Print Friendly, PDF & Email

Article Index

blackblog

La sostanza del capitale

Prima parte: La qualità storico-sociale negativa dell'astrazione "lavoro"

di Robert Kurz

newton4L'Assoluto [Absolutheit] e la relatività nella Storia. Per la critica della riduzione fenomenologica della teoria sociale

A ben vedere, quasi sempre si può constatare che esistono delle corrispondenze e delle correlazioni fra mutazioni storiche del tutto diverse, in aree del sapere o sfere della vita apparentemente separate fra di loro. Nel sistema produttore di merci della modernità, già nella sua costituzione primitiva, aree come la filosofia, la medicina, l'economia, le scienze naturali, la politica, il linguaggio, ecc., sebbene non si siano sviluppate secondo lo stesso ritmo, si sono pur sviluppate secondo una direzione comune, riferendosi sempre, oggettivamente, le une alle altre. Il motivo di questa concordanza o correlazione, a volte sorprendente, dev'essere evidentemente cercato nello sviluppo della relativa formazione sociale, la quale costituisce il legame comune intrinseco ai vari domini esistenziali, aree di conoscenze e competenze. Con ciò, tuttavia, si dice che non si può avere un sapere assoluto nel modus esistenziale della temporalità: tutto il sapere, anche quello che sembra puramente oggettivo, "rigido", atemporale, è storico e socialmente condizionato, ed è anche in un certo qual modo (non a caso) relativo.

Apparentemente, questa consapevolezza della relatività costituisce un progresso del sapere avvenuto nel XIX e nel XX secolo, che proviene dalla storiografia (a partire dallo storicismo) e passa dall'economia politica (dottrina del valore soggettiva o relativista), dalle scienze naturali (fisica quantistica), dalla linguistica (Saussure) e dalla filosofia (il "pensiero post-metafisico", la "svolta linguistica"), e sfocia nel generalizzato anti-essenzialismo, e relativismo, postmoderno.

Ma tutto questo non è solo apparenza. Proprio perché il sapere e la conoscenza sono sempre determinati da un contesto storico-sociale, condizionati come sono dalle forme sociali feticistiche che implicano dominio e relazioni di coazione (di altri contesti, a tutt'oggi, non siamo a conoscenza), si svolgono anche sempre sotto l'egida del pensiero apologetico. Laddove il sapere è di per sé sapere del dominio, le cose non possono avvenire diversamente. Nel sistema produttore di merci della modernità, questa apologetica assume la forma dell'ideologia. Perciò, non basta semplicemente affrontare il sapere e la conoscenza solo nella loro relatività (come fa in gran parte il pensiero postmoderno); innanzitutto, e per di più, tale condizionamento dev'essere sottoposto ad un'analisi critica dell'ideologia, analisi che deve essere posta in relazione col rispettivo processo storico-sociale reale. In ogni caso, è quello che si rende necessario quando la riflessione pretende di inserirsi nel contesto di una necessità emancipatrice e critica del dominio.

Ma, se si prende in considerazione questo piano di riflessione critica sull'ideologia, la conoscenza della relatività dev'essere esaminata nel suo potenziale ideologico ed apologetico. Il pensiero postmoderno cerca di mettersi fuori dalla portata di un tale punto di vista, insinuando, nei confronti della critica dell'ideologia in sé, il sospetto di "metafisica" e di "essenzialismo". Si assume che il punto di vista, o il calibro, della critica dell'ideologia sia sempre assoluto, totalitario, ontologico o metafisico. Così l'osservazione si volge in una direzione metafisica essa stessa, dal momento che paradossalmente è la relatività, né più né meno, ad essere elevata allo statuto di Assoluto. Quello che in tal modo viene estromesso, una volta che il piano di riferimento della relatività non viene chiarito, è il concetto di critica in senso stretto.

Nella realtà, però, la suddetta relatività può essere riferita soltanto al fatto che il sapere e la conoscenza sono legati ad un determinato luogo storico, non solo nel senso di una relatività immediata, ma nel senso di una formazione sociale globale e determinata; e lo sono, o affermativamente, in maniera positiva (positivista), oppure criticamente, in maniera negativa. La critica, pertanto viene assunta negativamente rispetto al suo luogo storico, poiché fa della formazione sociale che appartiene a tale luogo, e della corrispondente relazione di dominio, l'oggetto della sua negazione (cosa che del resto rimanda alla possibilità della trascendenza, in quanto movimento al di fuori dell'immanenza). Il che significa, tuttavia, che la critica può essere solo una critica determinata, ossia, una critica riferita a tale luogo storico, concepito come formazione sociale storica, che in tale dimensione contiene un momento di negazione assoluta, anche se solo relativamente a questo campo specifico: segnatamente, la sua radicalità si volge contro la costituzione della forma sociale dominante, senza che per questo smetta di essere relativa in riferimento ad un contesto più vasto, dal momento che è in grado di riflettere un tale contesto.

La negazione dev'essere assoluta relativamente al suo contenuto, il quale non è altro che la forma sociale essa stessa negativa e che pertanto dev'essere negata: la forma della riproduzione e del soggetto, forma distruttiva e feticista della quale non può restare niente se non l'esperienza traumatica ad essa associata che rimane impressa nella memoria dell'umanità. Rispetto a questa forma di feticcio oggetto di critica, la negazione dev'essere assoluta, in quanto in caso contrario non sarebbe negazione.

Il problema del pensiero postmoderno, e delle correnti di pensiero che risalgono al XIX secolo, a partire dalle quali esso stesso si compone e si costruisce, consiste proprio nel fatto che non è stato sviluppato un qualsivoglia criterio per distinguere i piani di riferimento della relatività nell'ambito della storia dell'umanità, così come della storia delle "culture" o delle formazioni sociali, da un lato e, dall'altro lato, come determinazione o situazione assoluta in uno spazio storico delimitato, esso stesso negativo, di una determinata formazione. In altre parole: non è stata stabilita una differenza essenziale tra costituzioni storicamente diverse della forma sociale, ed in tal modo non viene neanche costituita una qualsivoglia concezione specifica del moderno sistema produttore di merci e delle categorie della sua forma base. In questo senso stretto, le teorie postmoderne, così come quelle dei predecessori, in fondo non riflettono con precisione il proprio condizionamento storico-sociale, né la corrispondente relatività. Il lavoro (astratto), il valore, la merce, il denaro, il mercato, la concorrenza, lo Stato, la nazione, la politica, ecc. possono passare benissimo per "costrutti culturali", così come tutte le altre manifestazioni sociali "qualsiasi", ma non per questo si rivelano meno ontologici di quanto lo siano nell'ideologia borghese volgare, così come essa è stata ereditata anche dal marxismo del movimento operaio.

Quindi, il relativismo, irriflesso a riguardo, relativizza anche la differenza tra la relatività di un determinato luogo storico, da un lato, e la determinazione - ovvero l'Assoluto - all'interno di tale luogo, dall'altro lato; non si interessa alla differenza tra lo spazio storico totale dell'umanità - nel quale le varie costituzioni storico-sociali, e le rispettive forme di sapere e di conoscenza, si posizionano reciprocamente in maniera relativa - e lo spazio interno di una determinata formazione, in cui predomina un Assoluto interno, o quanto meno domina una pretesa reale che a questo corrisponde, vale a dire la rispettiva forma feticistica, la quale dev'essere spezzata.

