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L’incognita populista

di Damiano Palano

Nel suo libro «La variante populista» Carlo Formenti compie una duplice svolta. Da un lato intende infatti chiudere definitivamente i conti con l’operaismo. Dall’altro sostiene invece la necessità di adottare (seppur criticamente) lo schema populista delineato da Ernesto Laclau, perché ai suoi occhi solo la «forma populista» risulta adeguata a sostenere una battaglia capace di riconquistare la «sovranità popolare» e la «sovranità nazionale». Se percorrendo un simile sentiero la proposta di Formenti giunge certamente a cogliere alcuni nodi cruciali, rischia però anche di legittimare una deriva teorica e politica incontrollabile. E proprio per questo la «variante populista» somiglia molto a un’incognita di cui è davvero difficile prevedere le direzioni di sviluppo

populist 1872440 1920 608x400«Lotta di popolo»

«Siamo operai, compagni, braccianti / e gente dei quartieri /siamo studenti, pastori sardi, / divisi fino a ieri! / Lotta! Lotta di lunga durata, lotta di popolo armata: lotta continua sarà!». Con l’efficacia che a volte hanno le canzoni, l’inno che Pino Masi scrisse per Lotta continua all’inizio degli anni Settanta riusciva a restituire in pochi versi il sincretismo teorico che distingueva quell’organizzazione rispetto al panorama della sinistra extra-parlamentare italiana. Un sincretismo che combinava le suggestioni della «rivoluzione culturale» e della «guerra di popolo» maoista con alcuni elementi della tradizione operaista e con i lasciti della contestazione ‘anti-autoritaria’, ma in cui non erano certo assenti gli echi della Lettera a una professoressa di don Milani e una sensibilità verso gli ