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La vita delle scienze
Giancarlo Cinini* intervista Bruno Latour**
I filosofi sono sul sentiero di guerra”, c’è scritto sulla maglietta che indossa Bruno Latour. Come sia fatto questo sentiero di guerra è la domanda che non gli abbiamo fatto, ma ci viene da pensare a quei percorsi che un tempo, tra il ’15 e il ’18, si inerpicavano sopra i monti dell’Adamello e dell’Ortles e sui quali si confondevano i soldati, le nevi, le ferrate, la roccia e le pallottole: l’antropologo francese il suo sentiero filosofico l’ha percorso proprio dove i segni della natura e della cultura si sono sempre mescolati. Si è occupato soprattutto delle pratiche con le quali gli occidentali costruiscono la conoscenza su ciò che chiamano oggetti della natura, indagando come un etnografo i modi e i miti del fare scienza.
È l’autore della Actor-network theory, la teoria secondo cui ogni fatto sociale e ogni oggetto scientifico è il prodotto di un’intricata rete di relazioni e alleanze, tra umani e non-umani. Ha cominciato nel 1979, con Laboratory Life, studiando una particolare tribù del mondo occidentale: i neuroendocrinologi del Salk Laboratory di La Jolla, in California. La ricerca etnologica fu condotta a quattro mani con il sociologo Steve Woolgar e mirava a ricostruire i protocolli di ricerca, le tecniche di misura, gli strumenti, i miti dei ricercatori, che si mescolavano agli oggetti studiati.
Dieci anni dopo scriverà il suo primo saggio teorico, un’introduzione alla sociologia della scienza: La scienza in azione (1987), dove propose di “aprire la ‘scatola nera’ di Pandora” e di entrare nelle pratiche della tecnoscienza, un calderone fatto di laboratori, istituzioni e peer-review di riviste internazionali. Si è occupato del caso di Louis Pasteur in Microbi – Un trattato scientifico-politico (1984). Il grande scienziato Pasteur, racconta Latour, è un uomo abile, capace di spostarsi dai problemi dell’igiene pubblica alla fermentazione delle birre industriali, dalle malattie negli allevamenti alla pastorizzazione; Latour ne descrive il gioco di alleanze dentro e fuori le scienze, il modo in cui Pasteur trova ogni volta nuovi alleati, microbi, politici, allevatori, urbanisti preoccupati per l’igiene della città, produttori di birra.
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Il virus letale della condivisione
Benedetto Vecchi
Parassiti che si nutrono delle relazioni sociali e si appropriano dei profili personali. Occhi puntati sulla sharing economy e sull’industria dei Big Data. «Silicon Valley: i signori del silicio» di Evgeny Morozov per Codice edizioni. Sempre dagli Stati Uniti arriva il saggio del teorico Trebor Scholtz "Platform Cooperativism", dove viene proposta la strategia di mettere in Rete le cooperative di produzione e di servizi attraverso l'uso di piattaforme digitali aperte
Sharing economy è una espressione che si è fatta largo tra la selva delle definizioni che caratterizzano il capitalismo che ha nella Rete il suo medium. Segue quella dal sapido sapore controculturale della peer to peer production, che metteva l’accento sulla condivisione alla pari di conoscenze e mezzi di produzione nella quale Internet è una neutra piattaforma per determinate attività economiche separate tuttavia da quanto accade al di fuori dello schermo. Soltanto che il confine tra dentro e fuori la Rete è svanito. La logica della condivisione, infatti, è ormai riferita ad attività produttive, di informazione, conoscenza, software. Coinvolge infatti ogni attività di intermediazione tra produzione e consumo. Inoltre la sharing economy non prevede un rapporto alla pari, bensì una relazione mercantile, dove l’attività di intermediazione prevede un pagamento di una percentuale tra produttore e consumatore. Non è un caso che i nomi usati per esemplificare la sharing economy sono Uber e Airbnb, cioè servizi di taxi e di affitto di una stanza o di un appartamento per viaggi di lavoro o di piacere. Il tutto accompagnato da una melassa ideologica sul potere del consumatore di poter scegliere il miglior prodotto a prezzi accessibili e sulla possibilità di vedere realizzati il proposito neoliberista di trasformare ogni uomo o donna in imprenditore di se stesso.
In nome del municipalismo
Sarebbe un errore ridurre la sharing economy a mera ideologia, perché individua una forma specifica di organizzare tanto la produzione che la distribuzione o il consumo di merci, poco importa se tangibili o «immateriali».
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Nel laboratorio dell’Europa postmoderna
di Luigi Pandolfi
A pensarci bene, questa Europa costituisce il compimento del post-moderno in ambito politico-istituzionale ed economico. Letteralmente, di ciò che “viene dopo”. Ma “dopo” che cosa? Non c’è dubbio: “dopo” la stagione in cui lo Stato ha tentato di “contenere” e governare il capitalismo, di addomesticarne le crisi ed influenzarne le scelte, mediante la “politica economica”, la programmazione, l’intervento pubblico in economia. D’altro canto, per tutto il secolo XIX e parte degli anni venti, per dirla con James K. Galbraith, «il grande problema del capitalismo era stato la crescente gravità dei cicli economici, tra rapide espansioni e dure recessioni»[1], alle quali, salvando il capitalismo stesso, si era reagito, per l’appunto, con l’interventismo pubblico ed il welfare state. In ambito teorico, parliamo, più semplicemente, del salto di qualità dall’analisi di ciò che è (economia politica) all’elaborazione di ciò che deve essere (politica economica)[2].
La politica economica, com’è noto, si basa sulle relazioni tra variabili, “variabili-strumentali” e “variabili-obiettivo”[3]. Le prime rappresentano i mezzi attraverso i quali gli “agenti della politica economica” mirano al raggiungimento dei propri scopi, che coincidono, evidentemente, con le seconde variabili, quelle “obiettivo”. Agenti-strumenti-obiettivi: questa, quindi, la triangolazione alla base di qualsiasi modello di strategia economica. Ma chi sono gli “agenti di politica economica”? Beh, non potrebbero che essere gli Stati attraverso i loro governi, a loro volta legati al parlamento (o direttamente al corpo elettorale) da un vincolo di tipo fiduciario. Nondimeno, nella storia economica contemporanea, con la crisi del ’29 che ha segnato una nuova svolta in tal senso, l'azione degli Stati in ambito economico non si è mai dispiegata isolatamente, bensì “in concorso” con le banche centrali, autorità monetarie nazionali, “strumentalmente” legate al potere politico.