Quest'imprecisione ha delle conseguenze per il concetto di critica, il quale in tal modo diventa esso stesso impreciso ed indeterminato. Le categorie di base della costituzione sociale spariscono dietro il movimento interno di questa. La critica viene fenomenologicamente ridotta, e si riferisce soltanto ad una determinata azione od omissione in seno alle categorie rese grigie. E' vero che queste categorie, nel pensiero postmoderno, nella maggior parte dei casi non vengono immediatamente affermate come positive; ma ciò si deve solo al fatto che non arrivano neppure ad essere elevate ad oggetti della riflessione. Laddove tutto viene trattato indistintamente come se fosse un "costrutto", smettono di esserci gradi di rigidità e dimensioni con profondità diverse; viene livellata la differenza fra spiegazioni apparenti di natura ideologica e l'apparenza reale della forma del feticcio. Rimane l'essenza o la sostanzialità categoriale della formazione storica della società su cui riflettere, quindi anche da criticare.

Avviene così un'inversione paradossale del rapporto fra il processo sociale reale e l'ideologia; per meglio dire, tale rapporto, in una certa misura, viene puramente e semplicemente nascosto, ed è proprio a partire da questo che il relativismo converte sé stesso in un'ideologia miserabile. La sostanza reale negativa della relazione di feticcio viene sottratta alla critica radicale, nella misura in cui la "sostanzialità" si presenta da principio come proveniente soltanto da una pretesa totalitaria del pensiero, o dell'immaginazione. In questo modo, la questione si trova ad essere con i piedi per aria: la critica radicale viene accusata di quello che dovrebbe essere imputato alla relazione sociale reale. Al posto della relazione reale soggiacente, è la critica dell'ideologia ad apparire come "totalitaria".

E' questo, quindi, il modo in cui la conoscenza della relatività si converte in ideologia apologetica. Per quanto riguarda il moderno sistema produttore di merci, il suo concetto di capitale si dissolve così in un sistema di "rapporti di forza" relazionali; in tal misura, nonostante tutta la critica postmoderna del soggetto, viene riprodotto il regresso all'illusione borghese della volontà, per quanto ridotta a mutazioni interne dei "costrutti" sociali rappresentati tutti sullo stesso piano. Questa relazionalità di già ideologica viene in seguito "eso-differenziata" e declinata nelle diverse aree di riproduzione e di vita. In questo modo, la critica continua nella particolarità dei fenomeni (dai rapporti di potere nella professione medica alla deportazione nei servizi per gli stranieri, dai "costrutti" del razzismo alla retorica politica dei vincoli oggettivi), senza però mai riuscire a pronunciarsi sul tutto della connessione della forma sociale, dal momento che questa non dispone di un qualsiasi concetto sostanziale.

Questa dissoluzione della "essenza" storico-sociale nella razionalità fenomenologica dei rapporti di potere e della loro rispettiva costruzione, o decostruzione, copre così, che piaccia o meno, la sostanzialità negativa non più denominabile delle categorie reali capitaliste. Gli è che questo può manifestarsi socialmente in un movimento emancipatore di trasformazione soltanto se la reale pretesa di validità assoluta della forma feticista dominante viene rotta proprio nel suo contenuto sostanziale. Per esempio, le diverse aree di esistenza e di attività hanno ciascuna la propria logica, la propria pretesa, il proprio senso, ecc., che non può essere compreso dalla pretesa validità assoluta di un unico principio totalitario; solo arrivando a costituire un tutto nella relatività del rispettivo contesto relazionale, tutto questo non viene ridotto ad una forma unica ed alla sostanza, ugualmente unica, della stessa forma - è questa la conoscenza che bisogna cominciare ad affermare, contro il violento sostanzialismo reale del moderno sistema produttore di merci in generale.

E' per tutto questo che non è nemmeno possibile arrivare ad una critica radicale senza il concetto di una sostanzialità negativa della relazione di valore o del capitale. D'altro canto, la pretesa dell'Assoluto di questa sostanzialità negativa entra anche in conflitto con la stessa costituzione fisica del mondo, manifestandosi sotto forma di un processo distruttivo annichilitore della vita; soprattutto, però, questa pretesa entra ugualmente in conflitto con la contraddittorietà interna della sostanzialità capitalista in quanto tale, e così si manifesta sotto forma di processo di crisi endemico di questa formazione storico-sociale. E' per questo motivo che senza il concetto di sostanzialità negativa non è possibile neanche sviluppare un'adeguata teoria della crisi. Il nascondere o l'ignorare la reale sostanzialità sociale negativa equivale, in gran parte, a nascondere o all'ignorare la crisi, nel suo contenuto significativo del limite interno assoluto del moderno sistema produttore di merci.

Il carattere ideologico ed apologetico di un pensiero relativista che non affronta questa problematica, consiste essenzialmente nel suo presumere l'esistenza della relatività e in una "apertura" in termini storico-sociali dove in realtà si pontifica un Assoluto ed una coesione sistemica dissimulati, postulando quindi un'emancipazione (sempre intesa solo parzialmente) totalmente indipendente da una critica della sostanza reale negativa e delle categorie della sua forma; per esempio, attraverso l'intermediazione del concetto ormai solo risibile di "democratizzazione". La sostanzialità negativa della relazione di capitale diventa grigia, viene nascosta, diventa invisibile e viene dissolta in una pseudo-relatività ideologica. E' proprio per questo che la riduzione e l'accorciamento fenomenologico della critica corrisponde ad un'uguale riduzione ed accorciamento della teoria della crisi. Questo relativismo ideologico, invece di essere emancipatorio non è altro che un camuffamento addizionale della soggettività borghese di tutte le classi, le quali non vogliono ammettere la loro obsolescenza storica.

Non è un caso che il marxismo tradizionale condivida ampiamente con il relativismo postmoderno, il rifiuto della teoria radicale della crisi. Gli è che, come è stato dimostrato da Moishe Postone, un certo modo di riduzione e di accorciamento ideologico e relativista è inerente anche alla teoria del marxismo del movimento operaio in tutte le sue varianti. Quello che nelle teorie postmoderne è un programma esplicito, nel marxismo si manifesta come una riduzione implicita; non c'è modo di distinguere fra un concetto globale storico che è assente nella logica della formazione della relazione del valore e del capitale, e gli stadi di aggregazione e sviluppo corrispondenti alla sua storia interna, cosicché il livello di astrazione dei concetti essenziali (che soltanto sul piano meta-storico sono relativi ai concetti essenziali delle altre formazioni) viene fondamentalmente perso:

"Si è resa storicamente manifesta la totale insufficienza delle teorie del capitalismo moderno che confondono una configurazione storica specifica del capitalismo (il libero mercato o lo Stato disciplinare burocratico) con l'essenza della formazione sociale... Tutte queste critiche sono... incomplete. Come vediamo ora, il capitalismo non rientra in nessuna di queste configurazioni... Un'adeguata teoria critica del nostro tempo dev'essere fondata su una concezione non reificata delle relazioni che costituiscono l'essenza del capitalismo e su una concezione delle differenze tra tale essenza e le varie configurazioni storiche successive del capitalismo" (Moishe Postone, "Tempo, lavoro e dominio sociale").

In questa misura, il concetto di sostanzialità del capitale - assente nella logica della formazione - rappresenta il piano decisivo, cui né le teorie del marxismo tradizionale, né le teorie postmoderne possono accedere a causa del loro rispettivo relativismo falso e ideologico.

