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effimera

Dopo le elezioni. Il fantasma di Nicolò Bombacci

di Gianni Giovannelli

1 sL52a3HpxcHPeVj72ENXPwIl complesso marchingegno elaborato dal Partito Democratico e da Forza Italia non ha prodotto il risultato che gli autori speravano. Come accade nei cartoni al celebre Wile E. Coyote la legge elettorale non è servita a nulla e, anzi, ha danneggiato sia Matteo Renzi sia Silvio Berlusconi. Si è rivelata l’ennesima tecnologia difettosa e d’uso impossibile, fornita dal vecchio ceto politico tramite una sorta di Acme Inc. Ancora una volta il velocissimo Beep Beep (Lega e/o Movimento 5 Stelle) ribalta le previsioni e sfugge alla trappola, mentre cadono vittime del loro stesso piano coloro che lo avevano ideato.

Senza dubbio non giunge inattesa una composizione delle due camere che non consente, al momento, di individuare una maggioranza certa. Il Centro Destra era, d’altro canto, l’unica coalizione che, in astratto, poteva raggiungere il risultato, pur trattandosi di eventualità non molto probabile, anche se non esclusa in partenza. E ha fallito l’obiettivo, crollando nei collegi del meridione.

Per quanto tuttavia l’esito interlocutorio e la conseguente situazione di stallo fossero non solo previsti, ma forse anche in qualche modo promossi, la composizione dei futuri gruppi parlamentari ha invece colto di sorpresa, trovando impreparato l’intero apparato di governo. La ripartizione dei voti e l’assegnazione dei seggi determinano una situazione che rende incerto il nuovo assetto di gestione del potere legislativo e di composizione del potere esecutivo.

L’estrema prudenza con cui il capitale finanziario sta procedendo nell’esaminare, valutare e giudicare le forze in campo mi sembra un segnale chiaro di timore per le conseguenze nell’immediato futuro. Soprattutto è il sintomo dell’indecisione circa la strada più utile per conservare il controllo sui sudditi, sulle loro esistenze ormai acquisite come valore nel progetto di estrazione del profitto. Tentare un governo costruito in forme nuove e fantasiose, come in Grecia, o giocare, come in Spagna, la carta di nuove votazioni, ripetendo all’infinito il gioco? Corrompere, convincere o reprimere? Nulla, al momento, è deciso.

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Tuttavia, il risultato del 4 marzo 2018 non può comunque essere ignorato, quale che sia l’opzione tattica del potere e la scelta di comportamento sociale, sul fronte opposto, dello sciame precario, dei sudditi. La votazione referendaria aveva anticipato la prossimità di una svolta, non tutti lo avevano compreso, le strutture di comando contavano anzi sulla sopravvivenza delle forze politiche che giudicavano impossibile prescindere dal centro (la regola mai messa in discussione era quella). Gli osservatori erano preparati ad una nuova edizione delle larghe intese, con le formazioni più grandi (Forza Italia e PD) costrette a convivere dallo stato di necessità, con il supporto decisivo dei raggruppamenti minori, avidi commensali e calamita in caso di cambio di casacca. Uno scenario tradizionale, in qualche modo rassicurante, con solida maggioranza affidata a Travicello Gentiloni. Invece, per la troppa arroganza, quel mito è crollato di colpo. Il quadro della rappresentanza parlamentare è profondamente mutato, presumibilmente in modo irreversibile.