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Fine dell'Euro: Guida alla Sopravvivenza
di Peter Boone e Simon Johnson
Nel loro Blog The Baseline Scenario Simon Johnson e Peter Boone sostengono che l'uscita della Grecia farà crollare l'eurozona, e qui spiegano come secondo loro accadrà
Per capire perché, prima spogliatevi delle vostre illusioni. La crisi Europea fino ad oggi è stata una serie di presunti "decisivi" punti di svolta, ciascuno dei quali si è rivelato essere solo un altro passo giù verso il burrone. Le prossime elezioni del 17 giugno in Grecia sono un altro momento del genere. Benché le forze cosiddette "pro-bailout" possano prevalere in termini di seggi parlamentari, una qualche forma di nuova moneta presto invaderà le strade di Atene. E' già quasi impossibile salvare l'appartenenza della Grecia alla zona euro: i depositi fuggono dalle banche, i contribuenti ritardano i pagamenti delle imposte, e le aziende posticipano il pagamento dei loro fornitori - sia perché non possono pagare sia perché si aspettano che presto potranno pagare in dracme a buon mercato.
La troika della Commissione Europea (CE), Banca Centrale Europea (BCE), e Fondo Monetario Internazionale (FMI), non si è dimostrata in grado di riportare la Grecia in una prospettiva di ripresa, e qualsiasi nuovo programma di prestiti incontrerà le stesse difficoltà. Con un'evidente frustrazione, il capo del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, ha osservato la scorsa settimana, "Per quanto riguarda Atene, penso anche a tutte quelle persone che cercano continuamente di sfuggire al carico fiscale."
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‘Roma, la città che vogliamo’
Alba Vastano intervista Paolo Berdini, candidato sindaco Roma capitale
“In questi mesi deve partire un’azione di coinvolgimento delle migliori esperienze delle periferie, di tutte le vertenze aperte. Mi auguro che in tempi brevi in ogni municipio si formino comitati guidati dai giovani che in questi anni hanno combattuto contro le speculazioni per un’idea di città inclusiva. Se ci riusciamo, avremo fatto un grande passo avanti. Saremmo in grado di proporre concretamente alla città intera che esiste un’alternativa ai furbetti che utilizzano sempre il trucco del voto utile…Al governo di Roma si affermerà, dunque, chi saprà dare un speranza a questa città ripiegata su se stessa. Ѐ una sfida che dobbiamo saper cogliere” (Paolo Berdini).
Città nel buio, esercizi pubblici che si aprano e si chiudono a intermittenza, strade spente. Gente mascherata e isolata, tampinata da un virus balordo a caccia di respiri. Ѐ la pandemia. Ci tocca viverla fino in fondo. Anche Roma, come le altre città del mondo, è spenta. Non da mesi, da anni. Non è solo a causa della pandemia. La città è spenta da molto tempo. Dai tempi che si sono susseguiti dopo la giunta Petroselli e Nicolini. Da quando di mano in mano, di giunta in giunta, da sindaco a sindaco, da assessore ad assessore sono state rimpallate le responsabilità per ripristinare un welfare a misura di cittadino, a misura di una città fantastica che tutto il pianeta, per la storia, per l’arte, per la cultura conosce e ama.
La città è stata abbandonata e vive un degrado urbanistico spaventoso. Come riportarla agli antichi splendori, pensando all’era post pandemia? L’occasione potrebbero essere, presumibilmente, le prossime amministrative del mese di giugno del 2021, con una svolta eccezionale sulla scelta del nuovo primo cittadino e sulla sua futura giunta.
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Come ho imparato a non preoccuparmi dei minibot
di Massimo D'Antoni
È chiaro che la proposta dei minibot, che larga eco ha avuto in tutto il continente, ha a che vedere con la questione della posizione dell’Italia nell’euro, ma per affrontare il tema cerchiamo innanzi tutto di capire di che si tratta dal punto di vista economico e della finanza pubblica, perché non sempre le opinioni di commentatori più o meno esperti sono state precise e complete a riguardo. Ricapitoliamo dunque. Tra i crediti che i privati possono vantare verso la Pubblica Amministrazione figurano anche i cosiddetti crediti commerciali, che corrispondono a pagamenti non ancora effettuati, e spesso effettuati con molto ritardo, per prestazioni e fornitura allo Stato o (specialmente) agli Enti locali. Per la P.A. sono passività, cioè debiti, e il loro ammontare, non facile da determinare, è stimato tra i 50 e i 60 miliardi. La necessità di ridurre l’ammontare di tali debiti è riconducibile sia al rispetto della normativa comunitaria (l’Italia è stata deferita dalla Commissione alla Corte di giustizia della UE per i suoi ritardi sistematici), sia al fatto che pagamenti più regolari avrebbero effetti positivi sull’attività economica e sull’occupazione.
Partiamo dalla mozione approvata in Parlamento la scorsa settimana.Essa impegna il governo ad accelerare i pagamenti, prevedendo modalità quali la compensazione tra debiti e crediti nonché, qui il punto che ha suscitato tanto scalpore, “attraverso strumenti quali titoli di Stato di piccolo taglio”.
Potremmo descrivere l’idea nel seguente modo: invece di reperire le risorse necessarie sui mercati finanziari con l’emissione di titoli, i titoli verrebbero offerti direttamente ai creditori, su base volontaria (la “base volontaria” non è specificata nella mozione ma è stata ribadita più volta in sede di dibattito precedente il voto). Il creditore potrebbe accettare il titolo, in alternativa all’attesa del pagamento, perché disporrebbe di uno strumento più facilmente liquidabile, presso una banca o sul mercato finanziario.
La prima obiezione sollevata a questa soluzione è che essa determinerebbe un aumento del debito pubblico. È bene chiarire dunque alcuni aspetti della questione dal punto di vista della finanza pubblica. I crediti commerciali sono l’effetto di spese già impegnate dalla pubblica amministrazione, e quindi già contabilizzate in bilancio (e quindi già conteggiate ai fini del deficit di bilancio), ma per le quali le risorse di cassa necessarie alla liquidazione non sono state ancora reperite.
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Perché ci odiano?
