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senso comune

La sinistra o il popolo?

Il dilemma della France Insoumise

Lenny Benbara 

delacroixPer Lenny Benbara, la France Insoumise ha sottovalutato il talento di Emmanuel Macron, al punto di essersi fatta mettere sotto scacco da qualche mese a questa parte. Se il movimento vuole ottenere nuove vittorie, la difficoltà sarà quella di incarnare la collera e la speranza, il cambiamento e l’ordine.

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D: Dopo le elezioni legislative, la France Insoumise sembrava destinata a diventare la principale forza di opposizione a Emmanuel Macron. Invece, François Ruffin ha dichiarato di recente che il movimento vive “un periodo di riflusso” di fronte al successo di Macron. Come spiegate questa impasse?

R: Innanzi tutto, bisogna riconoscere che Emmanuel Macron è molto dotato. Molti lo avevano sottovalutato, io per primo. In un contesto di caduta molto forte della politicizzazione dopo le elezioni presidenziali e di divisione dei sindacati, è avanzato velocemente e con forza verso la riforma della legge sul lavoro, che rappresentava il punto più accidentato per l’inizio del suo quinquennio presidenziale. Ciò nonostante, per non limitarsi a una postura da tecnocrate che vuole “flessibilizzare il mercato del lavoro”, ha tentato di accompagnare al suo gesto una posizione forte sulla politica internazionale e sulla restaurazione della verticalità del potere, in netta discontinuità col suo predecessore.

Emmanuel Macron è un uomo che apprende in fretta, e che corregge il tiro ogni volta che commette un errore. Fa proprie le critiche degli avversari per meglio rovesciarle. Riesce nella scommessa di incarnare allo stesso tempo il progresso, l’ancoraggio del suo progetto ad una narrazione nazionale seduttrice, e l’apertura alla mondializzazione. Penso che tutti noi siamo stati presi alla sprovvista da una tale plasticità e da una tale capacità di incorporare le critiche. Tuttavia, il contesto gli è ultra-favorevole, sul piano interno come su quello internazionale. Su quello internazionale soprattutto, Theresa May è indebolita dall’andamento delle negoziazioni sulla Brexit, Donald Trump rende poco credibile la posizione degli Stati Uniti, Angela Merkel si è impantanata in negoziazioni interminabili per la formazione del governo, l’Italia non ha che un governo tecnico e si appresta a vivere elezioni movimentate, e la Spagna è immersa nello psicodramma catalano. Sul piano interno, poi, la destra è a pezzi, dal momento che una grossa parte dei suoi ranghi si ritrova nel progetto macronista, il PS non ha una posizione chiara e il FN è ampiamente privo di credibilità per il dibattito interno su Marine Le Pen che ha minato la sua autorità. La France Insoumise è la sola forza che sembra stare in piedi e sufficientemente capace di dettare un’agenda che dia del filo da torcere a Emmanuel Macron. Questa capacità sembra tuttavia essersi erosa nel corso degli ultimi due mesi. Ciò si spiega con il carattere movimentista della France Insoumise, che la obbliga a passare di vittoria in vittoria per mantenere la sua centralità. In effetti, il movimento è stato costruito come una macchina da guerra elettorale, cioè come una macchina in grado di condurre una guerra di movimento. Una sconfitta puntuale, come sulla legge sul lavoro, espone così le truppe alla demoralizzazione e a una forma di impotenza. Al di là di questi punti deboli, il periodo post-elettorale esige l’adozione di una strategia di guerra di posizione. Senza fare cattivi giochi di parole, ma è difficile ancorare un movimento in una guerra di posizione. Tuttavia, l’intensa attività dei parlamentari della France Insoumise riflette il desiderio di crescere in competenza e di mostrarsi credibili, di impratichirsi con le esigenze dell’azione all’interno delle istituzioni. Se c’è pertanto una fluttuazione, non è tutto da buttare per la France Insoumise nel periodo attuale. È normale che il processo di definizione di una guerra di posizione richieda del tempo, e che l’ottimismo lasci il posto al dubbio. Sarà dunque interessante seguire le prossime evoluzioni di questa nuova forza politica, la sua capacità di ridefinirsi, e di stabilire una linea strategica efficace in un contesto ostile, dove il talento di Macron obbliga a pensare il gioco in maniera dinamica, dal momento che lui incorpora ogni volta le critiche per svuotarle di sostanza.

