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Se Lenin incontrasse Casaleggio

Il partito digitale oltre i limiti dei 5 Stelle

di Paolo Gerbaudo

partito digitaleSe si vuole fare i conti con il presente bisogna andare oltre quel rifiuto totale del partito digitale che finora ha dominato il dibattito ed entrare nel merito delle nuove strutture organizzative e delle loro effettive potenzialità. Il partito piattaforma prefigurato dal Movimento 5 Stelle, pur con tutti i suoi evidenti difetti, è il prototipo di una nuova forma di partecipazione e di gestione del consenso, adeguata all’esperienza sociale contemporanea. La sfida è questa.

Il successo registrato dal Movimento 5 Stelle nelle ultime elezioni politiche, in cui è divenuto il primo partito italiano e a seguito delle quali potrebbe infine andare al governo in alleanza con la Lega Nord, ha scatenato un intenso dibattito sul destino della forma-partito nell’era digitale. Secondo gli attivisti dei 5 Stelle – che continuano a insistere che non si tratta di un partito ma di un “movimento” – la loro struttura organizzativa, che si incentra sull’utilizzo della piattaforma partecipativa Rousseau, il cui nome di battesimo fa riferimento al famoso filosofo ginevrino, costituisce un cambiamento di portata rivoluzionaria destinato a imporsi sulla scena politica in Italia e altri paesi. Secondo i critici siamo invece di fronte a uno specchietto per le allodole o a una pseudo-democrazia ben peggiore della democrazia tradizionale. Dove sta la verità?

Come sostengo nell’ebook “Il Partito Piattaforma”, recentemente pubblicato dalla Fondazione Feltrinelli, se vogliamo veramente capire il significato del Movimento 5 Stelle e il modo in cui manifesta la trasformazione della società e della politica nell’era delle piattaforme digitali come Facebook, Instagram e AirBnB, bisogna sfuggire alla classica tentazione di fare di tutta l’erba un fascio; ovvero di considerare i problemi pratici manifestati nell’applicazione di un certo modello organizzativo come prova definitiva della sua insufficienza.

Questa tentazione è tanto più forte dopo la recente virata a destra dei pentastellati, a partire dall’adozione di una retorica anti-immigrati, per finire con il recente negoziato per la formazione di un governo con la Lega Nord di Salvini, una delle formazioni più xenofobe e reazionarie del vecchio continente.

I problemi della democrazia digitale praticata dal Movimento 5 Stelle sono evidenti a tutti, a partire da molti dei suoi attivisti e iscritti; e si sono manifestati in maniera sempre più forte in tempi recenti, come risultato della normalizzazione del partito, della sua entrata definitiva nel mainstream della politica italiana. Abbiamo visto tutti i limiti di un’impresa digitale a conduzione familiare come la Casaleggio e Associati, che nonostante non avesse le competenze necessarie, si è cimentata nella creazione della piattaforma Rousseau, la quale visto il suo carattere artigianale, e l’utilizzo di tecnologie obsolete, è stata ripetutamente bucata dagli hacker informatici. Abbiamo assistito a consultazioni online che si sono concluse frequentemente con percentuali bulgare: come successo con Luigi Di Maio che ha ottenuto l’80% dei voti nella consultazione del Settembre 2017. O ancora abbiamo visto processi partecipativi di elaborazione del programma sconfessati dall’editing condotto dalla leadership del partito, come avvenuto dopo le ultime elezioni.

Insomma le ragioni per criticare la struttura organizzativa del 5 Stelle certo non mancano. Ma sono sufficienti a condannare in toto il nuovo modello di partito politico che si profila dietro questi tentativi? Non si rischia in tal modo di ricadere nel classico sospetto della sinistra intellettuale verso qualsiasi fenomeno che non corrisponda al modello novecentesco della lotta di classe e della forma-partito leninista?

Il Movimento 5 Stelle è con tutti i suoi evidenti limiti, sia strutturali che contenutistici, il prototipo di una nuova forma partito dell’era digitale, con cui volenti o nolenti tutte le formazioni politiche dovranno fare i conti se non vogliono finire nell’irrilevanza. Di fatto è solo la manifestazione nel nostro paese di un processo di trasformazione organizzativa di respiro globale, che può essere visto anche nelle innovazioni organizzative introdotte da formazioni come Podemos, France Insoumise e Momentum che, a dispetto delle loro differenze, si stanno cimentando nella re-invenzione della forma-partito nel ventunesimo secolo.