Culture neocoloniali e deindustrializzazione nel ventre molle dell’Europa
di Militant
Dopo gli attentati di Parigi dello scorso 13 novembre da più parti ci si è chiesti: perché ci odiano? Questa volta le risposte, almeno quelle presenti nell’informazione generalista – che però è quella che forma l’opinione pubblica e di conseguenza le risposte politiche che a loro volta formano l’opinione pubblica in un loop senza fine – hanno tentato la carta psicologica. I terroristi altro non sarebbero che “scarti sociali” con “un livello medio-basso di cultura, una famiglia molto solida ed unita alle spalle e la pericolosa tendenza al fanatismo religioso. In tutti i terroristi si è sempre osservato che più si chiudevano ed isolavano rispetto alla società più diminuiva il loro senso di realtà, alimentando così dichiarazioni sempre più farneticanti da rendere quindi ogni loro “delirio” come giusto e possibile. In tutti i terroristi si è anche sempre osservato che la molla che li ha spinti ad agire è sempre l’odio” (qui). La scelta terrorista sarebbe la conseguenza di un’esistenza alienata e marginale che trova nell’idea forte del radicalismo islamico una prospettiva altrimenti impossibile e con internet lo strumento di relazione della propria patologia. Di tutte le risposte che i policy makers occidentali potevano escogitare questa è davvero la più incredibile. Non che ci credano essi stessi (se il capitalismo fosse così stupido sarebbe seppellito da un pezzo tra le bizzarrie della storia), ma essendo la più veicolata diviene quella socialmente più accettata, dando vita ad un processo di de-responsabilizzazione complessivo delle società occidentali. Corollario alla risposta psicologica è la richiesta di una “psicologia dell’antiterrorismo”, che miri a prevenire psichiatricamente la patologia del terrorista. Purtroppo, a queste cose l’opinione pubblica ci crede davvero.
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Draghi e l’oracolo svelato
Antonio Lettieri
Il presidente della Bce ha realizzato tutto ciò che la politica monetaria può contro la crisi. Che – ha avvertito – non basta: serve anche la politica fiscale (ma non ha spazi) e più ancora le “riforme strutturali”, soprattutto la deregolazione del lavoro. L’ennesima riaffermazione di una linea economica fallimentare ma che cerca di distruggere il modello sociale europeo
La crisi finanziaria culminata negli Stati Uniti nell’autunno del 2008 col collasso della Lehman Brothers fu immediatamente paragonata a quella del 1929. Una rievocazione che generò un grande allarme a livello globale. Quale giudizio sulla crisi possiamo formulare a sei anni di distanza? Vi sono quattro punti che possono dare un senso al confronto.
1. Il primo riguarda il tracollo del sistema bancario che, in entrambe le crisi, ha fatto da innesco alla più generale crisi economica. Qui sta una prima rilevante differenza. La crisi bancaria dell’autunno del 1929 si aggravò irreparabilmente nei mesi e negli anni successivi. Erano già trascorsi più di tre anni, quando Franklin D. Roosevelt, giunto alla presidenza, di fronte al panico di massa, che creava lunghe file di risparmiatori di fronte agli sportelli delle banche, diventate icone memorabili della Grande Depressione, decise la chiusura temporanea di tutte le banche, mentre l’amministrazione si accingeva ad assumere iniziative straordinarie di riforma.
Per fortuna si tratta di scene consegnate alla storia. Profondamente diverso è stato il corso della crisi dei nostri giorni. La crisi bancaria americana dell’autunno nero del 2008 non è durata anni, ma un numero limitato di mesi. Nell’estate del 2009, dopo aver eseguito il primo stress test del dopo-crisi, Tim Geithner, ex presidente della Federal Reserve di New York, nominato da Barack Obama ministro del Tesoro, annunciò la fine dell’allarme rosso. Il salvataggio delle grandi banche americane era cosa fatta.
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Scuola di guerra, offre lo Stato
di Mariavittoria Orsolato
Mentre la scuola pubblica letteralmente affoga nei tagli imposti dalla riforma Gelmini e dalle manovre economiche di Tremonti, il Governo pensa a potenziare le “istituzioni alternative” deputate alla formazione dei giovani. Se da un lato si continua a rimpinzare di finanziamenti le scuole cattoliche - la sola città di Verona ha appena stanziato 300.000 euro per i suoi istituti paritari - dall’altro una legge a firma congiunta mira ad istituire un fondo per organizzare corsi di formazione delle Forze Armate per i giovani.
Le firme su quella che è già stata ribattezzata la ”legge balilla” sono del ministro della Difesa La Russa, della giovane ministra dei Giovani Giorgia Meloni e del ministro del Tesoro Tremonti che, nonostante pianga miseria in sede di bilancio, ha dato il via libera a 20 milioni di Euro, necessari alle attività per i primi tre anni di sperimentazione.
L’idea alla base del provvedimento è quella di invogliare i ragazzi e le ragazze a preferire una sicura carriera militare all’inevitabile precariato post-laurea o post-diploma: i ragazzi verrebbero invitati per un soggiorno di tre settimane all’interno delle caserme dell’Arma, dove seguirebbero la routine e i costumi del reggimento e verrebbero di conseguenza edotti sulle meraviglie dell’essere soldato nell’era delle guerre globali. Che sì sono guerre, ma almeno ti fanno vedere il mondo.
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Cybercom
Per l'evoluzione del marxismo
di Marcello Olivieri
Introduzione alla terza edizione
Il presente progetto di ricerca sull'aggiornamento del paradigma del materialismo storico nasce a metà degli anni '90. La prima edizione di Cybercom. Per l'evoluzione del marxismo risale al luglio 2007. Si trattava di un pamphlet a tesi piuttosto breve, grezzo e incompleto come le severe quanto preziose critiche e osservazioni dei lettori mi fecero notare. La consapevolezza delle loro ragioni mi indusse a pubblicare una seconda edizione rivista e ampliata un anno e mezzo dopo. Il risultato fu più che confortante: alle voci cybercomunismo e sociologia della creatività il motore di ricerca Google classificava il sito al primo posto su un totale rispettivamente di 10.300 e risultati al 31 luglio 2011. Posizione occupata dal gennaio 2010 fino a tutto il 2013. All'epoca, i risultati precedenti la pubblicazione del libro erano di circa 7.000 e 230.000. Segno evidente che le integrazioni avevano suscitato un crescente interesse.
Le ulteriori critiche e suggerimenti e gli eventi occorsi da allora hanno prodotto questa terza edizione, cresciuta dalle duecento pagine della prima a oltre quattrocento. L’impianto teorico originale è rimasto invariato, ma sono stati aggiunti i mancanti ampliamenti e le necessarie precisazioni, ulteriori schemi sintetici e molti dati empirici che spero contribuiscano a chiarire in modo più esaustivo le tesi.
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Lombardia e Veneto: referendum inutile? No, utilissimo…a loro!
di Pierluigia Iannuzzi
Tutti i partiti maggiori voteranno e spingono a votare “si” ma certa sinistra si ostina a predicare l’inutilità del referendum autonomista e l’astensionismo. Ma siamo davvero sicuri che sia così?