 

D: Secondo voi, La France Insoumise oscilla tra due strategie: “una strategia di sinistra” e “una strategia populista” … Potreste spiegarvi?

R: Schematizzando, la strategia populista consiste nel tentativo di “federare il popolo” articolando un insieme di domande sociali poste da un tribuno, che oppone retoricamente un “loro” – le élites, l’oligarchia – e un “noi” – la Francia della gente comune. Si tratta di una costruzione discorsiva che tenta di “costruire un popolo”, e che, di conseguenza, non si può accontentare di parlare alla “sinistra”, o al “popolo di sinistra”. La strategia populista ha una vocazione a creare centralità e ad occupare lo spazio politico posizionandosi in maniera trasversale, cioè a dire non autocollocandosi ai margini del gioco politico, come in precedenza quando si parlava di “sinistra della sinistra”, oppure di “estrema sinistra”. Questo è ciò che è stato messo in moto dalla France Insoumise nel corso della campagna presidenziale, lasciando da parte i vecchi significanti della sinistra, appropriandosi di significanti trasversali come la patria, articolando un insieme di domande sociali dentro un medesimo discorso. Jean-Luc Mélenchon è riuscito ad incarnare un insieme di queste: la domanda di democrazia, quella di uguaglianza, quella di ecologia o ancora le domande che vengono dalle minoranze. Tuttavia, il periodo adesso è differente e rende una strategia di “unità della sinistra” appetibile per diverse ragioni. Soprattutto perché la strategia populista è stata promossa dall’alto, e la conversione culturale della base della France Insoumise resta ancora da fare. È attraente, in un periodo di reflusso o di sconfitta, cercare rassicurazione dietro a significanti tranquillizzanti come quello di “sinistra”. I periodi di stagnazione sono propizi alle reazioni identitarie del tipo “la sinistra siamo noi”. Poi, perché la France Insoumise ha egemonizzato uno spazio politico nel quale si può impadronire del significante “sinistra” a buon mercato. Nessuno può negarglielo, mentre prima la presenza significativa del PS rendeva la lotta per questo significante più complicata. Infine, per ragioni elettorali, poiché se il movimento vuole conquistare delle città alle municipali del 2020, dovrà necessariamente procedere a delle alleanze quando le cose saranno mature. Queste alleanze si faranno in tutta evidenza con delle forze dette “di sinistra”. L’auto-iscrizione nello spazio che costituisce “la sinistra” è dunque una tentazione molto forte. A titolo personale, io penso che questo sarebbe un errore, poiché nel lungo periodo, la sfida per questo movimento è quella di spogliare il FN dell’appoggio delle classi popolari e Emmanuel Macron di quello delle classi medie urbane, e non di iscriversi in una identità politica strutturalmente minoritaria ed in piena fase di svalorizzazione simbolica ovunque in Europa.

 

D: L’elettorato della France Insoumise non si posiziona forse maggioritariamente a sinistra?