Il partito digitale, o più propriamente partito-piattaforma, traduce nello spazio politico la logica delle piattaforme digitali dell’era delle app e dei social media, con il loro modello di iscrizione gratuita, finalizzata alla raccolta di dati e alla misurazione costante della temperatura dell’opinione pubblica; la loro offerta di disintermediazione radicale nella comunicazione pubblica; e la loro costruzione di uno spazio di interazione collettiva sostenuto da algoritmi sempre più complessi.

Con tutti i loro limiti i 5 Stelle hanno avuto l’ammirevole presunzione di provare a sviluppare un modello organizzativo che potesse fare i conti questa nuova logica dell’economia e dell’esperienza sociale contemporanea. Tutto questo mentre la sinistra faceva la parte del vecchio brontolone e misoneista, che vede tutto ciò che di nuovo emerge nella società un sintomo di decadenza e corruzione rispetto a quella che essa considera come l’età dell’oro: quella del mondo industriale e delle sue forme di organizzazione.

Continuare a rimpiangere il declino del partito massa non serve a niente se non a allungare quella “malinconia della sinistra” che Wendy Brown denunciava già 20 anni fa – figuriamoci oggi di cosa dovremmo parlare, specie in un paese come l’Italia. Piuttosto è necessario pensare criticamente come il modello del partito-piattaforma può essere adottato e modificato per costruire una nuova politica di partecipazione di massa che faccia i conti con il cambiamento radicale della nostra esperienza sociale.

 

Delega addio?

La democrazia rappresentativa si è organizzata attorno al meccanismo della delega, e in particolare della delega fiduciaria che lascia uno spazio ampio di azione al rappresentante, rispetto ai rappresentati. Da Thomas Hobbes e John Locke, fino a Jean-Jacques Rousseau e Edmund Burke, i grandi filosofi politici della modernità si sono interrogati sulla natura della delega e della rappresentanza; osteggiandola come nel caso di Rousseau – che non ha a caso ha un posto privilegiato nel Pantheon dei 5 Stelle – o considerandola invece necessaria a un corpo politico sano come nel caso di Edmund Burke, che raccomandava che il rappresentante una volta eletto non fosse legato a nessun mandato voluto dall’elettorato.

Così la delega, nella sua forma fiduciaria, piuttosto che mandatoria, è divenuta di fatto il perno del sistema democratico della modernità; non solo nel rapporto tra cittadini e istituzioni, attraverso la centralità del momento elettorale, ma anche nel rapporto tra cittadini e organizzazioni. La delega è infatti l’elemento chiave di quelle che la scienziata politica statunitense Theda Skocpol, ha chiamato “organizzazioni civiche federate”, modello organizzativo a cui corrispondono sindacati e partiti del Novecento.

Tali organizzazioni si sono costituite a partire da alcune “unità di base” con carattere territoriale, come le sezioni dei partiti socialisti, o le cellule dei partiti comunisti. Nella forma-partito novecentesca queste unità di base erano considerate il luogo centrale della partecipazione. Era nelle loro sedi che si tenevano riunioni periodiche, aperte a tutti gli iscritti. E era a partire da esse che si strutturava verso l’alto, l’organigramma del partito politico, con delegati eletti al livello più basso che andavano a rappresentare gli iscritti a livello più alto - provinciale, regionale o nazionale - con organi di secondo o talvolta terzo livello, come l’assemblea nazionale presente in tutti i partiti politici, responsabili per l’elezione indiretta degli organi dirigenti, del segretario, del comitato centrale, e dei probiviri, come pure per l’elaborazione della linea politica del partito.

Questo sistema di rappresentanza multilivello, con organi di secondo e terzo livello, e sistemi di elezioni indiretta, è il sistema che viene preso di mira nella pars destruens del modello organizzativo del partito digitale. Questo non significa che il partito digitale sia completamente privo di unità di base – di sezioni, cellule, o comitati elettorali – ma piuttosto che il rapporto tra di esse e l’organizzazione a livello nazionale in qualche modo si ribalta. L’unità di base non è più la radice del partito, in cui la volontà della base si esprime in forma più autentica, per essere poi raffinata e tradotta in forme sempre più semplificate salendo mano a mano nel tronco del partito fino a raggiungerne la chioma. Piuttosto i gruppi territoriali sono, per seguire la metafora dell’albero, le foglie del partito, il mezzo attraverso cui la sua linea politica e volontà collettiva viene espressa e messa in atto in diverse località.