 

Il concetto filosofico di sostanza e la metafisica reale capitalista

Per poter determinare il carattere ideologico del pensiero borghese suppostamente metafisico e, in particolare, il suo risultato pseudo-relativistico, bisogna porre il concetto filosofico di sostanza in relazione con la costituzione capitalista della modernità. Infatti, nella storia della filosofia non esiste un significato generalmente accettato del concetto di sostanza. Nella filosofia antica ed in quella medievale, la sostanza è il nucleo essenziale, in opposizione alle mere qualità (accidenti), è quello che perdura e rimane, ossia, l'identità in opposizione agli "stadi" o sviluppi. In Aristotele, il concetto di sostanza sembra significare materia, nel senso di un substrato delle "cose", che è anche forma, nel senso dell'essenziale delle cose materiali.
Tuttavia, i diversi significati, o piani di significato, della maggior parte dei concetti filosofici pre-moderni della sostanza hanno in comune il fatto che non postulano necessariamente una generalità, o un Assoluto sostanziale astratto, per lo meno nel mondo fisico e sociale conosciuto. Esplicitamente o implicitamente, prevale la supposizione che esistano sostanze qualitativamente diverse che possono stabilire relazioni le une con le altre. Di conseguenza, la stessa sostanza sarebbe in un certo qual modo qualcosa di relativo. Sia per quanto riguarda la forma che il contenuto - per la filosofia antica o per le teologie - le stelle, le pietre, gli alberi, i cani, gli esseri umani, ecc. rappresentano sostanze distinte. E l'identico di una determinata sostanza, per esempio di un individuo umano, può essere rappresentato anche come la totalità delle sue relazioni naturali, sociali, culturali, personali, ecc. nell'unicità individuale della sua struttura. Solo Dio figura come istanza assoluta, generale, "suprema"; ma questa sostanza rimane trascendente al mondo.

Tuttavia, già nelle teorie atomistiche si insinua un momento di assoluto, o di generale ed astratto, con riferimento al mondo terreno e, concretamente, attraverso il modus della riduzione. Per Democrito, per esempio, non "esiste" niente se non il vuoto e i corpi composti di atomi - i più piccoli componenti in gran parte qualitativamente uguali - i quali si distinguono solo per la forma e la dimensione. Questo anticipa la concezione di un'unità assoluta e sostanziale del mondo come principio immanente. Non è un caso che questo riduzionismo fisico si ripeta sistematicamente nella scienza naturale moderna, dove celebra il suo vero trionfo. "L'universo-orologio" meccanico di Newton consiste, come egli stesso scrive nella sua 'Ottica', di "particelle magiche, ferme, rigide, impenetrabili e mobili" le quali, per l'intermediazione di "forze" agiscono esternamente le une sulle altre. In questo Universo omogeneo, Dio è ormai soltanto una specie di orologiaio; però, una volta data la corda, il mondo-sistema meccanico si muove da solo, e l'Illuminismo, alla fine, fa a meno di qualsiasi sostanza creatrice trascendente "suprema e prima".

L'unificazione fisica, che riduce il mondo in componenti o unità morte ed uguali inserite in un continuum di spazio-tempo assoluto ed unificato -  nell'antichità soltanto abbozzata - viene, nella modernità, per così dire, radicalizzata e generalizzata come un dogma. In questo caso, il concetto atomista di sostanza si estende oltre che alla natura fisica, a tutte le aree dell'esistenza, per esempio nel concetto di "monadi senza finestre" di Leibniz. A questo corrisponde una concezione della società umana che ormai non parte dalla comunità, quale che sia la sua definizione, ma al contrario parte dalla separazione dei suoi membri, i quali possono soltanto mediarsi gli uni con gli altri, a posteriori ed in maniera esterna-meccanica. Qui, diventa già chiaro che la conoscenza della natura, apparentemente pura, della modernità, ossia, il "costrutto" dell'universo-orologio di Newton, riflette in realtà una determinata relazione sociale, la quale include un paradigma di individui atomistici o astratti - dal momento che tale paradigma contiene, nella sua astrazione apparentemente omogenea della "individualità in generale", una particolarità storicamente ben relativa, segnatamente quella del soggetto maschio bianco occidentale (MBO). Detto ciò, però, non ci troviamo davanti ad una mera idea di attori della conoscenza de "IL" mondo, senza presupposti, ma semmai ci troviamo davanti ad una determinata costituzione storico-sociale, vale a dire, davanti all'incipiente costituzione capitalistica del moderno sistema produttore di merci.

Probabilmente, non si tratta di superare [Überwinden] la metafisica, come sempre si suppone con l'avanzare di questa formazione sociale. Sia la scienza naturale moderna, sia anche la filosofia e la teoria sociale - apologetiche - ad essa legate hanno evidentemente basi metafisiche. Queste basi potevano venire man mano nascoste, per poi essere apparentemente gettate via, dal momento che non rappresentano una metafisica nel senso di una riflessione meramente filosofica o teologica, ma una relazione sociale reale, ossia, una metafisica reale, in una certa maniera incarnata o incorporata nel processo di riproduzione sociale. Nella misura in cui questa metafisica reale si va imponendo storicamente e viene interiorizzata, la sua forma di riflessione filosofica può svanire, una volta che l'apparentemente evidente, assiomatico e quotidiano, non dev'essere più pensato a parte, e non si presenta più come un'essenza distinta.

In un certo senso, forse può essere lecito dire che tutte le costituzioni sociali di feticcio - quindi anche quelle pre-moderne - rappresentano una sorta di metafisica reale, nella misura in cui la rispettiva metafisica non si esaurisce mai in delle mere idee o delle rappresentazioni mentali ma tali costituzioni sociali di feticcio, attraverso questa metafisica, regolano allo stesso tempo la riproduzione sociale reale, le relazioni sociali ed il "processo di metabolismo con la natura" (Marx). Tuttavia, la metafisica reale sociale pre-moderna delle relazioni sociali, delle condizioni di riproduzione e delle strutture di potere, è in un certo qual modo "determinata al di là", è mediata attraverso la proiezione di una sostanza assoluta semplicemente trascendente, di un'essenza divina assoluta ed esterna al mondo, la quale è rappresentata in maniera personalizzata; in particolare, come un sistema di relazioni personali di dipendenza e di obbligo.

Il concetto di "dipendenza personale", tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi, viene profondamente malinteso (anche in Marx, che non se ne occupa a fondo per quanto riguarda le condizioni pre-moderne) quando per "persone" - in questo senso delle costituzioni sociali pre-moderne di feticcio - si intendono "persone naturali", o perfino soggetti-di-interesse secondo l'utilizzo moderno del linguaggio. Sembra così che la struttura "dipendenza personale" configuri una forma di dominio diretta e non mediata, in opposizione a quella moderna, indiretta e mediata. Per la verità, le condizioni pre-moderne sono ugualmente mediate; solo che lo sono in un altro modo, dal momento che in quel caso le stesse persone diventano piani di proiezione e quindi rappresentazioni della trascendenza feticistica. Tali persone trascendentali e tali relazioni di dipendenza personale sono, in questo senso, strettamente separate dalle persone naturali e dalle loro relazioni personali; del resto, questo finisce per creare delle bizzarre contraddizioni fra la personalità trascendentale e la personalità naturale, che non hanno niente da invidiare alle assurdità della moderna socializzazione del valore, come nel caso del concetto dei "due corpi del re" (Ernst H. Kantorowicz, I due corpi del Re, 1957).