La lunga vicenda del riformismo italiano – quella cattolica e popolare e quella laica di orientamento socialcomunista – si avvia verso il tramonto, in direzione opposta a quella originaria (l’alba, il Sole dell’avvenire). Il Partito Democratico ha subito una secca sconfitta in quasi tutti i collegi del maggioritario, attestandosi sotto il 20% nel proporzionale. Di poco aiuto a Renzi sono risultati gli ascari legati a Prodi, Bonino, Pisapia e Casini; la bocciatura è senza appello. Il rottamatore è incappato in una rotta e ha trascinato nella disfatta il malinconico manipolo di L&U, privo di un programma comune, alleanza costruita sulla sabbia mobile dell’ambiguità, dell’indugio, del timore, dell’incertezza. Bersani, Grasso e Boldrini avevano sostenuto i tre governi della passata legislatura, complici e collaboratori della macelleria sociale attuata in danno dei lavoratori; non avevano credibilità nel proporsi quali oppositori radicali del sistema, sono definitivamente confinati al ruolo di comparse nell’allestimento dello spettacolo. Ha osservato, sempre caustico, il professor Luciano Canfora: il partito democratico è destinato a morire, non ha oramai nessuna possibilità di recupero …. è probabile, forse del tutto plausibile con il personaggio, che si formi un gruppetto parlamentare a trazione renziana, il manipolo dei fedelissimi che realizza la trincea della sopravvivenza. Comunque è una fine ingloriosa.  

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Lo sforzo titanico del suo inventore non è stato sufficiente e anche Forza Italia pare giunta ormai al capolinea; la quarta gamba della coalizione (una gamba di cui Matteo Salvini avrebbe fatto volentieri a meno) è così piccina che non è utile neppure come stampella e questo rende ancor più evidente il primato della Lega (ex Nord, ora italiana), largamente superiore alla lista di Berlusconi. I neofascisti di Giorgia Meloni (nostalgici con moderazione, in doppiopetto come quelli dell’onorevole Michelini al tempo della prima repubblica) escono ridimensionati dalla competizione; e sparisce, in sordina, senza clamore, la truppa un tempo invincibile di Comunione e Liberazione. Il centrodestra, battuto nei collegi del sud, è ormai, piaccia o meno, a trazione leghista; la sezione italiana del Partito Popolare Europeo (di cui Antonio Tajani è vicepresidente) ha perso il confronto interno alla coalizione e questo avrà un peso negli equilibri degli organismi dell’Unione, posto che Matteo Salvini è vicepresidente del gruppo sovranista di destra ENL (insieme agli austriaci di FPO e ai francesi di Marine Le Pen). La ormai prossima consultazione europea del 2019, con il sistema proporzionale puro, prepara una rappresentanza italiana in cui le due correnti storiche (socialisti e cattolici conservatori) diventeranno minoritarie rispetto a Lega e Movimento 5 Stelle. Con grande ipocrisia le grandi testate giornalistiche evitano di affrontare la questione, consapevoli che si tratta di un bel pasticcio, sempre sperando che i nodi si sciolgano da soli (ma ultimamente il tempo sembra preferire il ruolo del virus a quello del medico).

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Infine, superando le più rosee aspettative e in barba alla campagna mediatica (o forse grazie alla campagna mediatica ideata da Wile E. Coyote), il Movimento 5 Stelle ha superato ampiamente la soglia del 30% diventando il partito di maggioranza relativa. L’affermazione al sud non solo certifica il rastrellamento del voto degli scontenti in quelle regioni ma ha reso anche impossibile, sostanzialmente disinnescandola, la grande coalizione. La composizione delle due camere è attualmente un ginepraio quasi inestricabile, nonostante le manifestazioni di ottimismo distribuite con cadenza ormai quotidiana.

L’esito delle elezioni evidenzia una maggioranza assai ampia di popolo che rivendica a gran voce l’abrogazione totale della legge Fornero (e del Jobs Act), sia in tema di pensione sia in tema di licenziamento; e la composizione delle Camere rispecchia tale orientamento che accomuna 5 Stelle, Lega e (obtorto collo) la pattuglia di L&U. Eppure, come abbiamo imparato dall’esperienza greca, la cabina europea di comando impedirà questa soluzione, a costo di ricorrere a violenza o minaccia (al momento i funzionari si limitano a suggerire, con grande cortesia, buon senso e ragionevolezza). Prima la carota, poi, ove occorra, il bastone.

