulteriore e diverso si trovano in Gramsci, specialmente sul tema governanti/governati.
3 A questo proposito penso che il modello di partito che ho descritto in precedenza sia uno degli aspetti irreversibili della crisi attuale della democrazia rappresentativa e di quella che viene chiamata impropriamente politica, ma tale argomento non può essere trattato in questo contesto.
4 Il testo è facilmente reperibile anche in rete e per intero.
5 La citazione è tratta da Le lotte di classe in Francia, anch’esso reperibile in rete.
6 Karl Marx Critica del programma di Gotha, Feltrinelli Universale Economica, Milano 1968, pag.27.
7 L’unico studioso che ha dato un quadro completo dei riferimenti di Lenin e sulle radici russe del Che fare, è Edward Carr, non tanto nella sua monumentale storia della Rivoluzione d’Ottobre, ma in 1917.

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