R: Questa constatazione è vera, ma è statica, e deve essere sfumata. Se è vera per lo più, non è esclusivamente vera. Il sondaggio post-elettorale IPSOS ci informa anzi che Jean-Luc Mélenchon è il candidato che ha attirato più elettori che non si riconoscono vicini a “nessun partito”, più di Marine Le Pen e Emmanuel Macron. Inoltre, in una prospettiva dinamica, bisogna tener conto di due sfide che sono legate: la capacità di essere la seconda scelta di molti elettori; e la capacità di aggregare voti al secondo turno, che è il momento in cui la trasversalità si esprime con maggiore forza. In questo caso, secondo il sondaggio CEVIPOF del 16-17 aprile 2017, Jean-Luc Mélenchon è riuscito ad essere la seconda scelta di elettori non definitivi di tre differenti candidati: Emmanuel Macron (26% dei suoi elettori non definitivi); Benoît Hamon (50 %); e Marine Le Pen (28 %). Inoltre, per quanto riguarda la capacità di aggregazione al secondo turno, i candidati della France Inoumise presenti al secondo turno alle legislative sono stati capaci di unire largamente, senza del resto contrarrestare completamente l’ondata macronista. In effetti questi candidati, per lo più opposti a candidati de La République En Marche, hanno guadagnato in media 29 punti tra il primo e il secondo turno contro i 18,5 punti per i candidati de LREM che erano loro opposti. Ciò non può spiegarsi unicamente con la rimobilitazione dell’elettorato della France Insoumise a fronte di una caduta del tasso di partecipazione nazionale e del numero di duelli – più di sessanta -, anche se ciò può aver giocato un ruolo in alcune località. Ecco cos’è la trasversalità resa possibile dal metodo populista: la capacità di essere una forza al secondo turno e di non farsi rinchiudere un un ghetto elettorale.

 

D: La strategia populista è vicina a quella di Podemos in Spagna?

R: Chiaramente Podemos è il primo movimento europeo venuto dalla sinistra che ha adottato il metodo populista nel senso di Ernesto Laclau, il marito defunto di Chantal Mouffe. Gli intellettuali all’origine di Podemos, Carolina Bescansa, Pablo Iglesias, Iñigo Errejon, Juan Carlos Monedero, o ancora Jorge Moruno, hanno cercato di fornire una traduzione elettorale e istituzionale alle aspirazioni trasversali che uscivano dal movimento degli indignati, in un contesto di riflusso molto forte delle mobilitazioni sociali, e non in un contesto di mobilitazione come si pensa spesso. L’analogia con la France Insoumise e il fallimento della Nuit Debout e del movimento contro la legge sul lavoro l’anno scorso è suggestivo. Si sono entrambi impadroniti dei medesimi significanti, e si sono liberati della vecchia estetica della sinistra, affidando semmai un ruolo centrale al leader. Tuttavia, bisogna sapere che Podemos è alla prese con una piena involuzione strategica che è iniziata nel momento dell’alleanza con Izquierda Unida – la coalizione guidata dal Partito Comunista Spagnolo – e ha adottato un posizionamento meno trasversale che in precedenza, a vantaggio di una retorica di sinistra. Questo fenomeno ha vissuto un’accelerazione con la crisi catalana e con il calo del movimento nei sondaggi elettorali – Podemos si aggira oggi attorno al 15%, mentre il suo rivale liberal-progressista Ciudadanos è dato tra il 26% e il 27%.

 

D: Una delle chiavi dal fallimento della France Insoumise, al momento, non è la chiusura in una retorica di opposizione eccessivamente aggressiva e sterile?

R: È davvero troppo presto per parlare di fallimento della France Insoumise. Il movimento ha semmai riportato dei successi fino a questo momento, e in pochi avrebbero immaginato che Jean-Luc Mélenchon prendesse il 19,5% alle elezioni presidenziali solo un anno fa. Tuttavia è vero che tra i fattori che hanno impedito l’accesso del candidato al secondo turno dell’elezione presidenziale c’è la sensazione di “salto nel vuoto” che avrebbe rappresentato per una parte non secondaria dei francesi. Questa paura deve essere disinnescata, cosa che in parte è stata fatta fin d’allora in maniera abile, se si ricorda l’immagine di “papà simpatico e sorridente” acquisita da Jean-Luc Mélenchon nel corso dell’ultimo mese di campagna. Al di là di queste considerazioni che sembrano avere a che fare con la “comunicazione”, ciò che sta alla base è la capacità di incarnare un’orizzonte positivo ed ottimista, un ordine alternativo al disordine neoliberale che frattura la società, mette gli individui in concorrenza, rende fragili i poveri, ma che è là, e che non possiamo sostituire senza liberarci dell’idea che noi aggiungeremo disordine al disordine. Tutta la difficoltà sta nell’incarnare allo stesso tempo la collera e la speranza, il cambiamento e l’ordine. Questi opposti possono essere difficilmente conciliabili in base all’agenda politica. È la sfida che dovrà accettare Jean-Luc Mélenchon se vuole prendere il potere e cambiare la vita, come diceva François Mitterrand. Si dovrà dosare in maniera adeguata tra “la piazza” e “l’ordine”, situarsi permanentemente a metà strada, per evitare allo stesso tempo l’impotenza contestataria e la normalizzazione politica.