Chi non è leghista o grillino o piddino si trova oggi nella condizione (facile e comoda!) di sostenere che snobbare il referendum astenendosi sia il modo migliore per non legittimare un referendum consultivo inutile. I sostenitori dell’astensione ritengono il referendum inutile perché consultivo e ritengono la partecipazione con un NO dannosa perché la sconfitta del NO sarebbe inevitabile e legittimerebbe l’inesorabile vittoria del SI. Ma davvero possiamo pensare che tutti i partiti più forti in Italia e Lombardia abbiano deciso di sostenere un referendum se questo fosse davvero inutile? Davvero possiamo accontentarci di considerare tali partiti così sciocchi? Scusate, cari compagni (perché gli astensionisti sono spesso cari compagni!), ma non è credibile questa posizione. Credo invece che le valutazioni fatte dalle segreterie di tali partiti siano purtroppo opportunistiche. Assumersi la responsabilità di dire NO significherebbe confrontarsi con una bruciante ed inevitabile sconfitta determinata dalle diverse forze in campo in questa difficile fase storica. Ma la pochezza delle forze comuniste dipende, a sua volta, da anni di opportunismo elettorale e istituzionale che hanno determinato uno scollamento dalla classe di riferimento e, quindi, se consideriamo da leninisti la classe come l’elemento più avanzato, dalla possibilità di uno scientifico approccio alla realtà.
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Sta per arrivare la morte del dollaro
di Robert Fisk
Quasi a simboleggiare il nuovo ordine mondiale, gli Stati arabi hanno avviato trattative segrete con Cina, Russia e Francia per smettere di usare la valuta americana per le transazioni petrolifere.
Mettendo in atto la piu’ radicale trasformazione finanziaria della recente storia del Medio Oriente gli Stati arabi stanno pensando – insieme a Cina, Russia, Giappone e Francia – di abbandonare il dollaro come valuta per il pagamento del petrolio adottando al suo posto un paniere di valute tra cui lo yen giapponese, lo yuan cinese, l’euro, l’oro e una nuova moneta unica prevista per i Paesi aderenti al Consiglio per la cooperazione del Golfo, tra cui Arabia Saudita, Abu Dhabi, Kuwait e Qatar.
Incontri segreti hanno gia’ avuto luogo tra i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali della Russia, della Cina, del Giappone e del Brasile per mettere a punto il progetto che avra’ come conseguenza il fatto che il prezzo del greggio non sara’ piu’ espresso in dollari.
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Tedeschi sotto & russi fuori
di Diana Johnstone*
Lo scopo della NATO: “Tenere gli americani
dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto”
(frase attribuita a Lord Hastings Ismay, segretario
generale della NATO 1952-1957)
«Divide et impera» è la regola eterna dell'Impero
Soprattutto, non permettere ai ragazzi più grossi di far comunella. Cerca piuttosto che si azzuffino tra loro fino a prendersi per la gola l'uno contro l'altro. Mezzo secolo fa, bloccato nell'impossibilità di vincere la guerra del Vietnam, il Presidente Richard M. Nixon ascoltò il consiglio di Kissinger che lo esortava ad un'apertura delle relazioni con Pechino al fine di approfondire le divisioni tra Unione Sovietica e Cina.
Ma ora chi sono i ragazzi più grossi e da quando lo sono? Evidentemente le priorità sono cambiate. Otto anni fa, uno dei più influenti analisti geostrategici americani, George Friedman, definì quale fosse l'attuale principale priorità del divide et impera, quella che ora troviamo all'opera in Ucraina.
“L'interesse primario degli Stati Uniti è la relazione tra Germania e Russia, perché insieme rappresentano la sola forza che ci può minacciare,” spiegava Friedman.
L'interesse principale della Russia è sempre stato quello di avere una zona cuscinetto di paesi neutrali nell'Europa dell'Est. Lo scopo degli Stati Uniti invece è di costruire un cordon sanitaire di stati che le siano ostili, dal Baltico al Mar Nero, a far da barriera di separazione definitiva tra Russia e Germania.
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La natura sociale dell’Unione Europea*
di Ernesto Screpanti
Il secondo appuntamento del Maggio filosofico 2019 è per Giovedì 16 maggio alle ore 21:00, presso la Biblioteca comunale Don Milani di Rastignano e ha per oggetto l’Europa nella storia: gli Stati Uniti (capitalistici) di Europa. Infatti l’attuale Unione Europea è l’unità asimmetrica di nazioni con un “centro” e una “periferia” dove il centro esporta merci e acquista titoli pubblici “periferici” rendendosi creditore di una periferia che si indebita. Ma nell’interesse di chi? Non pare proprio in quello dei salariati sia del centro che della periferia…
L’Unione Europea non è un’unione politica con una costituzione approvata dai popoli. È un’entità statale (di fatto se non di diritto) costituita con trattati internazionali che si sovrappongo alle costituzioni nazionali tentando di demolirle (Russo, 2017). Gli organismi politici che determinano le sue politiche monetarie e fiscali sono la Banca Centrale Europa e il governo tedesco, e nessuno dei due è responsabile verso i popoli europei.
Il ruolo del governo tedesco merita di essere chiarito. Il predominio della Germania sull’economia europea si era affermato già dagli anni ’70, e divenne ingombrante dopo l’unificazione tedesca del 1990. Con la fondazione dell’Unione è accaduto che i governi di quel paese sono riusciti a conquistare per la sua industria vantaggi competitivi senza precedenti. Con le riforme Hartz (2003-2005) e le politiche fiscali restrittive, la crescita salariale è stata posta sotto controllo, completando un processo avviato già negli anni ’90. Inoltre le imprese tedesche hanno esteso le loro catene del valore verso i paesi dell’Est europeo (e in parte del Sud), dove i salari sono più bassi che in Germania. In questa maniera l’industria tedesca ha avuto un costo del lavoro che è cresciuto sistematicamente di meno rispetto a quello dei principali concorrenti, in particolare Francia, Italia e Spagna. Ciò ha permesso alla Germania di mantenere un elevato e crescente surplus commerciale, spingendo i paesi del Sud Europa verso il deficit del conto corrente (l’Italia e la Spagna fino al 2012, la Francia ancora oggi).
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La “grande paura” della borghesia e la Rivoluzione d’Ottobre
di Sergio Cararo
Dal novembre del 1917, la realizzazione della Rivoluzione d’Ottobre in Russia trasferì la prospettiva del comunismo dalla teoria alla realtà. Nelle file della borghesia europea e internazionale, si diffuse quella che è stata definita “La Grande paura”. La stessa che era dilagata tra le monarchie europee dopo la Rivoluzione Francese, quando cadde la testa del re e i castelli dei nobili vennero assaltati e saccheggiati. La determinazione con cui i bolscevichi portarono a fondo la rottura rivoluzionaria, seminò una ondata di isteria, paura e ferocia controrivoluzionaria durata più di settanta anni.
