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Decreto interpretativo, che tipo di pistola è puntato alla tempia dell'opposizione?

nique la police

Link: Breve analisi tecnica del decreto

A giudicare dalle reazioni del complesso del PD non possiamo non registrare che le proteste, sulla questione del decreto elettorale, da parte degli esponenti del partito democratico si sono fatte più dure del solito e meno improntate a criteri di timorosa diplomazia. Non è da sottovalutare infatti, visto anche il peso raggiunto nei partiti moderni dalle rappresentanze parlamentari, la dichiarazione congiunta dei capigruppo delle due camere che recita "è nostra opinione che il decreto legge ieri approvato dal governo in materia elettorale rappresenti un gravissimo precedente nella storia repubblicana". L'impegno dei rappresentanti dei parlamentari PD è quantomai chiaro: "è' evidente che questo atto avrà immediate conseguenze sul nostro atteggiamento parlamentare". E chi conosce l'importanza dell'atteggiamento dell'opposizione per lo svolgersi delle procedure parlamentari (che non solo è un mondo politico a parte, quello della reale concretezza del potere, che è persino regolato da una scienza autonoma della politica) sa che quest'impegno è destinato a non rimanere senza conseguenze per la capacità di legiferare del centrodestra ad esempio in materia di leggi discrezionali favorevoli al premier.

Nonostante questo il PD si è trincerato nella difesa di Napolitano, che ha controfirmato il decreto elettorale pur avendo potere di veto, perchè avere un presidente della repubblica che proviene dalle proprie fila rappresenta comunque una rendita di posizione che può essere sfruttata in altre situazioni. Questa posizionamento del PD, interdizione parlamentare e fiducia istituzionale, marca capacità e limiti nel comportamento del partito democratico nei confronti del centrodestra. La capacità sarà tutta giocata sul piano della interdizione delle procedure parlamentari, e lì si capirà se questa opzione sarà impiegata davvero, mentre per i limiti Bersani si è già espresso: "con l'Aventino non abbiamo mai risolto niente".

Esprimendo in questo modo il rifiuto, da parte del PD, di giocare la carta della crisi istituzionale. Il problema però è che il PDL questa carta la gioca ogni volta che si trova di fronte ad un problema politico, risolvendo in questo modo le proprie crisi e le proprie tensioni mangiandosi di volta in volta porzioni di diritti, di equilibri tra poteri collettivi. E' anche vero che il PD non può certo far finta di non conoscere Napolitano. Lo ho fatto capire lo stesso presidente della repubblica scrivendo con tempismo d'eccezione dal sito del Quirinale. Esponendo le motivazioni per la firma del decreto Napolitano ha scritto "si era nei giorni scorsi espressa preoccupazione anche da parte dei maggiori esponenti dell'opposizione, che avevano dichiarato di non voler vincere– neppure in Lombardia – 'per abbandono dell’avversario' o 'a tavolino'”. Il messaggio di Napolitano è chiaro: il PD, che adesso lamenta gravi ferite, nei giorni scorsi si è incartato da solo. Il desiderio del PD di evitare "l'Aventino", l'inefficace esperienza di ritiro dai lavori parlamentari da parte dell'opposizione antifascista durante il caso Matteotti, ha prodotto però le condizioni politiche per un decreto cesarista che impone la presenza alle elezioni dei partiti vicini al presidente del consiglio anche se questi non hanno raggiunto i requisiti per concorrere. Neanche Mussolini c'era riuscito, almeno fino a quando aveva un'opposizione in parlamento, forse Bersani dovrebbe rileggersi al più presto come nacque la dittatura tra la fine del '24 e l'inizio del '25. Certo si tratta di qualcosa che è molto più retrò della lettura dei bilanci delle grandi cooperative, quelle che che spingono per non avere casini irreparabili con Berlusconi, ma l'insegnamento della storia torna proprio utile quando si rischia di essere espulsi dal sistema politico pur avendo quasi un terzo dei voti.

