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lacausadellecose

Dopo il 4 marzo 2018

di Michele Castaldo

relax 21I risultati delle elezioni politiche del 4 marzo 2018 segnano certamente una rottura con gli scenari sin qui succedutisi negli oltre 70 anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Chi volge lo sguardo altrove, senza intrattenersi sul suo significato, sbaglia, non coglie nelle elezioni di questo periodo in Occidente l’espressione del cambio di fase del movimento della storia senza uguali nei decenni precedenti. Comunque la si pensi, bisogna tener conto del fatto che le elezioni sono un termometro della febbre sociale che si esprime con un simbolo su una scheda.

Di primo acchito un Di Maio ci fa la figura dell’ingenuo sbarbatello rispetto a personaggi del calibro di un Andreotti, un Aldo Moro, un Fanfani, un Berlinguer, un Pajetta, un De Martino, un Craxi o anche – perché no? - un Berlusconi, un Tremonti, un Bossi, un Martino e così via. Proprio come un Peppe Grillo e un Casaleggio appaiono come guru capitati per caso in politica.

L’errore più grave che si possa commettere – e purtroppo si commette – è quello di esaminare un movimento come i 5 Stelle partendo da un punto di vista ideologico novecentesco, cioè se siano di destra o di sinistra i gruppi dirigenti piuttosto che gli strati sociali che li esprimono. Peggio ancora se si sostiene che Grillo, Casaleggio, Di Maio, Di Battista, Fico e altri avrebbero costruito il movimento piuttosto che essere espressione di necessità emergenti dalla società italiana prodotte da una crisi senza precedenti nella sua storia.

Così facendo è facile liquidare il gruppo dirigente di questo imponente movimento sociale come di apprendisti stregone, per un verso, o come di dilettanti allo sbaraglio, per l’altro verso, quando non l’insieme delle due cose.

Che tale movimento si esprima solo sul piano elettorale rappresenta l’estrema debolezza, cioè l’illusione di portare le proprie necessità in un percorso istituzionale: la via parlamentare e l’elezione di propri rappresentanti. Questo però nulla toglie alla forza potenziale di quelle necessità che non possono essere rinviate sine die.

Alcuni commentatori legati allo schema ideologico di cui si diceva prima hanno catalogato il M5S di destra proprio come altri lo hanno definito di sinistra. Sono sbagliate entrambe le definizioni, proprio perché non affondano la sonda per capire le ragioni strutturali, cioè per esaminare le necessità delle nuove generazioni prive di prospettive, che non avendo i mezzi per individuare nella crisi del modo di produzione capitalistico l’artefice delle loro sventure, si scagliano contro i suoi rappresentanti politico-istituzionali.

Le nuove generazioni non sono un blocco monolitico, ma un insieme di categorie in crisi successive dello schema novecentesco, cioè di una fase in cui comunque cresceva l’accumulazione capitalistica. Come inquadrare un giovane dei call center rispetto a un impiegato di un’azienda privata degli anni sessanta? Tanto per fare un esempio. Quale relazione c’è tra una ragazza a partita iva dei nostri giorni con una commessa dei grandi magazzini degli anni sessanta e settanta? Quale rapporto c’è tra il lavoro a chiamata, il jobs act, il lavoro pagato con i voucher e lo Statuto dei diritti dei lavoratori, la legge trecento, l’illegittimità del licenziamento se non per giusta causa, oppure tra la possibilità di aprire una qualsiasi attività commerciale o artigianale negli anni sessanta-settanta e la chiusura di attività degli ultimi anni per l’impari concorrenza dei grandi centri commerciali e della grande distribuzione; o ancora tra un lavoratore a contratto in Amazon e un dipendente delle filiali dei grandi marchi di un tempo? E che rapporto c’è tra una giovane coppia con un lavoro stabile, che si recava in banca, chiedeva un mutuo per la casa e le veniva accordato senza troppi problemi, e le giovani coppie di questi ultimi anni. Oppure tra un giovane imprenditore e la banca oggi rispetto a trenta o quaranta anni fa? E tra tante piccole imprese, artigiane, agricole, commerciali ecc., e le banche.

Che dire della disoccupazione, giovanile e non solo, acculturata e non, in modo particolare nel sud dell’Italia? Ecco la miscela che, compressa, ha prodotto la tosse, cioè un rumore interpretato da figure, persone che si fanno carico di quelle necessità composite e che si scagliano contro quelli che ritengono essere i responsabili delle loro condizioni.