La feroce reazione delle potenze imperialiste contro la Rivoluzione d’Ottobre e poi contro l’URSS, si può schematizzare in tre fasi storiche che hanno visto la messa in campo di strumenti diversi con il comune obiettivo di distruggere la prima sperimentazione del socialismo possibile nella storia. Questo obiettivo è stato raggiunto solo nel 1991 con la dissoluzione dell’URSS stessa.
La prima fase della “Grande Paura”
La rottura rivoluzionaria dell’ottobre avviene nel pieno della maggiore crisi e guerra interimperialista che il mondo avesse mai visto.
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Memorie, negazionismi, Regeni e Deir Ez Zor
di Fulvio Grimaldi
Faccio un’altra volta contenti i localisti che biasimavano la mia depravazione professionale di trascurare il vicino per navigare nel lontano, offrendogli un bel potpourri, come si diceva ai tempi del trio Lescano e di Alberto Rabagliati (oggi “compilation”, e fossimo meno perversamente esterofili, “raccolta”, “selezione”), di cose nostre e cose altrui (che, a mio avviso, senza offesa per i localisti, risultano poi sempre anche nostre). E parto lontanto, da Trump per finire vicino, a Virginia Raggi, tanto per dimostrare l’assunto.
L’aspetto storicamente più significativo e anche più umoristico è il ballo di San Vito che, all’apparire del fenomeno Trump, ha visto unirsi in frenetica agitazione tutti i vermi e tutte le larve che fino a ieri pasteggiavano sulla carcassa della società capitalista occidentale. Vuoi quelli che del gozzoviglio si vantavano e vuoi coloro che, vergognandosene, masticavano nascosti dal tovagliolo di seta. Spioni Cia, serialkiller Mossad, vampiri bancari, fabbricanti di F35, necrofagi neocon, contorsionisti del menzognificio mediatico, burattinai del terrorismo internazionale e loro cloni in miniatura dei paesi subalterni, in felice sintonia con i loro finti opposti e autentici reggicoda, pacifisti, ambientalisti, femministe, variopinti sinistri, diritto-umanisti, migrantofili, cultori del Genere, tutti appassionatamente uniti a protestare, ululare, armarsi, contro questo imprevisto rompicoglioni che si permette di scuotere la carogna e spolverarne i parassiti.
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Se riesplode l’Algeria, altro che caos libico
Karim Metref
Dietro la malattia di Abdelaziz Bouteflika infuria la lotta per il potere tra i clan rivali. E con il presidente ridotto al silenzio, ma in carica, i suoi uomini possono continuare indisturbati a saccheggiare le risorse del paese. Ma la catastrofe è dietro l'angolo
Chi si ricorda dell’Algeria? Sapete, quel piccolo paese grande come l’Europa occidentale sull’altra riva del Mediterraneo. Proprio di fronte alla Sardegna. Non si parla quasi mai dell’Algeria. Tranne se un gruppo di terroristi prende in ostaggio o taglia la testa a qualche cooperante occidentale. I media internazionali hanno sempre coperto pochissimo il paese nordafricano. Poche notizie ne escono. Anche la sanguinaria guerra civile degli anni 90 che ha falciato quasi 300 mila persone è stata una delle guerre meno documentate nella storia moderna. Sarà perché in Algeria tra un’uccisione di occidentali e un’altra non succede nulla?
Non è così. L’Algeria è un paese molto dinamico dove succedono molte cose. C’è una società civile che lotta per uscire dalla terribile situazione in cui è rinchiuso il paese dalla fine della guerra. Ci sono conflitti sociali importanti. Ultimamente ci sono stati persino scontri etnici tra popolazioni arabofone sunnite e una minoranza berberofona ibadita. Quindi c’è guerra etnica e religiosa. Il piatto favorito dell’infotainment globale. Eppure niente. Nessuno ci ha dato importanza e i timidi lanci delle agenzie sono andati a finire nella pattumiera delle notizie non notiziabili.
Questo silenzio è dovuto al fatto che l’Algeria è un paese poco conosciuto all’estero. Perché è rimasto chiuso per molti anni su se stesso. E in qualche modo lo è ancora. Ma è dovuto anche al fatto che il regime algerino è molto ricco e molto abile nell’arte di comprare il consenso internazionale. Dieci pozzi per i francesi, venti per gli americani, un gasdotto per gli italiani, qualcosina per i tedeschi, qualcosina per i canadesi… e così via. Se sai ingraziarti le multinazionali di ogni luogo diventi un paese al di sopra di ogni sospetto.
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Da «Rappresentanza» a «Rappresentazione»
L’involuzione della politica nel capitalismo flessibile
Roberto Finelli
1. Un mondo rovesciato
Da Rappresentanza a Rappresentazione: in questa formula si può riassumere, a mio avviso, la trasformazione più rilevante che ha subito la Politica nella modernità dell’ultimo quarantennio. Ma non per ragioni autonome, o per una presunta virtù e capacità propria di modificarsi comunque e di assumere con ciò nuove forme – quasi a celebrare la fantasia di tutti coloro che hanno interpretato il moderno come autonomia del Politico -, bensì a seguito di quella trasformazione dell’Economico, che, a mio avviso, l’ha guidata e l’ha fondata quanto a precedenza ontologica nella costituzione della vita sociale, e che è ormai ben nota come passaggio dal fordismo al postfordismo.
Come ormai da più tempo vengo scrivendo questo passaggio epocale va inteso, nel linguaggio della filosofia, come l’approfondimento e la radicalizzazione dell’Astrazione in cui si compendia l’Economico capitalistico, con lo svuotamento del Concreto che ne consegue e la superficializzazione del Mondo che ne costituisce l’esito. Vale a dire che con il passaggio dal sistema “macchina meccanica-forza lavoro corporea” al sistema “macchina dell’informazione-forza-lavoro mentale” la valorizzazione della ricchezza astratta attraverso estrazione di plusvalore avviene, almeno nel capitalismo avanzato, non più attraverso costrizione fisica e lavoro corporeo alla catena, ma attraverso consenso e partecipazione, data la messa in gioco nel processo produttivo da parte del lavoratore della conoscenza delle competenze, attitudini e abilità della propria mente.
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Ucraina: da “periferia” a frontiera di guerra
Nicola Casale, Raffaele Sciortino
Non è facile prevedere l'evoluzione dello scontro in Ucraina. Da un lato, si è visto all’opera il meccanismo ben oliato del regime change impulsato da Occidente non per via militare ma grazie alla mobilitazione di una parte della popolazione sulla base di uno scontento reale (a scanso di complottismi). Accompagnato dal pervasivo dispositivo della comunicazione sul cui terreno le postdemocrazie occidentali sono semplicemente imbattibili: il popolo ucraino sovrano ha scelto, Putin è l’aggressore… Quale anima democratica (o fan delle Pussy Riot)1 potrebbe nutrire dubbi? Se poi i russi di Crimea vogliono il referendum per la loro, di sovranità… infrangono il diritto internazionale.