Questo ribaltamento è visibile a diversi livelli. Prima di tutto l’assemblea nazionale dei delegati, che rappresentano i gruppi locali, viene sostituita in buona parte dalla piattaforma, ovvero un’assemblea diretta di tutti gli iscritti, che hanno diritto di voto senza bisogno di versare una quota annuale cosí come avveniva nei partiti-massa. Si tratta di un cambiamento rivoluzionario, perché di fatto esautora i quadri, quell’intermediario classico tra base e vertice che ha dominato la politica novecentesca. In secondo luogo, le unità base non sono più spazi di decisione, visto che la decisione viene demandata all’assemblea digitale, ma piuttosto spazi di dibattito e azione, che si fanno carico di sostenere praticamente la linea collettiva decisa dal partito e di adattarla alle condizioni locali.

Questa tendenza è chiaramente visibile nel Movimento 5 Stelle, dove non esistono sezioni locali e dove i MeetUp sono stati privati a partire dalla famosa “lettera ai Meetup” del 2013 di qualsiasi pretesa di essere luogo di rappresentanza; o ancora nella France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon i cui gruppi base, sono gruppi di affinità descritti come “gruppi di appoggio” e contano un massimo di 15 persone, dovendo dividersi in due qualora superino quel numero, o ancora dentro Podemos in cui i circoli locali, non sono spazi di rappresentanza, ma piuttosto anch’essi luoghi informali di discussione e azione.

Per molte persone cresciute a sinistra, questo abbandono del sistema della delega su base territoriale e la sua sostituzione con consultazioni condotte a livello nazionale sulla piattaforma digitale viene vista come una perdita netta di democrazia. Le ragioni per sostenere questa tesi non mancano. In molte occasioni, vedi il caso del MeetUp nei 5 Stelle, l’indebolimento dei gruppi locali, è stato il risultato della volontà politica di mettere la museruola agli attivisti che cominciavano a lamentarsi delle decisioni prese dal vertice. Sostituire al sistema della delega, con un sistema OMOV (one man one vote) o per dirla con i 5 Stelle “uno vale uno”, significa accentrare le decisioni, in modo per certi aspetti simile, per altri radicalmente diverso rispetto al famoso “centralismo democratico” di leninista memoria. Inoltre, privando i gruppi locali di potere decisionale, tale sistema corre il rischio di farli sentire superflui, e quindi di demoralizzare i militanti, privando il partito di quelle energie che sono fondamentali per il suo successo. Infine, esiste un rischio di individualizzazione dell’esperienza di partecipazione, quando il luogo decisionale, diviene lo schermo di un computer o di un telefono o di qualsiasi altra “personal device”, piuttosto che lo spazio collettivo di una riunione fisica.

Tuttavia non bisogna perdere di vista i buoni motivi che sottendono questa trasformazione. Il “centralismo ciberdemocratico” è infatti il risultato di alcune considerazioni condivisibili sulla trasformazione dell’esperienza sociale nell’era digitale, e del modo in cui essa rende inattuabile il sistema di rappresentanza territoriale. In fondo, il meccanismo della delega territoriale era dovuto prima di tutto a una questione squisitamente tecnica. In un’era pre-digitale, la partecipazione diretta degli iscritti a discussioni e decisioni era se non impossibile, come sostenuto da Robert Michels, quantomeno difficilmente realizzabile e estremamente costosa. Sindacati e partiti indicevano di tanto in tanto referendum interni. Ma questi erano poco assidui e costituivano una forma molto limitata di consultazione della base, usata quasi esclusivamente di fronte a scelte altamente contestate, in cui la leadership si sentiva in difficoltà e voleva essere certa di avere la legittimazione della base.