Dunque definire di destra un movimento che fa il pieno dei voti sia alla Camera che al Senato in tutta l’Italia centro-meridionale, cioè nelle regioni dov’è il maggior disagio sociale, è privo di senso. Tutt’altra cosa sarà la gestione di questo patrimonio di voti, cioè di un malcontento generalizzato fra le classi proletarie di nuova e vecchia generazione. Non capire tutto ciò vuol dire mettere la testa sotto la sabbia.

Ma è sbagliato anche definire il M5S di sinistra proprio perché è composito, cioè incorpora al suo interno categorie, necessità e aspettative diverse e persino contrapposte, come quelle tra la piccola e media impresa e l’operaio precario; perché le prime devono battere la concorrenza delle loro simili riducendo il costo della manodopera; mentre il secondo deve combattere per arrivare a fine mese. Ma lo stesso ragionamento vale per l’aumento delle pensioni minime, la Sanità, la Scuola, il finanziamento alla piccola impresa: o si riducono le tasse o si aumentano le pensioni e si finanzia la spesa pubblica. Peggio ancora se si pensa al reddito di cittadinanza, vero e proprio cavallo di battaglia del M5S. Non è un caso che ha fatto il pieno di voti al sud.

Chi sostiene che il M5S è un movimento antisistema coglie nel segno, perché intuisce che le proposte per soddisfare quelle necessità evocano fantasmi incontrollabili che si presenteranno inevitabilmente all’incasso e non più col segno su una scheda, ma con mobilitazioni di piazza. Questa è la vera questione.

Se questo vale per il M5S, non molto diverso è il ragionamento per il movimento di Salvini che interpreta in modo rancoroso il sentimento più profondo di settori sia di ceto medio produttivo contro i poteri forti allocati a Bruxelles, sia il perbenismo metropolitano contro i più deboli, cioè gli immigrati, in nome della sicurezza dei bei tempi andati. Sicché all’orizzonte non compaiono colori rosa della civile convivenza. Anche in questo caso, perciò, siamo in presenza di un movimento antisistema.

Ora, l’antisistema è di destra o di sinistra? Questa domanda è capziosa per una ragione molto semplice: per sistema si deve intendere il modo di produzione capitalistico, non una formula parlamentare. E questo ben al di là della volontà dei Di Maio o dei Salvini. Ora, le leggi dell’accumulazione capitalistica, proprio perché si sono imposte in tutto il mondo, hanno determinato un sistema per cui i capitalisti devono svalorizzare la merce lavoro (il valore degli operai) per tenere in valore tutte le altre merci da essa prodotte. E questo vuol dire che la guerra della grande azienda, sia di produzione che di distribuzione, per aumentare la produttività provoca disoccupazione e/o precarietà, per un verso, e impoverisce la piccola impresa, per l’altro verso. Sicché la battaglia per la sopravvivenza tanto della merce operaia quanto quella della piccola azienda diventa una vera e propria guerra antisistema. Ecco perché definire di destra o di sinistra il populismo di questa fase è un non senso. Peggio ancora se si definisce il movimento della Lega di Salvini come movimento fascista. E’ un modo di analizzare la storia con lo sguardo rivolto all’indietro mentre essa procede in avanti più speditamente che mai e la risposta è arrivata dalle urne delle elezioni del 4 marzo, dove i raggruppamenti che si richiamano in modo chiaro al fascismo hanno preso lo zero virgola.

Tutti i movimenti giovani presentano le stimmate sia del dilettantismo allo sbaraglio che dell’apprendista stregone, per l’impatto che hanno con le espressioni formali, cioè le istituzioni, contro cui si battono. Sicché non potevano fare eccezione i Salvini o i Di Maio che li rappresentano. Entrambi questi movimenti – ripeto i movimenti, prim’ancora che Salvini e Di Maio - dovranno bruciare l’illusione di un ritorno ad uno status quo ante sia per quanto riguarda la piccola impresa, rivendicazione presente in entrambi i movimenti, sia per quanto riguardo una nuova prospettiva per le nuove generazioni, presente in modo particolare nel M5S. Basta guardare agli altri paesi europei, innanzitutto alla Germania per capire che in Europa non c’è la prospettiva di una nuova Eldorado, nonostante gli strombazzamenti dei mass media. Bisogna invece dire che proprio la vittoria tanto della Lega di Salvini – tutt’altra cosa da quella bossiana – quanto quella del M5S sono l’espressione del fatto che la crisi si va aggravando; ed è una crisi di sistema, cioè di un movimento generale dell’uomo con i mezzi di produzione orbitanti sullo scambio.