Perciò, le persone qui, nel contesto della costituzione feticistica, non si presentano a sé stessi come portatori autonomi di volontà ed azione, ma come rappresentazioni in seno al mondo dell'essenza della sostanza trascendente proiettata. Dal momento che la sostanza rimane trascendente, in quanto non assume una forma terrena immediata (se non nelle rappresentazioni simboliche), essa non può includere totalitariamente il mondo reale. Generalmente, non vi è alcuna generalità sociale astratta, ma esiste semmai una sequenza di più gradi di rappresentazioni personali e di situazioni relazionali a tutti i livelli.

Diverso è il caso della metafisica reale capitalistica della modernità. Qui la trascendenza viene in un certo qual modo superata; la sostanza feticistica proiettata - o l'essenza come Assoluto - diventa immediatamente terrena e sociale, sotto la forma della "valorizzazione del valore" (e, solo in questo senso di una sua immanenza al mondo, "diretta" e non più "determinata da altrove", cioè non più derivata da un principio esterno al mondo). Anche se il momento di trascendenza continua ad esistere, nella misura in cui la figura essenziale del feticismo, il "valore", non costituisce alcuna essenza direttamente fisica o sociale, ma un'astrazione non palpabile, che paradossalmente, per così dire, è incarnata nel "processo di metabolismo con la natura" e nelle relazioni sociali. In questo senso, la relazione sociale così costituita rappresenta un'astrazione reale, e non una proiezione meramente ideologica di idee o (nel senso premoderno) religiosa, mitologica, ecc., né tanto meno rappresenta una mera astrazione nominale.

In un certo senso, la proiezione diventa immediatamente reale, e con questo anche palpabilmente terrena, sebbene continui ad essere mediata, nella misura in cui si manifesta soltanto nelle relazioni sociali e nelle cose reali (merce e denaro), in quanto l'essenza del "valore" come astrazione non può essere immediata, né quindi, tanto meno, palpabile. Il paradosso dell'astrazione reale consiste nel fatto che l'astrazione, in sé non fisica/materiale/corporea - la cosa del pensiero, o per altro, un prodotto socialmente oggettivato del cervello in quanto proiezione feticista - si presenta così come una relazione sociale reale ed ha un'oggettività fisica reale, soprattutto in oggetti che in sé non sono astratti, ma che diventano oggetti realmente astratti in virtù del meccanismo di proiezione sociale.

La "cosa del pensiero", il "prodotto della testa", non devono qui essere malintesi come qualcosa tipo "pensiero proiettato", per esempio nel senso di un "contratto sociale" (primordiale) come quello presente nell'ideologia dell'illuminismo, come problema di volontà, o come ideologia; un meccanismo di proiezione feticistica è al contrario qualcosa di sempre presupposto alla "proiezione", che deve ancora essere decifrato.

In un certo modo si potrebbe quasi parlare di una regressione, dacché il meccanismo di proiezione moderno regredisce ad una sorta di animismo secondario, dove non sono più le persone ad essere trascendentalmente rappresentative, ma sono le cose inanimate a presentarsi come animate, così come lo ha esposto ironicamente Marx nel suo capitolo dedicato al feticcio, tramite l'esempio del tavolo che in quanto merce diventa preda di capricci metafisici. Tuttavia, in questo caso non si tratta più di un'animazione individuale delle cose, bensì di un'animazione riprodotta in maniera identica nella sempre uguale forma del valore e del prezzo, in cui si manifesta la socialità negativa dell'anima della merce, e la relazione sociale come relazione reificata. Quest'animismo secondario non anima soltanto le cose (la natura) ma per così dire cosifica l'anima (la situazione reale umana).

Nella misura in cui la trascendenza della proiezione viene superata - in quanto tale proiezione ora si presenta immediatamente nelle cose stesse e nelle relazioni terrene - essa non può più essere personalizzata, ma deve presentarsi sotto forma cosificata, "oggettivata", regolando in tal modo, sotto tutti gli aspetti, il processo di produzione sociale, la mediazione sociale. Per meglio dire: essa "è" tale mediazione, ed è per questo che non necessita più di un'istanza trascendente esterna al mondo, né di mediatori-persone come rappresentanti di quest'istanza assoluta; alla fine è essa stessa stabilizzata come assoluta. Il valore, la proiezione del feticcio che si presenta come realmente oggettivo nel denaro, si costituisce come Assoluto terreno, sociale, attraverso il movimento di riaccoppiamento del denaro a sé stesso in quanto capitale, in quanto processo di valorizzazione, o "soggetto automatico" (Marx), al quale viene sottomessa tutta la riproduzione sociale e tutta la comprensione del mondo. Qualsiasi coesistenza colorata di situazioni relazionali naturali, culturali e sociali (relazioni) finisce e viene sostituita dalla pretesa di Assoluto del principio essenziale astratto di unico "valore", e dalla sua sostanzialità negativa.

Ideologicamente o "filosoficamente", come forma di riflessione nel processo, o nel senso di un'apologetica al seguito e fiancheggiatrice, il pensiero di questo meccanismo di proiezione dell'astrazione reale ricorre a determinati contenuti significativi del concetto di sostanza religioso e filosofico pre-moderno, che tuttavia si presentano in una configurazione del tutto nuova, corrispondente alla metafisica reale capitalistica. Al posto della divinità trascendente ed assoluta, viene posto il principio essenziale immanente e assoluto del "valore" o del processo di valorizzazione. Tuttavia, dal momento che si tratta della proiezione di un processo di astrazione socialmente oggettivato, questo principio essenziale - sebbene si presenti immediatamente nelle cose e nelle relazioni, essendo quindi immanente - non può avere ancora un'esistenza materiale e sociale di per sé. In quanto tale continua a non essere palpabile, ad essere "intangibile" o "non empirico", nonostante la sua indubitabile immanenza. In questa misura, la riflessione positiva, apologetica, della metafisica reale capitalistica può fare ricorso al filone "idealista" della metafisica religiosa e filosofica primordiale, soprattutto di origine platonica. L'idealismo trascendente delle forme essenziali di Platone e dei suoi seguaci si presenta ora, nella modernità, come idealità immanente del principio essenziale, particolarmente nell'idealismo tedesco.

Tuttavia c'è qui di nuovo una differenza importante nel concetto di questa idealità. In Platone e nei suoi seguaci, si trattava di idealità trascendente delle forme essenziali nella pluralità; di forme ideali delle diverse cose, che nella materia terrena si presentano solo come "ombre". Sotto questo aspetto, l'idealismo formale di Platone rimane pluralista e, quindi, relativista in quanto al concetto tradizionale di sostanza, del quale è parte integrante. "Al di sopra" dell'idealità del mondo plurale delle forme, tuttavia, si erge ancora la sfera del "puro e semplicemente buono", il grado più elevato ed origine di tutto l'Essere, un tutt'uno, che tuttavia è talmente perso nella sua trascendenza, che non si presenta più come tale nell'immanenza.