La diffusione della tecnologia digitale nella vita di tutti i giorni, ha di fatto rimosso, o quantomeno ridotto, alcuni dei tipici ostacoli alla democrazia diretta, così come sono stati discussi da autori classici, come Aristotele, Montesquieu, Michels o Schumpeter. Possiamo identificare tre problemi classici: il problema del luogo della decisione, il problema della carenza di informazione, e il problema dell’organizzazione.

Il primo problema fa riferimento alla difficoltà tecnica di radunare tutti i cittadini di un grande stato-nazione nello un luogo fisico dove condurre discussioni e decisioni. Questo problema di cui si occuparono Montesquieu, Rousseau e Michels – è stato di fatto superato dalla possibilità di effettuare interazioni di massa in uno spazio virtuale. L’utilizzo delle piattaforme decisionali online permette inoltre di ridurre radicalmente il “costo” della partecipazione alla discussione e alla decisione, rendendo la partecipazione indipendente dal luogo fisico in cui uno si trova.

Il secondo problema, discusso sia da Michels che Schumpeter, riguarda invece la necessità di possedere una conoscenza approfondita di varie tematiche politiche il cui carattere è spesso altamente tecnico. È evidente che questo problema non è superato dalla semplice abbondanza, o sovrabbondanza di informazione dell’era digitale. Gli stessi 5 Stelle hanno dovuto ravvedersi rispetto alla necessità di creare personale politico qualificato, anche arruolando professori affini come fatto nell’ultima campagna elettorale. Tuttavia questo problema è meno pressante che in passato, anche grazie a sistemi come Liquid Feedback dei partiti pirata, che permette ai cittadini di delegare la decisione su determinati temi a esperti della questione.

Il terzo problema, quello dell’organizzazione, riguarda la necessità di un intermediario tra i voleri dei singoli iscritti e le decisioni collettive, che tipicamente prende la forma dell’organizzazione e delle sue gerarchie interne. Secondo tecno-visionari come Howard Rheingold e Clay Shirky, anche questo problema verrebbe spazzato via dall’innovazione tecnologica e saremmo sulla soglia di una società in cui è possibile “organizzarsi senza organizzazioni” per citare Shirky. Tuttavia, come vedremo, questo problema tra i tre, rimane il più lungi dall’essere risolto.

Questi sviluppi suggeriscono che la riunione del mercoledì sera, che ha costituito per oltre un secolo, il meccanismo principe per collegare base e partito è in buona parte superata, o quantomeno non è più il solo luogo decisionale possibile. Del resto la riunione di sezione era il risultato di un particolare assemblaggio tecno-sociale, di un’era in cui il tempo quotidiano era standardizzato e ritmato dai turni delle fabbriche e gli orari dei negozi. Ma questo dispositivo organizzativo e decisionale ha meno rilevanza in una società i cui tali orari fissi sono saltati, in cui i ritmi quotidiani di molte persone sono completamente sfasati, per non parlare della crescita del pendolarismo o di orari di lavoro sempre più lunghi e estenuanti che rendono difficile a molti lavoratori partecipare alle riunioni. Inoltre bisogna riconoscere che in quanto tale la riunione di sezione era escludente di tutta una serie di categorie, a partire dalle donne costrette a rimanere a casa per accudire i figli mentre il marito andava alla riunione, le persone che vivevano in zone rurali o molto periferiche dove non c’erano sedi di partito vicine o i disabili e gli anziani con seri problemi di mobilità.

Utilizzare piattaforme digitali, per condurre discussioni e effettuare decisioni, permette quantomeno in teoria di includere più facilmente queste persone che altrimenti sarebbero escluse dal processo decisionale, aumentando la quantità della partecipazione, seppur a costo di una certa perdita della qualità della partecipazione. È significativo che il governo britannico dell’arci-conservatrice Theresa May abbia espressamente proibito ai sindacati di indire consultazioni su sciopero con strumenti digitali, sapendo che in tal modo sarebbe molto più facile per I sindacati raggiungere il quorum del 50% degli iscritti che in Gran Bretagna è necessario per indire uno sciopero legale. Dunque di per sé utilizzare piattaforme decisionali può essere molto democratizzante e può aiutare a affrontare quell’apatia politica con bassi livelli di partecipazione che ha contribuito a incrinare la legittimità del processo politico.