Che Di Maio e tutto il gruppo dirigente del M5S si illudano di tenere a freno il malcontento che altrimenti sfocerebbe in proteste di piazza, è nella logica dell’apprendista stregone che, non conoscendo la potenza contro cui si batte, evoca spiriti che non riuscirà poi a controllare. E la potenza non consiste nel Partito democratico ormai sconfitto, ma nelle leggi del modo di produzione capitalistico che sono tutt’altra cosa dalla leggerezza renziana. E quelle leggi obbligano lo Stato a comportarsi seguendo le sue regole. E quando la coperta è corta non si possono servire due padroni. Detto in soldoni: se si promettono agevolazioni fiscali alle piccole e medie imprese si alimenta l’illusione, queste si indebitano oltremodo e non riuscendo a rilanciarsi impugneranno i forconi e scenderanno in piazza. Allo stesso modo: se si promette il reddito di cittadinanza ai disoccupati e non glielo si dà, questi non si accontenteranno più di segnare una croce sulla scheda, ma scenderanno in piazza. A Di Maio andrebbe ricordato che un certo Robespierre fu mandato al patibolo solo perché difendeva una legge come il Maximum; e per stare più vicini ai giorni nostri, un certo Partito comunista italiano solo 40 anni fa (che nella storia sono un alito) aveva un milione di iscritti e oggi non ce n’è traccia; che Renzi solo 4 anni fa era il segretario di un partito che prendeva il 40% dei voti alle elezioni europee, per non parlare di Syriza in Grecia o di Podemos in Spagna.

Chi è rimasto veramente al palo come “movimento” inespresso è il vecchio proletariato, cioè quella classe operaia del ciclo precedente che si è arenata con il PD, il LeU e l’astensionismo; arenatasi nel senso del minimo sforzo è incapace di qualsiasi balbettio oltre i valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana. Campa cavallo! Non poteva essere diversamente: se non cresce l’accumulazione il proletariato si nega come classe, svanisce ogni riformismo dei tempi andati, si arrocca nella sua azienda, come negli Usa o come in Germania, con la riduzione dell’orario di lavoro e del salario, si ammala di neofobia, teme cioè il nuovo perché non lo vede all’orizzonte. Pertanto tutti i tentativi di rianimarlo da un punto di vista ideologico non lo smuovono, perché è afflitto dalla concorrenza al suo interno e rinascere a nuova vita gli appare impossibile. Il cui motto è: meglio tirare a campare!

Un discorso a parte va fatto per quanto riguarda gli immigrati, una voce che non emerge dalle elezioni del 4 marzo ma che comincia a rumoreggiare come sottofondo. Ci sono alcuni episodi che sono veri colpetti di tosse di una tensione tenuta a stento sotto controllo. I fattacci di Macerata e quello di Firenze, la rivolta dei raccoglitori di arance, la manifestazione a Roma dei lavoratori della Logistica il 24 febbraio, l’indizione di una manifestazione nazionale a Firenze dei senegalesi, giusto per citare quelli ultimi, sono l’altra faccia della stessa medaglia delle rivendicazioni di Salvini contro gli immigrati: ovvero azione e reazione, espressioni di destabilizzazione, di acque che si muovono e che non si possono facilmente far stagnare.

