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Pensare la politica nel tempo del disordine

di Alessio Lo Giudice 

leaders politici 11. Il potere nel disordine

Sembrerebbe oggi che una nozione tanto vaga, quanto totalizzante, di sicurezza sia in grado di prendere il sopravvento su altre categorie politiche, determinando una riconfigurazione dello Stato di diritto e tendendo così più al suo tradimento che alla sua protezione. La prevenzione dei delitti si ridurrebbe a una sorta di obiettivo apparente, dietro il quale si celerebbe la volontà di stabilire uno Stato di sicurezza fondato su controlli e limitazioni sempre più generalizzati e invasivi.

L’impressione è di trovarsi in una condizione che supera la tipologia del potere nello Stato moderno magistralmente delineata da Michel Foucault. Supera sicuramente il potere sovrano che, in nome della sicurezza del sovrano stesso, dispone della vita e della morte: «il diritto di far morire o di lasciar vivere». Ma supera anche il potere disciplinare, affermatosi a partire dal XVII secolo in particolare, non più fondato esclusivamente sulla gestione della morte bensì, come sostiene Foucault, sulla perpetuazione, e quindi sul controllo, della vita: «Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte».

Il potere disciplinare pare, a prima vista, più affine al paradigma della società del controllo e quindi allo Stato di sicurezza che sembra profilarsi di questi tempi attraverso il mantenimento dell’emergenza. La disciplina dei corpi, la loro amministrazione, la misurata inscrizione, anche attraverso forme di coercizione, dei comportamenti dei singoli entro canovacci prestabiliti e quindi controllabili, tipici appunto della società disciplinare a cui si riferisce Foucault, sembrerebbero coerenti con ciò a cui assistiamo oggi.

Per non parlare della docilità degli uomini a cui sembrano mirare anche i meccanismi di potere contemporanei. Abbiamo, infatti, l’impressione che anche il sistema di potere capitalistico-finanziario contemporaneo, come il regime proto-liberale del settecento, sia diretto, più che a bloccare, negare o eliminare forze e popolazioni, a incentivarne la crescita disciplinata, a potenziarle e moltiplicarle per poterle ordinare e quindi sfruttare. Abbiamo l’impressione che i luoghi del bio-potere moderno (scuole, collegi, caserme, carceri, ospedali, manicomi) si traducano oggi in forme diverse ma di sostanza analoga (centri di accoglienza, zone rosse, basi militari ma anche centri commerciali, centri benessere, villaggi turistici, gli spazi virtuali della rete).

Ma, a ben vedere, si tratta soltanto di impressioni. In realtà, la biopolitica della popolazione descritta da Foucault si fonda sull’obiettivo di normalizzare la vita della popolazione stessa in modo da esercitare su di essa un potere generale. Natalità e mortalità, salute e divertimenti sono scrupolosamente regolati per normalizzare e quindi disciplinare e ordinare una società. Il diritto, inteso come norma che normalizza più che come legge che impone, svolge proprio una funzione regolativa e correttiva in base alla lettura di Foucault. Non si tratta infatti di brandire la spada, minacciando la morte attraverso il comando della legge, quanto di distribuire ciò che fa parte del vivente per rendere normalmente docili e funzionali gli individui

Ebbene, la tendenza contemporanea segue invece una direzione opposta alla normalizzazione dei contesti sociali. Prende atto del disordine e sul mantenimento di esso costruisce gli spazi di potere. La gestione e il controllo dell’emergenza, che presuppongono la persistenza dell’emergenza stessa, rappresentano le condizioni tanto per l’acquisizione quanto per l’esercizio del potere. Affermare ciò, naturalmente, non equivale a ridimensionare la pericolosità di minacce evidenti come quelle terroristiche né, tanto meno, a sostenere una delle tante tesi complottistiche che sorgono quotidianamente. Equivale, invece, a prendere atto dell’intreccio fra la reale portata destrutturante dei pericoli contemporanei e il percorso di trasformazione culturale che sta interessando l’Occidente, sempre più pronto a mettere in discussione i fondamenti della sua civiltà giuridica.

 

2. La regola della violenza

Come leggere il potere politico che sembra incarnarsi oggi, ai più alti livelli, nella capacità di mantenere il caos? Come interpretare uno stato di cose in cui l’obiettivo apparente, di fronte a minacce ormai costanti come è soprattutto quella terroristica, è rendere l’emergenza una situazione permanente per costruire le condizioni stesse del potere?

Siamo, in realtà, di fronte alla continua manifestazione di poteri di fatto alimentati da un disordine che non si vuole ordinare. Perché nell’ordine il potere di fatto incontra il limite del diritto, delle procedure di legittimità democratica, delle libertà inviolabili. Nell’ordine il potere di fatto è, in misura variabile, inibito. Nella celebre concezione di Carl Schmitt, lo stato di eccezione conduce alla sospensione temporanea dell’ordinamento giuridico per proteggerlo e, successivamente, riattivarlo. Una tale dinamica, però, non funziona più di fronte alla trasformazione dell’eccezione in regola. Il meccanismo si inceppa. Proprio questo effetto aveva, in qualche modo, già intuito Walter Benjamin allorché, “ispirato” dalla trasformazione dell’ordinamento di Weimar in regime nazista, scrive: «La tradizione degli oppressi ci insegna che “lo stato di emergenza” in cui viviamo è la regola».