 

D: Al di là di questa esitazione strategica, il movimento sembra in preda a delle divisioni ideologiche soprattutto sulla questione della laicità e del comunitarismo.

R: Su queste questioni, le cose sembrano essersi calmate. La laicità è uno dei temi che fratturano lo spazio politico, in maniera del tutto trasversale. Da questo punto di vista, penso che una parte della France Insoumise sia caduta per un periodo nella trappola tesa da Manuel Valls, che ha sempre cercato di aprirsi spazi su questa questione. A mio parere, l’errore consiste nel dover prendere posizione su questo terreno. Bisogna superare i clivages identitari, ma soprattutto bisogna evitare di farsi stritolare dalla macchina mediatica. È vitale, per la Francia, “de-identitarizzare” i dibattiti, rimettere la politica al cuore dell’agenda. La prospettiva populista offre una soluzione per sfuggire a questi punti di tensione: è nell’azione politica che un popolo si costruisce, che trova la sua unità, la sua indivisibilità. Sono la mancanza di presa sulla realtà, il sentimento di declino che portano alla polarizzazione sulle questioni identitarie, che sono vere e proprie macchine per frammentare le nostre società. In fondo il termine laicità ci rinvia al laos greco, al popolo nel suo carattere indivisibile. Non è l’incantesimo mediatico che permette questa indivisibilità del popolo, e la sua costituzione come soggetto, ma l’azione e la sovranità reali.

 

D: Per tornare alla questione strategica, voi difendete una strategia che che sarebbe diretta “al popolo”. Ma di quale popolo parlate? Quello delle banlieues e delle grandi metropoli o quello della Francia periferica?

Quello che si costituisce come soggetto politico nella costruzione equivalenziale di domande eterogenee. Il popolo non è un qualcosa di dato per sempre, è una costruzione culturale permanente, certamente segnato dall’inerzia storica e l’eredità di lungo periodo, ma che non ha senso se non nell’azione politica. Il populismo adotta una visione non essenzialista del popolo. Il popolo non è la somma dei “petits blancs”, degli “Arabes et des noirs de banlieue” e della “bourgeoisie”. Questo tipo di analisi corrisponde a schemi reazionari. Il popolo è un soggetto politico che si costruisce nell’azione politica. Ed è compito delle organizzazioni come dei tribuni costruire un soggetto popolare maggioritario, una nuova volontà generale. Per far questo è necessario costruire delle linee di demarcazione e di articolare domande sociali che promanano dall’insieme della società, cercando di posizionarsi nella maniera più trasversale possibile. I servizi pubblici, la legalità, l’emancipazione, l’autonomia, la patria repubblicana, la democrazia, ecco i significanti il cui senso va fatto oggetto di disputa e conquistato per costruire un soggetto popolare maggioritario. Tuttavia questo popolo non si forma e non ha senso a meno che questa volontà non tenda verso un’orizzonte, a meno che non si sia capaci di produrre una forma di trascendenza, di ancorare questa volontà in una storia e in un destino comune. C’è dunque una dialettica permanente tra l’appello al popolo, che si costruisce e ricostruisce tutti i giorni, e l’iscrizione in un destino comune, che va definito in maniera aperta.