L'idealità della forma immanente della modernità, al contrario, ormai non conosce più alcun pluralismo di forme, né, di conseguenza, una qualche corrispondente relatività; la forma del valore, o il "soggetto automatico", non tollera nessun altro dio accanto a sé. L'Assoluto trascendente del tutt'uno ideale è disceso in terra come l'Assoluto immanente del principio essenziale "valore". Proprio come in Platone, le cose empiriche terrene non posseggono un'esistenza indipendente, essendo la mera "espressione" dell'idealità della forma; ma si tratta innanzi tutto, e in primo luogo, di un'idealità della forma già non più trascendente, bensì immanente, la quale si manifesta nella socializzazione del valore e, in secondo luogo, di un'idealità della forma ormai non più plurale, bensì monistica, assoluta, totalitaria. Che essa sia la "la forma pura e semplice" kantiana o lo "spirito del mondo" hegeliano", o la "volontà assoluta", ecc., si tratta sempre di un principio di immanenza della forma totale nella sua ultima istanza determinante, rispetto alla quale tutte le cose e tutte le relazioni devono solo essere "forme di apparenza". Il mondo non è costituito dalla razionalità delle diverse entità, ma semmai, monisticamente, da un tutt'uno terreno della valorizzazione del valore.

Si può riconoscere a prima vista che l'universo-orologio fisico di Newton, con i suoi componenti atomistici unitari ed il suo continuum unitario ed assoluto di spazio tempo, corrisponde con sufficiente precisione a questo idealismo della forma, assoluto e totalitario. L'apparente contraddizione fra "idealismo" della forma e "materialismo" del mondo fisico, scompare, non appena entrambi i costrutti vengono decifrati nel loro contesto storico-sociale. Probabilmente, lo stesso vale già per le vecchie forme incipienti di contraddizione tra l'idealismo platonico della forma ed il materialismo atomistico della sostanza, nella misura un cui la filosofia occidentale dell'antichità ormai rappresenta soltanto una riflessione ancora incompiuta nel contesto della relazione non maturata fra la forma merce e la forma pensiero.

Nella modernità si è completata la complementarietà fra questi due costrutti, i quali dal punto di vista storico-sociale corrispondono alla costituzione della formazione sociale "basata sul valore" (Marx) del capitalismo. L'idealismo formale della filosofia moderna (che nelle teorie positiviste esprime soltanto il suo volgare stato di decadenza) può essere decifrato come il principio essenziale del valore, della forma sociale del feticcio paradossalmente secolarizzata; il sostanziale materialismo della fisica meccanicistica, come mondo naturale modellato ed in un certo modo "gestito" da questo dettato della forma, è un mondo fatto di elementi e "forze" meccaniche uguali, che nella sua condizione fisica e biologica si pretende che venga visto degradato ad una mera "forma di apparenza" dell'astrazione reale sociale. L'ambiente culturale ed il mondo della vita odierni della società capitalista, sempre più unificata su scala planetaria, si avvicinano fantasmaticamente al costrutto newtoniano di un Universo meccanico uniforme; per la biosfera planetaria, così come per la cultura umana nel senso più lato, però, questo significa il successivo annichilimento.

Il concetto filosofico classico di sostanza, nella metafisica reale capitalista della modernità, chiaramente si differenzia soltanto in forma (forma ideale immanente-trascendente o "trascendentale", forma del valore) e contenuto (mondo modellato in modo meccanicistico, fisicamente ridotto). Tuttavia, in questa relazione fra la forma ed il contenuto della sostanza reale metafisica manca ancora l'agente sociale di tutta l'organizzazione della metafisica reale, il momento mediatore del movimento. La relazione fra forma del valore e sostanza naturale meccanicisticamente ridotta non può essere statica, ma può essere solamente un processo dinamico, nel quale la natura in sé non ridotta viene realmente ridotta solo dall'astrazione del valore, attraverso la mediazione sociale, per mezzo di una forza sociale specificamente capitalista, nel "processo di metabolismo con la natura".
Questa forza è essa stessa una sostanza materiale, però non naturale, bensì sociale. La sostanza naturale dell'astrazione reale moderna, in quanto astrazione della forma del principio essenziale di "valore", è la materia fisica astratta e meccanicisticamente ridotta; la sostanza sociale di questo principio della forma della metafisica reale è il "lavoro astratto" (Marx). Il "lavoro", come forma di attività e allo stesso tempo come sostanza del capitale, costituisce la forza sociale-materiale ed il processo solo attraverso il quale può affermarsi nel mondo terreno il principio della forma della metafisica reale, con la sua pretesa negativa e distruttiva di Assoluto. Il movimento mediatore del lavoro astratto è l'auto-mediazione della sostanza ed è, di conseguenza, un fine in sé ed una auto-aggregazione nella forma del valore (che si manifesta nella forma del denaro), ed in quanto "alienazione" permanente della materia naturale e delle relazioni sociali, dalla sua costituzione fino alla rispettiva distruzione, trasforma tutto quello che processa in sé stesso in semplici immagini dell'astrazione reale.

Già qui diventa chiaro che il marxismo tradizionale è rimasto completamente ostaggio della metafisica reale della modernità. Il suo "materialismo" - con l'eterna celebrazione della rispettiva corrente nella storia della filosofia occidentale - non rappresenta più altro che la riflessione affermativa di un lato della relazione di valore, o di capitale; soprattutto il materialismo sostanziale della riduzione fisica, in cui il mondo naturale già non appare più modellato dall'astrazione reale capitalista. E' il materialismo dell'annichilimento che sotto la forma della riproduzione feticista sta lacerando e triturando la biosfera terrestre. Di conseguenza, nel pensiero marxista, il materialismo sostanziale fisico positivo di una natura strutturalmente modellata corrisponde al materialismo sostanziale sociale positivo del "lavoro", che è l'agente di tale modellazione. Questo "materialismo" dell'ontologia del lavoro marxista, e della sua concomitante fede meccanicista nella scienza della natura, è ben lungi dal soppiantare l'idealismo formale della tradizione filosofica apparentemente contraria; a somiglianza di quanto accade nel pensiero borghese, e come suo prolungamento modificato, si comporta in maniera meramente complementare rispetto ad esso.

In questo senso, Hegel non è stato rimesso coi piedi per terra e con la testa per aria, ma i piedi continuano a seguire, sotto il comando della testa, il principio essenziale capitalista della forma ideale. Decifrate socialmente, le relazioni di feticcio in quanto "metafisica reale", sono sempre allo stesso tempo "idealismo reale" - portato in auge dall'idealismo reale capitalista del "soggetto automatico", per la prima volta immanente sotto la forma della valorizzazione del valore - del riaccoppiamento cibernetico dell'astrazione reale del valore con sé stessa. Ironicamente, in questo modo, il materialismo reale del lavoro e quello della scienza della natura capitalista non sono altro che la forma dell'apparenza pratica dell'idealismo reale del valore, e non il contrario. L'astrazione reale del valore rappresenta un'aggregazione o una forma di esistenza della pratica dell'astrazione reale del lavoro e viceversa; proprio per questo il lavoro astratto costituisce il modo in cui il principio sociale non-materiale essenziale, come un fantasma, mette le mani sul mondo materiale.

In questo modo, "l'idealismo oggettivo" di Hegel sotto un certo aspetto arriva più vicino alla cosa di quanto faccia il "materialismo oggettivo" del pensiero marxista; ma Hegel pensa l'idealismo reale capitalista in maniera apologetica, come movimento di auto-mediazione positiva dell'essenza dell'astrazione reale, sfuggendo così per principio alla sua qualità negativa, distruttiva ed annichilatrice della vita. Il materialismo marxista, al contrario, compra un biglietto dalla critica (in gran misura ridotta, non andando oltre l'immanenza) di modo che, da parte sua, gli sfugge il carattere di astrazione reale sociale. In quanto astrazione, il valore/lavoro astratto rimane in un certo qual modo una cosa del pensiero, e quindi un'idealità (negativa). Non si tratta, però, di un'idealità soggettiva, soltanto riflessiva, di un'idealità costituita per mezzo di mere astrazioni nominali (linguistiche e mentali), ma di un'idealità oggettivata dai processi storici, "materializzata" attraverso una pratica compulsiva.