Questa volta, però, l’incedere oramai parossistico della marcia imperialista (si può dire o urtiamo i diritti umani?) – sotto il nobelpremiato Obama: Libia, poi Siria, forse Venezuela, senza contare quanto avviene in Africa centrale o si prepara in Asia ai danni della Cina – è arrivato ai confini della Russia. E se l’attivismo di innesco di Berlino pare ora voler frenare, viste le possibili conseguenze in Europa, Washington invece provoca, la Clinton paragona Putin a Hitler (inquietante refrain già sentito…), Obama sbava di rabbia e vorrebbe, una volta per tutte, coalizzare il mondo contro la Russia.
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L'invenzione del clandestino
di Augusto Illuminati
La minchia gli scassarono ‘sti migranti al governatore Lombardo, non solo l’uscio del capanno di Grammichele. Per questo incita i siciliani a far ronde notturne con il mitra, caso mai incontrassero tunisini in fuga da Mineo o sbarcati sulle coste. Li fulminassero sul bagnasciuga, come proclamò con scarsa padronanza dei termini marinari e ancor meno fortuna bellica la buonanima di Mussolini per l’altra invasione dell’isola, quella del 1943.
Folklore mafioso-leghista, che copre ben altre e più massicce operazioni di disinformazione e razzismo di Stato. Pensiamo a quel “falso movimento” che consiste in due serie di azioni opposte e complementari, vera e propria ideologia messa in scena per ipnotizzare il paese. Da un lato i migranti vengono trattenuti, ammucchiati oltre misura nella più inimmaginabile sporcizia e deprivazione, rinserrati in Cie e Cara o a cielo aperto sull’isola di Lampedusa –occorre mostrare le belve sudice e ribelli ai bravi cittadini italiani e ai connazionali rimasti in patria, guardate che succede a varcare il Canale. Dall’altro, li si fa oggetto, insieme agli sventurati zingari preesistenti, prototipo del nomade-migrante, di spostamenti frenetici senza nessun motivo plausibile (dal Cara di Castelnuovo di Porto a Mineo, poi anzi no, a Mineo ci vanno i tunisini, al Cara gli zingari, no poi ci vanno i libici doc, ecc.), con la stessa logica capricciosa e intimidatoria delle periodiche “traduzioni” carcerarie.
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Il biopotere della finanza
di Andrea Fumagalli
Brevi note sulla crisi dell'eurozona
Nel testo “Dieci tesi sulla crisi finanziaria” e nei saggi di Stefano Lucarelli e Christian Marazzi, pubblicati nel volume collettaneo di UniNomade, “Crisi dell’Economia Globale” (Ombre Corte, 2009), i mercati finanziari vengono definiti forma di “biopotere”. Credo sia necessario partire da questa definizione per comprendere cosa sta avvenendo in Europa e in particolare in Grecia.
1. E' da circa due decenni che i mercati finanziari di fatto determinano il valore delle valute internazionali e i loro rapporti di cambio, una volta venuto meno nel 1971 il rapporto di parità fissa tra dollaro e oro fissato a Bretton Woods nel 1944. Le scelte politiche di liberalizzazione del mercato internazionale dei capitali attuate negli anni ’80 a livello globale, le innovazioni finanziarie (per esempio i derivati) che hanno moltiplicato le operazioni puramente speculative, lo smantellamento dei sistemi pubblici di welfare e la precarizzazione del rapporto di lavoro hanno reso i mercati finanziari il perno su cui si fonda nel capitalismo contemporaneo. Essi rappresentano la base del processo di finanziamento dell’attività di investimento e dei principali meccanismi di distribuzione del reddito e di fatto "assicurano" la vita sociale di milioni di uomini e donne nel mondo.
La prima volta in cui tutto ciò è risultato manifesto è stato nel 1994. In seguito alla mancata firma del trattato di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico (Nafta), dopo la sollevazione zapatista nel Chapas, le principali società finanziarie (da Goldman Sachs alla Lehmann) hanno immediatamente stornato i loro investimenti finanziari speculativi dal Centro America ai mercati del Sud-Est asiatico.
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Lo sporco segreto di “Hopenhagen”
Pepe ESCOBAR
PECHINO – Il 21 novembre sul China Daily è apparsa questa didascalia: “Tre donne fanno sembrare più piccolo il Nido d'Uccello [lo Stadio Nazionale] mentre si godono il cielo azzurro e il sole invernale, venerdì. Venerdì Pechino ha sperimentato il suo 260° giorno sereno del 2009, raggiungendo il proprio obiettivo 41 giorni prima della fine dell'anno”.
Si potrebbe pensare che il segreto del controllo climatico cinese e il raggiungimento degli “obiettivi” sia che Dio ha la tessera del Partito Comunista, e che i suoi obiettivi sono i piani quinquennali, come per chiunque altro (eccetto gli “scissionisti”). Dio, ovviamente, non si sognerebbe mai di diventare uno scissionista.
Solo nell'ultimo mese in Cina sono stati venduti 1,34 milioni di automobili. Sono una gran bella fonte di gas serra. Confrontateli con il nuovo obiettivo di Pechino, quello di ridurre l’intensità di carbonio – emissioni di anidride carbonica per unità di prodotto interno lordo – dal 40 al 45% entro il 2020, rispetto ai livelli del 2005. Cosa se ne faranno di tutte queste auto, le esilieranno in Corea del Nord?
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Lettera ai genitori sulla "nuova influenza"
Postato il Venerdì, 25 settembre @ 04:19:27
di Eugenio Serravalle
Specialista in Pediatria Preventiva, Puericultura-Patologia Neonatale
Cari genitori,
ogni giorno parliamo della nuova influenza, e mi chiedete se sia utile e sicuro vaccinare i bambini.
La mia risposta è NO! Un ‘no’ motivato e ponderato, frutto delle analisi delle conoscenze fornite dalla letteratura medica internazionale. Un ‘no’ controcorrente perché molti organismi pubblici, alcune società scientifiche e i mezzi di comunicazione trasmettono messaggi differenti:
avranno le loro ragioni...