Napolitano, comunque siano andate le cose, non è stato quindi solo in questo errore politico grave causato dal decreto elettorale. Se adesso il PD è preoccupato delle conseguenze del decreto non può però prendersela con il presidente della repubblica. Che, per sua stessa ammissione, ha solo interpretato una tattica errata suggerita dallo stesso partito democratico. E di fatto il PD è bloccato da una tattica che non produce frutti al centrosinistra da 15 anni: interdizione nei confronti del centrodestra quando possibile, fermo rifiuto di ogni battaglia in campo aperto, di quelle che mettono in discussione l'esistenza dell'avversario proprio per farlo arretrare in modo significativo. Con questo modo di procedere da parte del centrosinistra il centrodestra si è così posto al centro del sistema politico saccheggiando le risorse di un paese a rischio declino.

Ma cosa è successo nei giorni scorsi da indurre il governo a emettere un decreto in materia elettorale, che non rientra costituzionalmente tra le sue competenze, e l'opposizione ad assumere un atteggiamento di forte e preoccupato rifiuto?

Di sicuro le tensioni tra centrodestra e centrosinistra erano salite nei giorni precedenti alla scadenza della presentazione delle liste. La causa sta nella interpretazione, da parte della maggioranza, della legge sugli spazi elettorali in tv prima delle elezioni regionali. Il risultato di questa interpretazione è sotto gli occhi di tutti: approfondimenti televisivi scomparsi prima delle elezioni, caso unico in quasi tutto il pianeta dove il numero di queste trasmissioni aumenta alla vigilia di importanti scadenze elettorali, agenda politica esclusivamente in mano ai tg controllati da Berlusconi e persino perdita di entrate pubblicitarie della Rai a favore di Mediaset. Siccome la comunicazione politica che conta, e quindi i criteri di scelta elettorale da parte della popolazione, in questo paese passa ancora dalla televisione si comprende come il centrosinistra abbia più di un motivo per esasperare le tensioni esistenti con il centrodestra. Eppure neanche questo è bastato per scatenare una controffensiva del centrosinistra. Opportunamente il centrodestra ha infatti accettato un dibattito, in diretta tv, alla camera sul destino economico del paese. Dibattito chiesto da mesi da Bersani che dal punto di vista della comunicazione politica è un perfetto suicida: se pensa che la popolazione prenda decisioni elettorali guardando un dibattito in parlamento, e sull'economia, è fermo a un'epoca dei media in cui il paese si bloccava perché alla televisione c'era Lascia o Raddoppia. Se il PD crede quindi di aver compensato il danno in termini di voti, causato dalla censura degli approfondimenti pre-elettorali, con questo genere di dibattiti c'è davvero da dubitare della capacità dei dirigenti del partito democratico di fare i propri stessi interessi.

Si arriva quindi alla mancata presentazione delle liste del centrodestra in Lombardia e nel Lazio, causa del decreto elettorale del governo e di forti tensioni politiche tra maggioranza e opposizione. E' bene essere chiari che questa mancata presentazione delle liste non è problema di forma ma di sostanza politica. Se un partito, oltretutto con milioni di elettori, non è in grado di presentare le liste, nelle aree metropolitane chiave del paese, i regolamenti in materia di iscrizione alle elezioni non sono un fatto di forma ma la registrazione di uno stato di conclamata crisi. Sono le risse di potere all'interno del centrodestra, non questioni di timbri, che hanno causato un'implosione tale da non potergli permettere di presentare liste in tempo utile. E se un partito è in tale stato di crisi è funzionale all'equilibrio di un sistema il fatto che non si debba presentare. I regolamenti in materia di iscrizione elettorale non marcano quindi la forma ma la sostanza: registrano uno stato di paralisi di una coalizione che rende inammissibile la sua partecipazione alle elezioni.

La mossa di Berlusconi, in risposta a questa situazione, è quella classica del centrodestra: risolvere con un decreto un proprio stato di crisi rovesciandolo sulle istituzioni. Disgregando ulteriormente le garanzie che presiedono alla vita pubblica per evitare lo sgretolamento della maggioranza. Infatti la perdita di un feudo di potere del centrodestra, come è da un quindicennio la Lombardia, avrebbe aperto una guerra interna devastante per la maggioranza che esprime la presidenza Berlusconi. Il decreto "salvaliste", lungi da riequilibrare il diritto ad eleggere da parte dell'elettorato, raggiunge quindi l'effetto di ammettere alla competizione elettorale liste che non hanno neanche la minima capacità funzionale per iscriversi. Il decreto firmato da Napolitano ha quindi salvato la sostanza ma quella che vuole che un partito paralizzato, inabile persino a presentare firme, debba essere messo in condizione di esistere per salvaguardare poteri di rendita.