Questo certo non significa che la politica debba essere completamente virtualizzata e che i momenti di raduno fisico non abbiano importanza. Al contrario in una società così atomizzata, essi sono fondamentali per costruire legami di solidarietà e identità collettiva che sono fondamentali per la vita dei gruppi politici. Tuttavia, nelle condizioni attuali di disamore verso la politica tradizionale, se si mantiene la riunione del mercoledì sera come luogo centrale di partecipazione e decisione, si rischia di consegnare ai militanti più tenaci, o a quelli che Robert Michels chiamava gli “abitudinari delle riunioni”, persone per cui la politica è l’impegno principale, il monopolio delle decisioni, spesso a dispetto del fatto che essi non rappresentano, e propongono in forma distorta e spesso estremizzata, i voleri della base, per non parlare di quelli dell’elettorato di riferimento.

Ma c’è un motivo ulteriore, di carattere culturale e valoriale, per cui il sistema della delega su base territoriale del partito massa è fuori tempo massimo. La cultura digitale, a partire dalla cultura hacker, ha sempre visto nell’intermediazione un male, e in questo contesto si è appellata alla necessità di forme di disintermediazione che eliminassero una serie di intermediari considerati parassitari. Si tratta di una posizione anti-corpi intermedi che ha rilevanza ben oltre la cultura digitale, e che è visibile nel sospetto di formazioni “populiste” verso la struttura opaca di partiti e istituzioni.

Contro questi meccanismi che vengono visti come anti-democratici, formazioni come il 5 Stelle si appellano alla “partecipazione”, termine chiave che ricorre nei loro slogan, come visto nello slogan del 5 Stelle nella campagna elettorale “partecipa, scegli, cambia”, al punto che l’ideologia di questi partiti può essere descritta come “partecipazionismo”. Ma davvero può la partecipazione della base sostituire la rappresentanza e la leadership? È possibile una disintermediazione completa del processo politico, che renda di fatto superflui leader e organizzazioni politiche? In altre parole il partito digitale prefigura forse la fine del partito in quanto tale?

 

Il leader che non vuole svanire

È proprio qui, attorno alla questione della partecipazione come sostituto alla rappresentanza che il nodo del partito digitale giunge infine al proverbiale pettine. La promessa di una politica basata sulla partecipazione piuttosto che sulla rappresentanza ha, come succede con molte culture digitali, una chiara impronta libertaria. Essa prefigura una politica in cui non esistono più rappresentanti, leader o gerarchie e in cui ciascun individuo partecipando direttamente a discussioni e decisioni rappresenta sé stesso. Questa ispirazione è chiaramente visibile nelle dichiarazioni pubbliche e negli scritti di Gianroberto Casaleggio, in cui è possibile rinvenire contenuti che assomigliano molto all’ideologia della leaderlessness di Occupy Wall Street e di teorici anarchici come David Graeber. L’idea è che le tecnologie digitali permettano l’emergere di forme di intelligenza collettiva e auto-organizzazione, cosidette “dinamiche emergenti” destinate a rendere obsoleta la leadership. Il leader qui diviene piuttosto portavoce, notaio di un processo su cui non ha alcun controllo sostanziale.

Tuttavia questa promessa si è rivelata clamorosamente falsa, in tanti dei movimenti che l’hanno proposta. Al contrario del “mediatore evanescente” tra il Simbolico e il Reale descritto da Slavoj Žižek qui siamo di fronte a un mediatore che non vuole proprio saperne di svanire, un Leader ed un’organizzazione della leadership che a dispetto delle profezie sulla sua prossima fine continua imperterrita a dominare la scena, acquisendo semmai forme ancora più marcate.

Questa tendenza si è vista in modo evidente nel Movimento 5 Stelle in cui sono emersi leader con un ruolo centrale nella tenuta del movimento. Non solo il fondatore-garante Beppe Grillo, la cui figura pareva all’inizio precisamente disegnata per evitare l’emergere di altri leader, ma anche gli ormai celebri “splendidi ragazzi” – Alessandro Di Battista, Roberto Fico e il candidato premier Luigi Di Maio – che sono presto divenuti i volti pubblici del movimento. Il leaderismo di ritorno è ancora più evidente in formazioni come Podemos o France Insoumise, che sarebbero impensabili senza i loro leader-fondatori Pablo Iglesias e Jean-Luc Mélenchon.