In questa nuova fase si va delineando una sorta di oscillazione della borghesia italiana (e non solo) circa le alleanze, il che vuol dire rapporto privilegiato con i paesi ricchi di materie prime. Il centrodestra con Berlusconi e Salvini che occhieggiano a Est, cioè alla Russia, senza troppi misteri; mentre il Di Maio si è recato sia negli Usa che a Londra per rassicurare i mercati finanziari, cioè la intermediazione delle grandi compagnie per l’acquisto del greggio, ed ha dichiarato piena fedeltà alla Nato

Va spiegato perciò il rancore di Salvini nei confronti dell’Islam in modo particolare, il suo giurare con la corona in mano sul vangelo, si deve poter spiegare – ubi bene ibi patria – col fatto di allentare i rapporti con il Sud e incrementarli con l’Est “cristiano”. Come dire: facciamoci i fatti nostri come Italia sganciandoci dai diktat europei, allacciando seri rapporti con la Russia e fuori dai coglioni gli islamici. Ma deve fare i conti con chi nel Centrodestra è strabico, perché strabici sono alcune categorie imprenditoriali del nord. Detto chiaro e tondo: Salvini rappresenta l’illusione del sciur Brambilla milanese e dell’agricoltore nordico, dell’onesto agricoltore e negoziante dei mercatini rionali del centro Italia, e del don Peppe artigiano o agricoltore meridionale, cioè figure sociali triturate dalla crisi, presenti, tra l’altro, anche nello schieramento dei 5 Stelle tra il Centro e il Sud, mentre la Lega le rappresenta dal Centro al Nord. Questi settori sociali sono quelli che più di tutti reclamano maggiore sicurezza contro zingari e immigrati e che Salvini interpreta in modo più coerentemente reazionario, mentre il M5S segue a ruota senza la sfrontatezza leghista, ma il passo è breve. Non sarebbe la prima volta nella storia d’Italia (e non solo) che ceto medio, piccola borghesia e sottoproletariato fungano da truppe cammellate a sostegno della grande borghesia. Il fascismo rappresentò esattamente questa operazione. Il punto in questione è che il primo dopoguerra si inquadrava in una fase di grande crescita dell’accumulazione capitalistica sicché i ceti medi potevano usufruirne. Oggi no.

Premesso che solo gli ingenui possono pensare che il governo si decida nei due rami del Parlamento piuttosto che nelle segrete stanze della finanza, della Confindustria, delle grandi associazioni di categorie imprenditoriali e cooperativistiche, il punto centrale resta lo stesso: rimarranno fuori gli interessi delle categorie meno abbienti autoctone e gli immigrati, perché bisogna rilanciare l’italianità e questa costa cara.

Conclusione: la ricomposizione in nuovi movimenti sociali, sulle macerie della scomposizione definitiva del vecchio equilibrio economico sociale del ciclo precedente, non presenta le caratteristiche di una nuova stabilizzazione sociale, perché non compare all’orizzonte la possibilità di un nuovo rilancio dell’accumulazione. Lo scenario più probabile è un aumento del caos mentre si sedimenta un malcontento tanto al nord – che può sfociare in un nuovo movimento dei forconi – quanto al sud, foriero di vampate di ribellione improvvise e disordinate, con caratteristiche non ideologiche, ma che si muovono su un terreno ancora tutto da esplorare, che potranno apparire con entrambi i connotati: “reazionarie”, “plebee” e “conservatrici”, per un verso e “rivoluzionarie”, per l’altro verso. Ciò vale, per gli anni a venire, tanto per l’Italia che per il resto d’Europa.

Insomma è cambiata la fase storica del moto-modo di produzione capitalistico e questo vuol dire essere pronti a belle sorprese.

Comments

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clau
Wednesday, 14 March 2018 09:50
Peccato che non ci sia traccia d’alcuna sorpresa di quelli che si considerano avanguardie, gruppi o partiti, marxisti, anarchici, o rivoluzionari di qualsiasi sorta. Di costroro, se effettivamente sono ancora vivi, non se ne vedenemmeno l’ombra, ne in questo articolo, ne altrove, costoro si che sono fermi al palo, anzi ben sotto il palo della storia. Se non fosse così, cosa aspettano a far sentire la propria voce, a mettersi alla testa della radicale richiesta di cambiamento che proviene dalla masse del sud e del nord del paese, dell’intera Europa e del mondo, che cosa aspettano a provare a unire le insignificanti forze, o meglio, debolezze? O sono più testardi di Salvini e Di Maio che pur avendo vinto la sfida elettorale, ma non avendo i numeri per poter governare, s’ostinano a sostenere che non accettano compromessi, nemmeno –è il caso di Salvini- coi propri alleati di coalizione. Insomma, le masse popolari guardano avanti e quelli che si definiscono pomposamente avanguardie continuano a dormire sonni tranquilli, ma col cappello in mano, pronti a prendersi gli ipotetici meriti..
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