Al fine di arrivare ad una piena critica della sostanzialità negativa della relazione di feticcio capitalistica, non è l'idealismo oggettivo di Hegel che va messo sui piedi, ma semmai è la testa dell'astrazione reale che dev'essere ghigliottinata. Solo questa sarebbe una prassi liberatoria e trascendente, per cui si smetterebbe di modellare compulsivamente il mondo sociale e naturale, ma si distruggerebbe il principio essenziale stesso di una tale prassi distruttiva.

 

Il concetto negativo di sostanza del lavoro astratto nella critica dell'economia politica di Marx

E' un fatto osservato da lunga data che il marxismo del movimento operaio ha continuamente soffocato o relativizzato, ridotto e diluito il concetto della critica dell'economia politica di Marx, fino ad arrivare ad una "economia politica" del tutto positiva, sul terreno acriticamente presupposto della forma moderna del feticcio. E' per questo che nei libri di testo del mondo perduto del "socialismo reale" si è sempre parlato con la più grande serietà di una "economia politica del socialismo", invece di capire e sviluppare il socialismo come critica pratica dell'economia politica in quanto tale. Di conseguenza, nella comprensione del marxismo anche il concetto di Marx della sostanza del lavoro astratto ha finito inevitabilmente per essere rappresentato come del tutto positivo, come mera definizione di un fatto ontologico oggettivo, "determinato da leggi naturali" e non da superare.

Questo ragionamento tuttavia non corrisponde in alcun modo alla forma in cui Marx presenta il concetto di lavoro astratto, fin da pagina 4 del primo volume de "Il Capitale": "

Ma, se astraiamo dal valore d'uso delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro. Eppure anche il prodotto del lavoro si trasforma non appena lo abbiamo in mano. Se noi facciamo astrazione dal suo valore d'uso, facciamo astrazione anche dalle parti costitutive e forme corporee che lo rendono valore d'uso. Non è più tavolo, per esempio, né casa, né filo né altra cosa utile. Tutte le sue qualità sensibili sono cancellate. E non è più nemmeno il prodotto del lavoro del falegname o del muratore o di qualsiasi altro lavoro produttivo determinato. Col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, e le diverse forme concrete che distinguono le differenti specie di lavori. Resta pertanto solo il carattere comune a tutti questi lavori; sono tutti ridotti allo stesso lavoro umano, lavoro umano astratto. Consideriamo ora il residuo dei prodotti del lavoro. Non è rimasto nulla di questi all'infuori di una medesima fantasmatica oggettività, una mera massa di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di lavoro umano senza riguardo alla forma del suo dispendio. Queste cose manifestano ormai soltanto il fatto che nella loro produzione è stata spesa forza lavorativa umana, che in esse è accumulato lavoro umano. Come cristalli di questa sostanza sociale ad esse comune, esse sono considerate valori - valori di merce". (Karl Marx, Il Capitale. Vol.I)

Non si può non osservare che qui il concetto di lavoro astratto non costituisce un'arida definizione positivista, bensì l'inizio della critica concettuale di una realtà francamente negativa. Lo "astrarre dal valore d'uso", di modo che "tutte le (...) qualità sensibili scompaiano" al fine di ottenere una "oggettività fantasmatica", "un mero dispendio di lavoro umano" già significa una tendenza assolutamente distruttiva del mondo sensibile e sociale. Poiché qui si tratta del lato pratico, attivo, si tratta di un'astrazione reale sociale, e non di un'astrazione meramente linguistica, che esprime le cose esistenti nel pensiero, senza che con ciò attinga nella pratica al mondo fisico e sociale. L'astrazione "lavoro" rappresenta qui innanzitutto un riferimento immediato di azione, soprattutto come un apriori della riproduzione sociale con conseguenze imprevedibili.

Marx qui si avvicina ad una critica che egli stesso non ha mai portato fino in fondo. Egli sviluppa (contrariamente alla maggioranza dei marxisti) una critica radicale dell'astrazione reale contenuta nel concetto di lavoro moderno; ma, simultaneamente, rimane ostaggio dell'ontologia protestante ed illuminista del lavoro - così come ha scritto sulle proprie bandiere il movimento operaio - sorta nel medesimo contesto storico della sua teoria. Marx si è così trovato costretto a tentare di separare il principio suppostamente ontologico di "lavoro", l'astrazione così espressa, dall'astrazione reale specificamente capitalista; progetto questo che ha finito in gran misura per perdersi nei suoi seguaci, i quali si accontentarono di adattarsi al concetto di lavoro interamente nell'ontologizzazione trans-storica - con poche eccezioni, che in tal modo spiccano come in special modo riflessive, seppure non siano mai andate oltre la riproduzione dell'aporia di Marx, con il concetto di lavoro considerato come astrazione reale capitalista e allo stesso tempo come principio ontologico.

Marx formula apertamente la sua aporia nei "Grundrisse", da subito, nella sua introduzione, dove parla della definizione del concetto:

"Il lavoro sembra una categoria del tutto semplice. Anche la rappresentazione del lavoro nella sua generalità come lavoro in generale — è molto antica. E tuttavia, considerato in questa semplicità dal punto di vista economico, «lavoro» è una categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che producono questa semplice astrazione. (...) Un enorme progresso lo compì Adam Smith,  rigettando ogni carattere determinato dell’attività produttrice di ricchezza e considerandola lavoro senz’altro: non lavoro manifatturiero, né commerciale, né agricolo, ma tanto l’uno quanto l’altro. Con l’astratta generalità dell’attività produttrice di ricchezza, noi abbiamo ora anche la generalità dell’oggetto definito come ricchezza, e cioè il prodotto in generale o, ancora una volta, lavoro in generale, ma come lavoro passato, oggettivato. (...) L’indifferenza verso un genere determinato di lavoro presuppone una totalità molto sviluppata di generi reali di lavoro, nessuno dei quali domini più sull’insieme. Così, le astrazioni più generali sorgono solo dove si dà il più ricco sviluppo concreto, dove una sola caratteristica appare comune ad un gran numero, ad una totalità di elementi. Allora, esso cessa di poter essere pensato soltanto in una forma particolare. D’altra parte, questa astrazione del lavoro in generale non è soltanto il risultato mentale di una totalità di lavori concreti. L’indifferenza verso il lavoro determinato corrisponde ad una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro ed in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente. Il lavoro qui è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà, il mezzo per creare la ricchezza in generale, e, in quanto determinazione, esso ha cessato di concrescere con gli individui in una dimensione particolare. Un tale stato di cose è sviluppato al massimo nella forma d’esistenza più moderna delle società borghesi, gli Stati Uniti. Qui, dunque, la astrazione della categoria «lavoro», il «lavoro in generale», il lavoro sans phrase, che è il punto di partenza dell’economia moderna, diviene per la prima volta praticamente vera. Così l’astrazione più semplice che l’economia moderna pone al vertice, e che esprime una relazione antichissima ed è valida per tutte le forme di società, in questa astrazione si presenta tuttavia praticamente vera soltanto come categoria della società moderna. (...) L’esempio del lavoro mostra in modo evidente che anche le categorie più astratte, sebbene siano valide — proprio a causa della loro natura astratta — per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di determinato in  questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste condizioni."(Karl Marx, Grundrisse)