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Curare il Covid-19 a casa: studio clinico su un possibile trattamento precoce
di Istituto Mario Negri
È stato appena pubblicato su MedRxiv in versione pre-print * lo studio dal titolo "A simple, home-therapy algorithm to prevent hospitalization for covid-19 patients: a retrospective observational matched-cohort study" (Un semplice algoritmo [ndr. schema sistematico di calcolo] per il trattamento domiciliare di pazienti Covid-19 per prevenire l'ospedalizzazione: uno studio di osservazione retrospettiva).
Come precisa il prof. Remuzzi, coautore dello studio,“pur essendo in attesa della pubblicazione ufficiale, abbiamo pensato di rendere noti i dati emersi alla comunità scientifica perché i risultati sull'ospedalizzazione sono di un certo interesse".
Lo studio in questione, infatti, si propone, come altri studi attualmente in corso, per il trattamento domiciliare dei pazienti Covid-19, di presentare ai Medici di Medicina Generale una possibile cura precoce nelle prime fasi dell'infezione.
Nei primi 2-3 giorni, infatti, il Covid-19 è in fase di incubazione: la persona non presenta ancora sintomi, ovvero è presintomatica. Nei 4-7 giorni successivi, la carica virale aumenta facendo comparire i primi sintomi (tosse, febbre, stanchezza, dolori muscolari, mal di gola, nausea, vomito, diarrea). Intervenire in questa fase, iniziando a curarsi a casa e trattando il Covid-19 come si farebbe con qualsiasi altra infezione respiratoria, ancora prima che sia disponibile l'esito del tampone, potrebbe aiutare ad accelerare il recupero e a ridurre l’ospedalizzazione.
Seguire questo approccio offre vantaggi sia ai pazienti che al il sistema sanitario, il cui sovraccarico è attualmente ancora un problema.
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Il discorso di Macron, la risposta di Mélenchon, il futuro del movimento
di Giacomo Marchetti
Alle otto di lunedì sera, Emmanuel Macron ha pronunciato il suo atteso discorso alla nazione; dopo poco Jean-Luc Mélenchon, deputato e leader della France Insoumise, ha “risposto” per punti alle affermazioni del messaggio del Presidente.
Dopo avere considerato il “botta e risposta” tra il Macron e Mélenchon, dobbiamo approfondire l’analisi su questo movimento per comprendere come i pochi palliativi macroniani non avranno probabilmente gli esiti sperati.
L’aumento del salario minimo intercategoriale di 100 euro (in realtà 64 in più rispetto all’aumento automatico previsto in conseguenza all’indicizzazione), la defiscalizzazione per il lavoratore e per l’impresa delle ore straordinarie, un premio delle imprese ai lavoratori per la fine dell’anno – comunque facoltativo e comunque defiscalizzato – e per ultimo l’innalzamento della CSG per le pensioni inferiori a 2.000 euro, sono le uniche misure concrete di cui ha parlato Macron nel suo discorso, e si inseriscono nel solco della sua filosofia di governo, tesa a sposare la tesi dello “sgocciolamento” e a legittimare il rapporto plebiscitario che esacerba i tratti più autoritari della Quinta Repubblica in un rapporto Presidente – o meglio monarca repubblicano – e cittadini, riportati a sudditi, al di là di un generico ascolto di facciata dei corpi democratici.
La risposta a Macron del leader della France Insoumise, in un intervento di poco più di cinque minuti, si articola in 5 punti.
Come premessa viene fatto rilevare che nel discorso del presidente non compare alcuna scusa per le violenze delle forze dell’ordine, mentre è netta la condanna delle violenze dei manifestanti.
Macron si illude che “la distribuzione di soldi possa calmare l’insurrezione dei cittadini che è scoppiata”, afferma Mélenchon, che comunque lascia che sulle parole del Presidente si esprimano direttamente i GJ.
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Le insidie della felicità. Note su “Storia economica della felicità”
di Nicolò Bellanca
In Storia economica della felicità (il Mulino, 2017), Emanuele Felice ha ricostruito la storia attraverso cui si è venuta creando una frattura fra sviluppo economico e felicità, progresso economico e dimensione etica. Ma che cosa è la felicità e come la si può conseguire attraverso la politica?
Molti di noi, fin dai banchi di scuola, sono stati affascinati dalle letture di storia per gli interrogativi di fondo che esse evocano, raccontano e talvolta provano a spiegare: cosa distingue l’Homo sapiens dagli altri animali? Perché l’Occidente ha dominato il mondo nel corso degli ultimi secoli? Quali sono le determinanti profonde di grandi cambiamenti come la Rivoluzione agricola o quella industriale? Perché una collettività ha successo o declina? Le disuguaglianze erano maggiori una volta, oppure lo sono adesso? La storia ha una direzione? Le persone sono diventate più collaborative, più etiche, più felici con il trascorrere del tempo?
Negli anni recenti, simili questioni sono state affrontate da importanti scienziati sociali. Mi limito a ricordare tre libri che hanno suscitato estesi dibattiti; volutamente, menziono gli slogan riassuntivi mediante cui queste opere complesse vengono, di solito, ricordate. I destini delle società umane è il sottotitolo originale del libro nel quale Jared Diamond sostiene che la geografia fisica, in definitiva, spiega l’evoluzione culturale e la crescita economica di alcuni popoli rispetto agli altri.[1] Breve storia dell’umanità è il titolo originario del libro di Yuval Harari, nel quale si enfatizza l’abilità, specificamente umana, d’immaginare simboli, come la moneta o lo Stato, che esistono soltanto intersoggettivamente, ma che consentono la cooperazione tra estranei: tu ed io non ci conosciamo, ma accettiamo di scambiare con la stessa moneta o di obbedire alle stesse leggi.[2] Infine, Daron Acemoglu e James Robinson affermano, in un libro sottotitolato Le origini del potere, della prosperità e della povertà, che il successo delle collettività umane dipende dal carattere inclusivo delle loro istituzioni politiche ed economiche, dove per “inclusività” intendono la capacità di rispettare la libertà e i diritti delle persone.[3]
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Referendum, quali conseguenze?
Alfio Mastropaolo
È fuori di dubbio che il testo che sarà sottoposto a referendum il 4 dicembre rappresenti il superamento della “Repubblica fondata sul lavoro” e che corrisponda a una nuova configurazione dei rapporti di potere
Cos’è una costituzione? La risposta non è affatto ovvia. Secondo un giurista autorevole come Mario Dogliani, che l’ha scritto sull’ultimo numero di Democrazia e Diritto è “un potere che sappia unire, metter pace, suscitare fiducia, rendere tangibile la speranza di un futuro e di un benessere comune”. È un’idea di sapore habermasiano, cui è sotteso nientemeno che il “patriottismo della costituzione”.