 

D: L’elettorato di classe media tentato dal voto a Hamon o a Macron e l’elettorato popolare tentato dal voto al FN non sono diametralmente incompatibili? Come superare questa contraddizione?

Le presidenziali hanno dimostrato che non è vero, basta vedere la composizione dell’elettorato di Jean-Luc Mélenchon, molto eterogeneo. Il candidato della France Insoumise è riuscito a riunire sotto il suo nome il 19% dei dirigenti e il 22% degli impiegati, il 24% degli operai e il 22% delle professioni intermedie. Egli rappresenta un’opzione di conciliazione tra queste classi medie e queste classi popolari le cui domande possono vivere in reciproca tensione. In effetti è vero che le classi popolari pongono domande di forte protezione da parte dello Stato, di rifiuto della mondializzazione, anche di relativa ostilità nei confronti dell’immigrazione. Al contrario, le classi medie urbane danno un valore maggiore all’apertura, sono più ottimiste, hanno meno il sentimento che “tutto sta andando alla malora”, chiedono svago, sono più aperte sulla questione dell’immigrazione. L’inchiesta Fractures françaises affronta bene l’eterogeneità di queste domande. D’altro canto, questo non vuol dire che queste siano inconciliabili. Una visione allo stesso tempo aperta e protettrice della Patria, universalista e ugualitaria, ecologista e che riconosce il valore del lavoro, può senz’altro permettere di articolare queste differenti aspirazioni e di unificarle in un progetto di Paese. Bisogna allo stesso tempo restaurare l’autorità dello Stato, proteggere i più deboli con i servizi pubblici, rispondere al desiderio di autonomia e di conquista di nuovi diritti. Creare una volontà generale nuova significa superare un’analisi semplicistica in termini di segmenti di popolazione, e cercare di produrre un discorso inclusivo, che integri gli individui in un orizzonte alternativo facendosi allo stesso tempo carico delle loro aspirazioni e delle loro inquietudini. Non si crea una maggioranza popolare facendo una somma elettorale, e delle semplici alleanze di categorie, ma dando vita ad un progetto globale unificato da un tribuno e da dei significanti trasversali.

 

D: Il personale politico acquisito alle tesi tecno-liberali, malgrado i risultati catastrofici delle politiche economiche che ha portato avanti negli ultimi trenta anni, resta, agli occhi dei francesi, più credibile dei partiti cosiddetti “populisti”. Come ve lo spiegate?

Semplicemente perché per troppo tempo abbiamo sottovalutato i nostri avversari, e siamo stati incapaci di analizzare i significanti sui quali si basa la loro egemonia, l’egemonia neoliberale. La “ragione” e la “credibilità” sono dei significanti-chiave per quel personale politico lì. Contribuiscono all’idea che al di fuori di coloro che hanno egemonizzato questi significanti non c’è alternativa, non ci sono che degli irresponsabili che ci conducono al “salto nel vuoto”. Non ci siamo mai realmente provati a disarticolare quesi significanti, ad impadronircene per sovvertirli meglio e destabilizzare la dominazione avversaria. Per questo bisogna dar prova di credibilità, assimilare un certo numero di codici dell’avversario, ma anche dar prova che la prospettiva che noi adottiamo corrisponde maggiormente alla “credibilità” e alla “ragione”. Le forze progressiste devono uscire dalla retorica del monopolio dei cuori.

Da questo punto di vista, è centrale l’analisi dell’avversario. Bisogna denudare e sovvertire la sua strategia discorsiva. La prospettiva gramsciana è feconda per mettersi all’opera. Come dice Marie Lucas, in un articolo su Gramsci pubblicato da Le Vent Se Lève: “Appropriandosi delle risorse argomentative e retoriche dell’avversario lo si indebolisce più che con un’offensiva violenta. Il successo egemonico, per dirla in altra maniera, non è l’affermazione trionfante di sé ma l’assorbimento surrettizio dell’altro”. Vaste programme.


Questa intervista è stata pubblicata dal Le Figaro il 2/2/2018. 

Traduzione di Tommaso Nencioni.

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