Il Movimento 5 Stelle intende introdurre una sia pur pallido reddito di cittadinanza mentre la Lega (diventata sovranista e nazionale) assicura decorose pensioni, rilevanti interventi per le famiglie bisognose, e altri provvedimenti similari. Hanno raccolto consenso promettendo di intervenire dentro l’area che si colloca nella fascia di povertà, ma i vincoli imposti con l’obbligo di pareggio del bilancio non permetteranno loro di mantenere l’impegno preso. Il processo di sussunzione è in corso, la commissione europea e soprattutto la BCE non accettano diserzioni in questa guerra; la forbice fra ricchi e poveri deve allargarsi per consentire di mettere a valore (e tenercela) l’esistenza dei sudditi. Non consentiranno ad una maggioranza parlamentare così strana e contraddittoria di esprimersi in forma di governo.

Lo stesso vale per la terza svolta annunciata all’elettorato e dall’elettorato premiata: la drastica riduzione delle imposte e la liberazione dal giogo di malavita e corruzione. La Lega indica una Flat Tax ovvero l’imposta unica del 15% sul reddito (Berlusconi per una volta meno generoso la propone più alta, al 23%). Dimentica di aver votato in fretta e furia la modifica costituzionale sul pareggio di bilancio, in esecuzione dell’ordine proveniente dalla BCE, pena sanzioni alla greca in ipotesi di mancato adempimento. La corruzione e la criminalità organizzata sono infine due pilastri su cui poggiano le funzioni di governo; per nessuna ragione al mondo, in assenza di una rivoluzione o di un’insurrezione, i funzionari dell’apparato politico amministrativo rinunzieranno al loro uso, necessario per sopravvivere.

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In realtà ci troviamo in una situazione di stallo. Nel pieno del viaggio attraverso la transizione c’è una sosta alla stazione di servizio. Senza tuttavia che le insidie consentano un vero riposo, entrambi i vincitori di queste elezioni sono al tempo stesso prigionieri del ruolo assunto e avidi di risultati. Lega e 5 Stelle non possono mediare e non vogliono mediazioni, hanno fretta di mettersi al comando. Nel frattempo Travicello Gentiloni, silenzioso come sempre, rimane al suo posto, con i ministri al completo. Bisogna capirlo: più tempo ci mettono meglio è, dal suo punto di vista. E comunque non si rassegna, rifiuta di guardare in faccia alla realtà.

Appare francamente difficile che si realizzi una stabile alleanza di 5 Stelle e PD o di 5 Stelle e Lega o PD e Centro Destra al completo; per poter costruire un governo sarebbe necessaria una defezione ampia, un vero esercito di transfughi (una nuova edizione dei responsabili che hanno caratterizzato le precedenti legislature). Difficile per via del crollo centrista, e anche del carattere composito del centrodestra (spesso ai confini della rissa). Forza Italia poteva tessere, per sua natura, una trama; ma ha perso e la Lega è diversa. La BCE ha risolto l’enigma greco piegando Tsipras; Tsipras era però nato nel bacino politico della sinistra tradizionale e ne aveva in parte acquisito i comportamenti. Ne è uscito un compromesso con un esecutivo destra-sinistra simile a quello realizzato nel 1958 in Regione Sicilia grazie al missino Cataldo Grammatico e al comunista Emanuele Macaluso. Anche Podemos in Spagna ha radici nella sinistra storica; e dunque non ha avuto remore nel mediare durante la crisi catalana, evitando anche di rompere in via definitiva con l’ormai defunto partito socialista spagnolo.

È vero che Massimo D’Alema ebbe a definire la Lega una nostra costola ravvisando con essa una forte contiguità sociale; ed è vero che nel Movimento 5 Stelle prevale la componente più legata ai valori della sinistra che a quelli della destra. Tuttavia, a differenza di Tsipras e Pablo Iglesias, sia Salvini sia Di Maio si caratterizzano in forme ostili e contrapposte tanto nei confronti della socialdemocrazia che della componente cristiano moderata; il loro elettorato vivrebbe il compromesso di governo come un tradimento. Solo una clamorosa dissoluzione dell’una o dell’altra formazione potrebbe consentire un esecutivo di legislatura.