Ognuno fa il suo mestiere. A ragionare in termini di potere, una costituzione è piuttosto, per citare ancora Dogliani, “un potere forte che sappia imporsi”. Che s’impone materialmente, che s’impone simbolicamente, con la precisazione che il potere simbolico, la reputazione è, di tutte le forme di potere, la più irresistibile. Ma sempre di potere si tratta. Le costituzioni sono perciò documenti scritti dai vincitori. Che naturalmente proclamano di porsi dalla parte dell’universale, perché l’universale gode di straordinaria reputazione, ma che in realtà rappresentano il loro punto di vista particolare.
Viste le costituzioni nella prospettiva del potere, i vincitori le scrivono per due ragioni. La prima per risparmiare potere. Sono marchingegni utili a renderlo invisibile, ad automatizzarlo, a farne routine. Più elevata è la reputazione di cui godono le costituzioni, più e meglio funzionano. Per questo sono consacrate da liturgie solenni. Naturalmente, lo schieramento dei vincitori è transeunte, si ridefinisce senza posa, ma le democrazie beneducate hanno l’accortezza di evitare gli sconquassi.
Coloro che scrivono una costituzione dichiareranno che è per sempre.
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Strage di Parigi: complottismo?
di Aldo Giannuli
Ci sono due forme di imbecillità perfettamente speculari: il complottismo e l’anticomplottismo. Il complottista ideologico pensa che nulla accada per caso, si ritiene furbo perché convinto che quel che appare sia sempre e solo finzione e che dietro ci sia sempre una qualche macchinazione di poteri forti, magari ai massimi livelli mondiali in cui si immagina esista un vertice unico ed onnipotente. L’anticomplottista, parimenti ideologico, non sopporta spiegazioni che cerchino di andare al di là delle apparenze, i bollettini di Questura sono la sua Bibbia, si ritiene furbo perché deride sistematicamente qualsiasi dubbio e chi lo formula. Lui ha solo certezze.
Ciascuno dei due pensa che l’altro sia un cretino, ed hanno ragione tutti due. Sembrano opposti, ma in realtà, ragionano allo stesso modo. Sia l’uno che l’altro non cercano di capire criticamente un avvenimento, ma semplicemente lo assumono come conferma di quello che già pensano e chiunque accenni ad una interpretazione non contrapposta, ma semplicemente diversa, è esecrabile e da ridicolizzare, se necessario leggendo anche quel che non c’è scritto o il contrario di quel che c’è scritto.
Perché ciascuno di loro (complottista o anticomplottista) legge quello che gli pare e non quel che c’è scritto effettivamente. E tutti e due sono abbastanza cafoni.
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Sulla filosofia imperfetta di Costanzo Preve
Ovvero: come valorizzare le intuizioni di un marxista eretico, riconoscendone i limiti ma anche andando al di là delle scomuniche di cui fu vittima
di Carlo Formenti
Dopo il post su Bordiga, proseguo la riflessione su alcuni autori che, pur avendo portato un contributo significativo alla teoria marxista, sono stati messi all’indice e rimossi dalla sinistra a causa delle loro tesi “eretiche” e politicamente “scorrette”. Questa seconda puntata è dedicata al pensiero di Costanzo Preve
In uno dei miei ultimi lavori (1) ho dedicato un paragrafo al “caso Preve”, nel quale osservavo come il contributo di questo autore controverso e geniale alla teoria marxista sia stato oggetto di una rimozione radicale, se non di un vero e proprio linciaggio ideologico, sia per le sue critiche feroci a una sinistra in via di autodissoluzione (formulate in tempi in cui ciò era ancora considerato intollerabile), sia perché la scomunica di cui fu vittima a causa di tale “colpa”, contribuì ad esacerbarne il carattere ombroso, innescando certi suoi atteggiamenti provocatori che gli costarono un isolamento pressoché totale. In questo scritto proverò a spiegare i motivi per cui ritengo importante – tanto sul piano teorico quanto sul piano politico – rivisitarne certe intuizioni che meritano di essere approfondite cercando, al tempo stesso, di evidenziarne limiti e contraddizioni. A tale scopo prenderò in esame due testi distanziati da un quarto di secolo: La filosofia imperfetta (1984) e Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale (2009) (2). La parte dedicata a quest’ultimo testo anticipa alcuni dei temi che affronto nella Prefazione che ho scritto per una nuova edizione, prevista per il prossimo settembre.
1) La filosofia imperfetta
Il libro del 1984 si articola in cinque parti dedicate, rispettivamente, 1) ai tre “discorsi” che, secondo Preve, sostanziano il corpus teorico marxiano; 2) ad alcune delle principali correnti marxiste del Novecento; 3) al pensiero di Heidegger, indicato come la vetta più elevata del pensiero borghese novecentesco; 4) all’utopia concreta di Ernst Bloch; 5) all’ontologia dell’essere sociale di Gyorgy Lukacs.
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Di percorsi abbreviati, alunni competenti e insegnanti efficaci
Cosa significa educare oggi?
di Rossella Latempa
La vecchia Scuola fa acqua da tutte le parti. E’ lontana dal mondo dell’impresa, ha gli insegnanti più vecchi d’Europa, è fondata su saperi teorici e astratti, è sostanzialmente “analogica e cartacea”. Per fortuna, le competenze, il digitale e l’innovazione la salveranno. Attorno alle competenze e alla necessità di innovare si è costruito un vero e proprio racconto. Bisogna garantire un set di “saperi utili per la vita” (competenze di cittadinanza), che assicurino flessibilità ed employability. Ciò che conta è imparare ad imparare, saper apprendere sempre, per risultare vincitori nello struggle for life. Cosa e come si insegnerà nella scuola del XXI secolo? Le distinzioni disciplinari perderanno significato. Basterà fornire i saperi essenziali e sviluppare le giuste skills per ricercare e selezionare informazioni in rete. Eppure, problem solving and finding, Inquiry based learning, sono maquillages anglofili su pratiche che risalgono all’Accademia di Atene e che qualsiasi insegnante consapevole utilizza con gli obiettivi e i linguaggi specifici della propria disciplina. La pedagogia “del successo” è quella che crea ambienti, attività, metodi di apprendimento focalizzati su competenze utili per la vita. Da questa visione fluida e protesa al futuro scompare l’orizzonte di senso. Perché, a quale scopo tutto questo, qual è la nostra destinazione. L’educazione è innanzitutto una pratica morale e politica. E come tale necessita di una definizione delle sue finalità, prima che della sua efficacia. Efficace per cosa?
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Il tema del tempo-scuola e quello delle pratiche didattiche “innovative” sono tornati al centro del dibattito pubblico in occasione della recente firma del decreto che dà il via alla sperimentazione di diplomi quadriennali, da parte del MIUR.
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