Qui sta il paradosso fondamentale della democrazia digitale. Se essa prometteva sulla carta, specie nel caso dei Partiti Pirata e del Movimento 5 Stelle, una disintermediazione radicale, con una connessione diretta tra il cittadino e le decisioni politiche, di fatto la disintermediazione avviene solo a livello degli apparati intermedi, attraverso la rimozione del sistema della delega su base territoriale su cui si reggeva l’architettura dei partiti massa. In questo contesto, se i quadri, figure chiave della forma-partito novecentesca, vengono sacrificati sull’altare della rete, o quantomeno fortemente indeboliti, viene al contempo rafforzata la posizione del vertice del partito in cui troviamo un iperleader, un leader eccessivo, carismatico e plebiscitario che diventa l’hub del sistema-rete, luogo di ancoramento organizzativo e di sintesi politica della volontà cangiante della superbase, degli iscritti digitali chiamati di volta in vota a esprimersi nelle consultazioni online.

Questo persistere della mediazione organizzativa con un collegato di leadership cariasmatica si riflette nel carattere spesso plebiscitario o quantomeno iper-maggioritario delle consultazioni online dei partiti digitali. Esse non intendono tanto raccogliere le opinioni della base, e sublimarle in un faticoso consenso collettivo, così come vorrebbe il modello della democrazia deliberativa. Piuttosto queste consultazioni vogliono misurare il sostegno che la leadership e le proposte che di volta in volta essa produce godono presso la base, in un processo di misurazione continua e dettagliata che assomiglia a quello delle metriche dei social e la loro quantificazione di likes, commenti, condivisioni e retweet.

Basti pensare ai frequenti referendum condotti sull’espulsione di membri accusati di non avere rispettato il codice etico del partito nel caso dei 5 Stelle, o consultazioni su accordi politici, come quello indetto da Podemos, quando nel 2016 si discuteva della possibilità di un accordo con i socialisti. Si tratta di consultazioni che quasi immancabilmente producono un risultato prestabilito, ovvero un risultato che conferma la “linea” voluta dalla leadership; i casi di ribellione degli iscritti sono più unici che rari. Nel caso del Movimento 5 Stelle l’unico caso significativo è stato la consultazione sul reato di clandestinità, che la base pentastellata votò per abrogare contro il volere di Grillo e Casaleggio.

Si potrebbe concluderne, così come fanno i critici come Alessandro Dal Lago, che la democrazia digitale è una farsa. Tuttavia – viene da chiedersi – da quale pulpito vengono mosse queste critiche? Certo gli altri partiti italiani non hanno sistemi che possano essere considerati tanto più democratici di quello del 5 Stelle. Sarà pur vero che il Partito Democratico è l’unico partito in Europa in cui il segretario può venire eletto da tutti i cittadini con diritto di voto, in primarie aperte a tutti. Ma è pure un partito in cui, fatta eccezione per le primarie, i momenti di consultazione della base sono pressoché inesistenti e tutto è demandato all’assemblea nazionale e agli organi che da essa vengono eletti. Il sistema di consultazione adottato dai 5 Stelle sarà pure limitato e talvolta anche manipolato indirettamente dalla leadership e dal famoso “staff”. Ma quantomeno è un sistema che prefigura la possibilità di una nuova forma-partito che faccia i conti con le trasformazioni radicali della nostra società.

In conclusione, possiamo pure continuare a sperare che un giorno infine il partito-massa risorgerà come l’Araba Fenice dalle ceneri in cui si è consumato. Oppure possiamo cominciare a fare i conti con il cambiamento radicale della nostra società, e sviluppare modalità organizzative capaci di rispondere a tale trasformazione. Il partito digitale offre un modello per ripensare che cosa significa la democrazia delle organizzazioni e ridurre la distanza tra cittadini e i loro rappresentanti. È ovvio che, come in qualsiasi modello organizzativo, il partito piattaforma non è un toccasana. Anzi è pieno di limiti e contraddizioni, che sono in fin dei conti il riflesso delle contraddizioni del sistema del capitalismo digitale, da cui trae ispirazione. Ma quantomeno, rispetto all’armamentario arrugginito del partito-massa, esso offre uno strumento più maneggevole per muoversi nel nuovo paesaggio di frammentazione e dispersione dell’era digitale.

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