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Queste considerazioni non risolvono i nodi che ci troviamo oggi ad affrontare; si limitano, per forza di cose, ad esaminarli, ma con il preciso scopo e con la ferma volontà di procedere in un nuovo modo, consapevoli di essere ormai al bivio, o meglio alla resa dei conti, in anticipo rispetto alle previsioni della vigilia. Meglio così. Questa dannata bonaccia che impedisce la navigazione ci rende solo inquieti, il cammino della transizione è ancora lungo, bisogna assolutamente rimetterci in viaggio per riprenderci la nostra libertà.

La lezione del 4 marzo 2018 dobbiamo impararla pienamente. Archiviamo dunque le suggestioni che spingono verso il ripetersi di esperienze fallite e fallimentari; non solo L&U ha esaurito ogni possibile evoluzione e/o crescita, ma in generale possiamo archiviare l’ipotesi di abolire lo stato di cose presente partecipando alle elezioni nazionali. Diversa è l’articolazione municipale, in cui la possibilità di intervento, dentro singole e specifiche realtà territoriali, potrebbe presentarsi. Non è un programma naturalmente; è solo una considerazione legata alla necessità di essere multiformi, imprevedibili, fantasiosi. Il programma rimane quello di riaccendere il conflitto nell’ambito del sociale, costruendo ovunque sia possibile i laboratori del dissenso, l’autonomia dell’esistenza, riaffermando nella pratica quotidiana una vera e propria rivolta della cooperazione.

La BCE e la Commissione Europea non si presentano alle elezioni; non si presentano neppure coloro che lavorano nelle strutture del capitalismo finanziarizzato. E non accettano tuttavia un ruolo di astenuti, si guardano bene dal rispettare l’esito delle consultazioni. Quando è sgradito reagiscono con violenza. Dopo aver piegato la Grecia hanno usato il carcere contro le rivendicazioni catalane di indipendenza. Tollerano invece ogni opzione autoritaria quando non tocca l’accumulazione di profitto e si limita a colpire i migranti, i diversi, i disobbedienti. Questa è la garanzia richiesta per consentire o imporre un governo in Italia: non contrastare il processo di sussunzione e di precarizzazione.

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Nei giorni scorsi il presidente repubblicano degli Stati Uniti, Donald Trump, si è presentato in conferenza stampa alla testa di un gruppo di operai siderurgici, che lo sostenevano con grande convinzione. Annunziava la decisione di applicare il vecchio dazio all’importazione di acciaio e alluminio, così da rendere competitivo il prezzo della produzione nazionale, alterando il mercato. E’ davvero incredibile assistere alla recita di un vecchio speculatore immobiliare reazionario, in veste di paladino del lavoro e del protezionismo. Altro che libera concorrenza!

Nella vecchia Europa risorge, al tempo stesso, anche la destra sociale . La reazionaria Marine Le Pen difende i posti di lavoro contro la democratica Miriam El Khomri e contro la legge che liberalizza i licenziamenti in Francia, nel pieno della campagna elettorale conclusasi con la sparizione dell’antico partito socialista.

Non ci possiamo dunque stupire di fronte allo spettacolo cui abbiamo assistito di recente anche in Italia. Confermando la fiducia al governo la sinistra del partito democratico è risultata decisiva per l’approvazione del Jobs Act, mentre si opposero al provvedimento con una lunga battaglia parlamentare la Lega e il Movimento 5 Stelle; le periferie e i diseredati hanno scelto in massa chi li aveva difesi e travolto chi li aveva massacrati. Non esiste più spazio per le posizioni del riformismo liberista, per la concorrenza democratica e per il mercantilismo indisciplinato. Come mi faceva notare, con ragione, l’amico Ed Emery, nel Regno Unito resistono bene i due partiti tradizionali; e certamente anche Macron è stato capace di battere Marine Le Pen con un programma liberal-liberista. Tuttavia la tendenza generale si profila diversa; non solo in Europa, ma un po’ in tutto il mondo la socialdemocrazia storica e il conservatorismo illuminato hanno terminato il loro ciclo vitale, sono ormai in archivio.