Per capire più a fondo il ginepraio nel quale ora si è cacciato il centrosinistra, con la sua tattica fatta di interdizione ma anche di timore di far saltare il banco, basta dare una sola occhiata agli effetti politici del decreto elettorale. Il centrosinistra ha annunciato opposizione alla conversione in legge del decreto. Se annullato il decreto renderebbe nulle le prossime elezioni. Delle due l'una: se le elezioni le vince il centrosinistra il centrodestra può favorire il decadimento del decreto per rifare le elezioni (gridando ai brogli, all'eversione della sinistra etc. come d'abitudine); se le vince il centrodestra questo può sempre reiterare il decreto fino a quando l'opposizione di centrosinistra non è sfinita.

Di fatto per la prima volta nella storia repubblicana il risultato elettorale è in mano al potere discrezionale della maggioranza: il centrodestra ha i mezzi concreti per annullarlo se politicamente lo ritiene necessario. Un colpo di genio dell'asse PD-Napolitano, del loro concedere in ultima istanza sempre una sponda al centrodestra oltre ogni buon senso. Ora che il PD sia spaventato di questa situazione, che ha contribuito a creare, rappresenta il classico fatto tragico e comico allo stesso tempo.

Intendiamoci, in ogni versione del capitalismo la contraddizione tra ordinamento e politica è la norma. Ma in questo paese la contraddizione si è radicalizzata. La politica non ha più alcun rapporto con la coesione sociale, è solo terreno occupato da chi è in grado di far valere la capacità di estrazione di ricchezza che si ottiene svendendo beni pubblici concreti (privatizzando) e leggi astratte (attaccando l'ordinamento). Questi interessi per esprimersi compiutamente, per estrarre ricchezza fino in fondo, non possono e non vogliono avere limiti di ordinamento giuridico e sociale. Anzi, nel robber capitalism di Berlusconi la dissoluzione dell'ordinamento giuridico e sociale è la precondizione necessaria per estrarre profitti. Dalle grandi opere a Bertolaso, dai decreti sulla persona alle norme sulle tv ogni momento di disgregazione dell'ordinamento è diretta e strategica occasione di creazione di profitto. E' un thatcherismo nella variante italiana di un network televisivo privato che controlla, per adesso, saldamente la monetizzazione della evaporazione delle garanzie collettive.

Appena un paio di settimane fa Bersani continuava a sostenere che con questo genere di soggetto bisogna "fare le riforme". Che gli ex-Pci vivano da vent'anni di vendita dell'anima al diavolo lo sappiamo. Il punto è che stavolta è anche possibile che al diavolo non interessi quest'anima perennemente in vendita. Perchè quando si comincia ad avere un potere, come quello dato dal decreto, di annullamento della eventuale vittoria dell'avversario è difficile accettare di tornare indietro. Specie se l'avversario non ti sa contrastare e specie quando sono all'orizzonte nuove crisi (economiche, sociali, giudiziarie) che richiederanno al centrodestra tutta la sua sua capacità di rovesciare i loro effetti altrove: nell'ordinamento, nelle istituzioni, sull'opposizione.

Risuonano ancora oggi le parole del Corriere della Sera, luogo della mediazione di tutti i poteri forti, dopo la sentenza di bocciatura lodo Alfano: "Berlusconi è il centro del sistema politico italiano". Il PD si è sempre adeguato a questo dogma criticando spesso il governo ma mai la legittimità della presidenza Berlusconi. Ma come ci insegna la storia dell'Aventino mentre l'avversario sta tirando fuori la pistola, per puntartela alla tempia, recitare comportamenti coscienziosi e moderati fa tanto bon ton ma anche tanto suicidio politico. Specie quando la pistola dell'avversario è di un tipo particolare. Di quelli efficienti, carichi e con il colpo in canna.

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