Questa riflessione sul concetto di lavoro come categoria sociale è aporetica sotto vari aspetti. Nel senso che, tanto l'astrazione quanto il suo contenuto sociale appaiono, da un lato, come positivi, come "progresso", come una "attività creatrice di ricchezza" generale, come sviluppo di una diversità; e, dall'altro lato, come negativa, come "indifferenza" relativa al contenuto. Alla stessa maniera, il "lavoro" appare, da un lato, come un'astrazione "razionale", come mera designazione generica di un "ricco sviluppo concreto" di attività; dall'altro lato, Marx non tarda a correggersi, richiamando l'attenzione sul fatto che questa corrispondenza non è "solo il risultato mentale di un'attività concreta", ma corrisponde ad una "forma di società" nella quale tale astrazione diventa reale e in tal modo definisce l'azione. Soprattutto, però, Marx da un lato si mantiene fedele alla concezione per cui l'astrazione "lavoro" è un'idea "antichissima" e "valida per tutte le epoche"; dall'altro lato, però, chiarisce simultaneamente che si tratta di "una categoria tanto moderna" quanto "le condizioni che producono tale semplice astrazione", di modo che questa categoria finisce per essere il "prodotto di determinate condizioni storiche", soprattutto di quelle moderne, e che possiede "piena validità soltanto all'interno di tali condizioni".

Quest'argomentazione aporetica può essere risolta soltanto se la categoria "lavoro" viene definita come astrazione reale, e perciò come categoria storica, moderna, capitalista e, per ciò stesso, l'ontologia del lavoro viene del tutto abbandonata. Se Marx designa disinvoltamente quest'astrazione (probabilmente nel senso di una mera astrazione nominale) come "antichissima", questa designazione ovviamente non si basa su nessuna ricerca storica. In realtà, in molte società della storia, fra le altre anche le cosiddette culture superiori come l'antico Egitto, neppure esisteva una categoria di attività generale ed astratta. Perfino nelle società dove sembrava esistere un simile concetto generico nominale (anche se non c'era nessuna astrazione reale), si trattava di aree di attività molto limitate, e mai di una generalità sociale di "attività in generale". Se qui nell'interpretazione moderna si parla sempre di "lavoro", questo è ingannevole, un anacronismo e fondamentalmente un errore di traduzione (cosa che del resto si applica anche ad altre categorie specificamente moderne ed associate alla relazione di feticcio della valorizzazione del valore, come la politica, o lo Stato, ecc.).

Nella misura in cui l'astrazione "lavoro" è stata adottata come concetto dalla società moderna a partire dall'area linguistica indo-europea, essa dev'essere oggetto di una completa ridefinizione; gli è che in queste lingue il "lavoro" designa sempre l'attività specifica degli schiavi, dei dipendenti, dei minori, ecc.; non si tratta, quindi, di un concetto generico mentale per diverse aree di attività, ma di un'astrazione sociale (ed in questa misura anche di un'astrazione reale, in questo senso specificamente premoderno), però, proprio per questo non si tratta di una generalità sociale, né di una categoria di sintesi sociale, come avviene nella modernità.

L'aporia di Marx rimane uguale a sé stessa anche nell'analisi de "Il Capitale", quando Marx fornisce le definizioni di "lavoro astratto" e di "lavoro concreto". A rigore, la definizione "lavoro astratto" rappresenta un pleonasmo logico (come, per esempio, "cavallo-bianco bianco"), dal momento che l'attributo è di già contenuto nello stesso concetto; gli è che, di fatto, il "lavoro" è già un'astrazione. All'inverso, il concetto "lavoro concreto" rappresenta una contraddizione in termini (come, per esempio, "cavallo-bianco nero"), giacché l'attributo è in contraddizione con il concetto; come astrazione (anche concettualmente, nascendo solo sul terreno di un'astrazione reale sociale) il "lavoro" non può essere di per sé concreto", nel senso di una attività determinata.

Si può dire che queste definizioni di Marx riflettono il paradosso reale della relazione del capitale e della sua socializzazione del valore, giacché quello che è in sé concreto, la diversità del mondo, viene di fatto ("realmente") ridotto ad un'astrazione, ed in questo modo la relazione fra il generale ed il particolare viene messa coi piedi per aria. Il generale non è più una manifestazione del particolare ma, al contrario, il particolare è ormai una manifestazione della generalità totalitaria; anche il concreto, così, non rappresenta già più la diversità strutturata del particolare, ma non "è" altro che la "espressione" della generalità realmente astratta, della "sostanza" universale.

Senza dubbio, Marx non ha piena coscienza di quello che veramente qui è da riflettere, considerato che si attiene ad un momento ontologico e trans-storico dell'astrazione "lavoro". In questo modo tenta di fondare tutto questo nel concetto di valore d'uso: "Come creatore dei valori d'uso, come lavoro utile, il lavoro è... una condizione esistenziale dell'Uomo, indipendente da tutte le forme della società, una necessità naturale eterna per mediare il metabolismo fra l'Uomo e la natura, ossia, la vita umana" (Il Capitale, vol. I). Il concetto di "utilità per determinate necessità", tuttavia, non è in alcun modo una categoria della sintesi sociale, e perciò non può essere semplicemente equiparata a quella del "valore d'uso", come fa sempre Marx. La categoria valore d'uso si riferisce soltanto ad un'utilità astratta (una definizione realmente paradossale) e in questa misura essa stessa è parte integrante dell'astrazione reale moderna; non è un concetto dal punto di vista delle necessità, ma un concetto di rappresentazione della mediazione della forma valore (il valore d'uso di una merce in quanto forma equivalente esprime soltanto il valore di scambio di un'altra merce).

Il valore d'uso come designazione ha senso soltanto nella mediazione con il valore di scambio, in quanto polarità della relazione di valore, e perciò non è affatto "una condizione esistenziale dell'Uomo, indipendente da tutte le forme della società". Nella misura in cui il "lavoro" stabilisce "il valore d'uso", non si tratta di una definizione ontologica-trans-storica per l'astrazione del valore, ma niente più che un modo specifico di come l'astrazione reale prende possesso dell'oggetto, che in sé non ha niente di astratto. Quello che Marx designa paradossalmente come "lavoro concreto" non costituisce per questo una "necessità naturale eterna"; al contrario, non è altro che il modo materiale specifico con cui il "lavoro astratto" si appropria della "materia" naturale o sociale. Una volta che questo è stato chiarito, possiamo continuare ad usare i concetti di Marx, così come sono, tuttavia con una comprensione cambiata.