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Al tempo stesso, come avviene nei periodi di disordine e di transizione, lo scontro si allarga e tende a farsi cruento. Il centro cede il passo alle ali estreme degli schieramenti. Spira un vento di guerra e di conflitto.

L’esperienza dei governi popolari nei paesi del sudamerica ha chiuso la fase espansiva e mostra evidenti segni di crisi, piegata dalla perdita di consenso, dalla corruzione e dall’incapacità di rinnovarsi. Il Venezuela è una polveriera; in Brasile il vecchio Lula è a un passo dal carcere per frode mentre emergono personaggi quali Jair Bolsonaro (di fronte al quale Salvini potrebbe sembrare Danilo Dolci) o il piccolo Trump Joao Doria, neosindaco di San Paolo (San Paolo ha quasi 12 milioni di abitanti, molti più dell’Austria). Asia, Medio Oriente, Africa … diminuiscono i paesi in cui non prevalgono le divise, la prevaricazione, la violenza, la guerra.

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Qui da noi prevale invece, almeno oggi, la bonaccia; ma l’odore è di tempesta, non c’è dubbio. L’aspettiamo. Timorosi più che fiduciosi.

Non possono apparire convincenti i moniti del presidente Mattarella a considerare il bene del paese. Quale bene e quale paese viene da chiedersi, ascoltando pensieri banali, valutazioni prive di progetto, senza interlocutori reali, senza indicazioni concrete. Anche lui, a ben vedere, appartiene al ceto politico che ha perso le elezioni; il suo mondo di cattolico siciliano moderato e popolare (non populista) non ha ormai più seguito nell’isola. Rappresenta il passato.

L’elettorato intanto preme, ansioso. Da Matteo Salvini i soggetti impoveriti, esasperati, delle periferie e dei borghi industrializzati, pretendono, come ha loro promesso, che in quindici giorni vengano rimpatriati i migranti senza permesso, lasciando liberi alloggi e posti di lavoro; e che si provveda subito all’abrogazione della legge Fornero. Da Luigi Di Maio i diseredati del meridione si aspettano il via al reddito di cittadinanza, non certo per campare a sbafo, ma più modestamente per sopravvivere dentro la crisi; e contano di avere presto un lavoro, un reddito, un’esistenza dignitosa. Speranze vane, perché fondate solo sulla scheda riposta nell’urna. La BCE e la Commissione Europea non intendono concedere nulla di tutto questo; resistono, armate e disposte allo scontro.

L’alternativa reale che si trovano di fronte i due vincitori delle elezioni  sta nel mutare rotta, accettare un compromesso al ribasso e, ciascuno, per quanto possibile nella propria compagine, farsi Tsipras; oppure resistere al ricatto, mantenere ferma la posizione, scalciare, gridare, sfidare. La prima soluzione li condurrebbe a rapida uscita di scena, per quanto il trasformismo abbia nel nostro paese solide tradizioni. E la seconda soluzione, per carenza di numeri e soprattutto per incapacità di mobilitare la piazza, è destinata a rimanere una vana lamentela. I 5 Stelle e la Lega non hanno alcuna esperienza in tema di sciopero, di agitazione e di lotta sociale; non sono in grado di reggere uno scontro aperto. Dunque non se ne farà nulla. Par essere questa l’ultima moda, di ispirazione fiamminga.

Quando non è possibile formare un governo, se ne fa a meno. Si procede prorogando. In Germania Frau Merkel è ancora impegnata nelle trattative per formare un esecutivo; in Belgio per 541 giorni rimasero felicemente senza governo. In Olanda il liberale Mark Rutte ha impiegato oltre 200 giorni per presentarsi al parlamento con la nuova compagine, dopo le elezioni del marzo 2017; la crescita dell’economia in quel periodo ha segnato un record, 3,3%. Nello stesso arco di tempo la disoccupazione è diminuita. Travicello Gentiloni studia i precedenti, disponibile a ricoprire il ruolo del traghettatore. Il rinvio potrebbe essere la soluzione creativa della crisi italiana, con il pieno assenso della BCE.