Come è noto, si tratta della considerazione compresa nell’ottava tesi di filosofia della storia. Naturalmente, Benjamin è influenzato dall’applicazione dell’art. 48 della Costituzione di Weimar che, di fatto, prevedendo l’autosospensione della Costituzione stessa, condusse proprio ad uno stato di eccezione permanente. Ma, al di là dell’importante pretesto offerto dalla contingenza storica, Benjamin coglie un dato potenzialmente strutturale perché figlio del rapporto indissolubile tra violenza e diritto. Lo stato di eccezione effettivo, di fatto, non è più tale, non rappresenta un’eccezione costituiva del campo giuridico e, di conseguenza, ciò che rimane è la violenza fattuale priva di un inquadramento istituzionale. Rimane la forza del potere che si impone. Il concetto di violenza va inteso, a questo proposito, secondo l’accezione del termine tedesco Gewalt, che significa anche autorità e potere, e che Benjamin utilizza non a caso nel suo celebre scritto “Per la critica della violenza” dedicato al rapporto tra violenza e diritto.

Ma bisogna soffermarsi sulla legge che, secondo Benjamin, regola il rapporto tra diritto e violenza, a prescindere dalla finalità messianico-rivoluzionaria che lo stesso Benjamin, nel citato saggio dedicato al tema, attribuisce all’idea di violenza pura. La riflessione di Benjamin trae spunto da una constatazione sempre valida: «Si può formulare come principio universale della presente legislazione europea che tutti i fini naturali di persone singole entrano necessariamente in collisione con fini giuridici quando vengono perseguiti con violenza». La tendenza, da parte del diritto, al monopolio della violenza e dell’uso della forza che da tale principio segue non è causata dall’ovvia pretesa di salvaguardare i fini pratici dell’ordinamento giuridico. In realtà, è il diritto stesso come fenomeno sociale, nel suo complesso, ad essere posto in pericolo se si estendono senza controllo gli spazi della violenza privata. Per questo, Benjamin suggerisce di prendere in considerazione la possibilità che «la violenza, quando non è in possesso del diritto di volta in volta esistente, rappresenti per esso una minaccia, non a causa dei fini che essa persegue, ma della sua semplice esistenza al di fuori del diritto».

Si tratta, in altre parole, di una minaccia radicale. L’esistenza della violenza al di fuori del diritto è l’esistenza di un potere altro dal diritto, potenzialmente in grado di deporlo e sostituirlo. Ed è proprio dalla conoscenza dei tratti di fondo del processo di genesi di ogni ordinamento giuridico che scaturisce il timore nei confronti della minaccia rappresentata dall’esistenza della violenza al di fuori del diritto. La minaccia riflette, infatti, il rapporto costitutivo tra violenza e diritto che Benjamin in un celebre passo riduce al seguente meccanismo: «Ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto». Il diritto avverte come minaccia l’esistenza della violenza al di fuori di esso proprio perché qualsiasi diritto è posto e conservato grazie alla violenza come mezzo. La violenza fuori dal diritto “ricorda” dunque l’origine del diritto stesso e quindi rappresenta una minaccia per l’ordinamento vigente.

 

3. Verso lo Stato di sicurezza?

Ma la riflessione sulla funzione della violenza come mezzo, come Gewalt che pone e che conserva il diritto, consente forse di individuare una peculiare chiave di lettura idonea a decodificare gli indizi della torsione contemporanea dello Stato di diritto in Stato di sicurezza. Una chiave di lettura che acquista efficacia proprio perché in grado di farci scorgere un orizzonte concettuale entro cui poter inquadrare lo stato di eccezione permanente. A ben vedere, la legge del rapporto tra violenza e diritto, descritta da Benjamin, potrebbe essere compresa come una diversa rappresentazione dei meccanismi che presiedono all’istituzione di un potere sovrano che, sostituendosi al potere sovrano vigente, è da quest’ultimo percepito come manifestazione di violenza da contrastare in qualsiasi modo. Si tratta di una lettura tradizionale certamente corretta.

Il punto, semmai, è chiedersi quale indicazione si possa trarre dalla legge di Benjamin di fronte ad uno stato di eccezione permanente. Ebbene, una possibile indicazione sorge dall’anomalia della minaccia terroristica. Essa è davvero espressione di un potere che vuole sostituirsi a un altro? È l’azione di chi vuole affermarsi come nuovo potere sovrano? O, invece, è la manifestazione di una violenza puramente distruttrice, intesa a destituire un ordine, forse anche un intero contesto culturale, oggi facilmente associato alle ingiustizie scaturite dai processi di globalizzazione? Una manifestazione di violenza che, proprio perché priva di una vera soggettività politica alle spalle, non è alimentata dallo scopo di sostituirsi al potere vigente in Occidente. Una manifestazione di forza e violenza che non ha, cioè, usando la logica di Benjamin, l’intenzione di porre un nuovo diritto bensì di destabilizzare, al limite della destituzione, una forma di civiltà storicamente e culturalmente caratterizzata. A ben vedere, le azioni e le strategie terroristiche sembrano tutte adeguate a quest’ultima interpretazione.

Ma se così è, lo stato di eccezione permanente è l’espressione di una reazione tragicamente obbligata, quale unica possibile affermazione di potere interno negli ordinamenti vigenti, di fronte ad una minaccia esterna che non è identificabile secondo le logiche della costituzione e della destituzione sovrana o secondo la duplice funzione creatrice e conservatrice della violenza rispetto al diritto. Se così è, lo stato di eccezione permanente, e la conseguente tendenza verso la torsione dello Stato di diritto in Stato di sicurezza, non sono altro che i primi segni del successo della strategia destabilizzante, e non certo costituente, del terrorismo contemporaneo.

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