Devo anticipare a questo punto un'argomentazione che soltanto più tardi verrà sviluppata più dettagliatamente. Riguarda il carattere materiale della sostanza del lavoro astratto, che com'è noto è stata formulata da Marx come "dispendio di nervi, muscoli e cervello", indipendentemente dal modo concreto di un tale dispendio, sia sotto forma di lavoro di falegnameria o di tessitura, ecc.. I rappresentanti di una determinata linea neomarxista di dibattito (oggi spesso di colorazione postmoderna) sono orgogliosi di parlare qui peggiorativamente di un falso "sostanzialismo" ovvero di un "naturalismo" fisiologico dello stesso Marx e dei marxisti tradizionali, dal momento che proprio per via di questa "naturalizzazione", il lavoro astratto viene trasformato in una realtà trans-storica ed ontologica, giacché gli esseri umano devono sempre spendere "nervi, muscoli e cervello". Per inciso, anche Moishe Postone aderisce a tale opinione, infelicemente (Moishe Postone, ivi, pag 224 ss.). Ora, è vero che il marxismo tradizionale ontologizza il lavoro astratto, come pretenderemo di dimostrare più in dettaglio nel prossimo capitolo. Nonostante questo, la critica del "sostanzialismo" che abbiamo finito di abbozzare parte da presupposti totalmente errati. Ossia, per essa si tratta assai meno di chiarire il concetto di sostanza e di lavoro, che del rifiuto di una teoria della crisi sostanziale, che argomenta per mezzo della diminuzione storica della sostanza del lavoro in quanto sostanza del valore del capitale (desustanzializzazione). In questo senso, il lavoro astratto viene visto come una relazione quantitativa, come concetto di sostanza in senso quantitativo. Gli è che, perché qualcosa possa essere aumentata o diminuita, questo qualcosa dev'essere sostanzialmente reale in senso materiale e di contenuti; una mera forma, come sostanza non può rappresentare una relazione quantitativa. Per questo la critica del carattere della sostanza materiale del lavoro astratto serve a rifiutare la teoria della crisi sostanziale, ed anche per nascondere l'esistenza di un limite interno assoluto del processo di valorizzazione; la crisi viene allora ridotta alla superficie del mercato - come "errore di regolazione" del meccanismo del mercato che potrebbe essere regolato attraverso mezzi politici - oppure scompare completamente dal dibattito teorico fondamentale.

Poiché questa argomentazione contro il "sostanzialismo" si inscrive innanzitutto nell'ambito della teoria della quantità e della crisi del lavoro astratto, essa viene trattata esaustivamente soltanto nella seconda parte del presente saggio. Qui bisogna fare un riferimento preliminare al concetto qualitativo negativo del lavoro astratto che in questo ha un ruolo. I neomarxisti anti-sostanzialisti apparentemente riflettono fino a regredire a retroguardia del marxismo tradizionale, una volta che sfugge loro qualcosa di essenziale, Gli è che Marx non parla di dispendio fisiologico di nervi, muscoli e cervello nel senso immediatamente naturalista o trans-storico. Poiché il dispendio fisiologico di energia umana, in termini puramente "naturali", non può essere separato dalla forma concreta di un tale dispendio. Ma, è proprio questo che avviene socialmente nell'astrazione del lavoro. E questo astrarre dalla forma concreta del dispendio non è né razionale né trans-storico. Se, per esempio, dicessimo ad un antico egizio che sta pescando, che non stava semplicemente catturando un pesce, ma che sta spendendo "nervi, muscoli e cervello" in senso astratto, egli avrebbe tutte le ragioni per dubitare della nostra sanità mentale. Una tale affermazione ha senso solo nel contesto dell'astrazione reale moderna.

Tuttavia, la sostanza astratta del lavoro non cessa di contenere un qualche contenuto materiale o "fisico" (poiché un dispendio di nervi, muscoli e cervello senza contenuto, semplicemente non è possibile), sebbene non si tratti di una sostanza naturale immediata, bensì di una sostanza sociale in quanto astrazione. Si tratta di uno dei lati della materializzazione dell'idealità della forma feticistica (l'altro lato sarebbe la stessa materia naturale modellata in maniera riduttiva), nella misura in cui, sotto il dettato di questa idealità di forma negativa, in un determinato riferimento sociale, si astrae, non solo concettualmente, ma anche praticamente, dalla forma concreta del dispendio (che naturalmente non smette di accadere), stabilendo come essenziale solo questo medesimo dispendio in quanto tale, indipendentemente dalla sua determinazione concreta.

Nell'astrazione come astrazione reale, rimane quindi come residuo un contenuto ben materiale, in particolare il dispendio di "energia umana in generale". Per il "soggetto automatico" del processo di valorizzazione non ha nessuna importanza se vengono prodotte pantaloni o bombe a mano; è essenziale solo che nell'atto avvengano processi di combustione fisica umana (dispendio di energia) che possano essere rappresentati come un quantum di valore; un procedimento in sé assolutamente assurdo. Tuttavia, questi processi di combustione avvengono realmente; quello che è assurdo è solo il fatto che vengano trattati e "rappresentati" indipendentemente dalla loro forma concreta, e di conseguenza indipendentemente dal loro obiettivo materiale e di contenuto; il che avviene perché l'obiettivo sociale è proprio questa "rappresentazione" feticista. La riduzione al processo di combustione fisica è un'astrazione sociale, ma non per questo è una mera cosa del pensiero (come, per esempio, un concetto generico nominale), ma si riferisce ad un momento ben reale, ed è anche per questo un'astrazione reale.

La "rappresentazione" è un processo essenziale di quello che Marx ha designato come feticismo della forma merce. Non si tratta solo del fatto che il quantum di energia umana spesa non può essere separato dalla forma concreta di questo dispendio stesso; non appena i prodotti si ritrovano prodotti, essa appartiene ormai al passato e non è più tangibile, e perciò evidentemente non è "contenuta" nei prodotti in senso naturale o fisico. La "rappresentazione" come processo fisico, in questa misura avviene soltanto nelle teste dei soggetti sociali così costituiti, in particolare come percezione e "trattamento" pratico feticizzato della sua stessa socialità. Anche così, tale "rappresentazione" si riferisce a qualcosa che di fatto non avviene solo nelle teste dei soggetti, come forma di percezione e di azione, ma che è una realtà fisica, ossia, processi di combustione passati avvenuti in corpi umani, dispendio di unità energetiche.

Poiché il quantum di energia consumata nel processo del suo dispendio non può essere realmente separato dalla forma, o determinazione concreta, di tale dispendio, e poiché, trattandosi di un dispendio definitivamente passato, che non può essere letteralmente "contenuto" negli oggetti, la forma sociale della rappresentazione è di fatto, sotto questo aspetto, irreale in senso duplice. Anche così, questo quantum di energia dev'essere speso realmente nel passato, di modo che, sotto l'altro aspetto, rappresenti una sostanza fisica reale (sebbene "rappresentata" in maniera paradossale). La forma di rappresentazione di questa sostanza reale, però, in sé no ha niente di fisico, essendo innanzitutto un'astrazione reale, un modo di percezione e di azione socialmente costituito, in cui le sostanze naturali ed i beni prodotti sono realmente trattati come se fossero oggetti fisici di pura rappresentazione dei processi di combustione passati nei corpi umani.

Il lavoro astratto è perciò un determinato stato di aggregazione dell'idealità della forma feticista moderna, che tuttavia non smette di riferirsi ad un quantum energetico di forza lavoro realmente spesa, ossia, ad un contenuto materiale quantificabile (non in relazione alla merce individuale, ma alla media sociale delle merci). Questo contenuto, tuttavia, in quanto astrazione è "fantasmatico", non solo in quanto risultato dell'oggettività del valore, ma già nel processo stesso del dispendio, ossia, in termini pratici, come definizione di una massa di dispendio di nervi, muscoli e cervello separata dalla sua forma materiale. Si procede a determinate trasformazioni di materiali naturali, sulla base di una determinazione essenzialmente aprioristica, nelle quali vengono spese quanta di energia umana astratta indipendentemente dalla forma concreta del suo dispendio - tale determinazione è sostanziale in un senso materiale, che non è un senso naturale, ma sociale, e che non è trans-storico, ma storicamente specifico della costituzione del feticcio moderno.

Add comment

Submit