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Ma potrebbe anche finir male. Potrebbe esserci una progressione geometrica dell’incertezza, uno sviluppo delle contraddizioni. L’opzione autoritaria, comunque ineludibile, chiunque sia a prevalere, è già ora ed oggi un dato oggettivo. Si tratta di vedere solo quanto autoritaria.

La contrapposizione feroce, considerata la ragnatela di impegni presi in sede comunitaria, rischia di provocare una piccola catastrofe. E una sequela di accuse su chi debba assumersi le responsabilità del disastro.

È una ipotesi marginale, d’accordo. Ma nessuno è davvero in grado di escluderla come possibile, concreta.

La vicenda catalana è assai istruttiva. Di fronte all’incertezza il capitale finanziario interviene, duramente, assicurando il flusso dei profitti. Nessuno è disposto a morire per Salvini o per Di Maio.

La via d’uscita non potrebbe che essere quella di un esecutivo di destra, costruito a tavolino, imposto in qualche modo. Di destra e al tempo stesso sociale. Nazionalsocialista. Trumpista, direbbe Bifo. Italian first per capirci. Lasciando spazio alle adesioni di una sinistra collaborativa, quella che vota il Jobs Act e partecipa alle celebrazioni della rivoluzione bolscevica.

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Il collaborazionismo, anche ideologico, è una tentazione. Torna sulla scena il fantasma di Nicolò Bombacci, personaggio ormai dimenticato. Nacque a Civitella di Romagna nel 1879. Socialista della prima ora, irascibile e coraggioso, sempre in prima fila durante le lotte, estremista nemico del compromesso, massimalista convinto. Divenne segretario del PSI, fra il 1919 e il 1920, negli anni caldi del primo dopoguerra.

A Livorno, nel 1921, Bombacci fu tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia, con Gramsci e Bordiga; prese parte alla delegazione di partito al funerale di Lenin. Durante il primo decennio del fascismo ebbe incarichi presso le strutture diplomatiche dell’Unione Sovietica; poi, lentamente ma progressivamente, andò avvicinandosi al fascismo, corrente sociale “di sinistra”.

Nel 1943 aderì alla Repubblica Sociale Italiana, contribuendo alla stesura del programma sociale su richiesta del suo vecchio compagno, Benito Mussolini. Sosteneva che si preparasse un trionfo del lavoro, che fosse la naturale continuità della lotta bolscevica, aggiornata. Catturato dall’esercito partigiano di liberazione Bombacci venne fucilato a Dongo il 28 aprile 1945; pare sia morto gridando Viva il socialismo! L’ultima immagine che possediamo lo ritrae appeso per i piedi a Milano, in Piazzale Loreto, accanto al Duce.

In uno dei suoi ultimi comizi, rivolgendosi ai lavoratori di una fabbrica lombarda, disse: mi chiedete se sono ancora io, l’amico di Lenin che sono stato un tempo. Sissignori, sono sempre lo stesso!  Bombacci è sepolto al Campo X del Cimitero Maggiore, fra i morti fascisti.

Abbiamo rievocato un fantasma, oggi e non a caso. La chiamata con il corno delle istituzioni cerca volontari disposti a nobilitare l’opzione autoritaria, in salsa popolare, populista, liberale o socialista. Basta aderire e collaborare. Al momento non si corre certo il rischio di essere fucilati a Dongo e neppure è richiesta la buona fede di Bombacci.

Comments

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marco saba
Tuesday, 20 March 2018 12:33
Fa tenerezza di come all'autore sia sfuggito che viviamo in un regime autoritario, e non autorevole, da gran tempo... La situazione è grave ma non è seria.
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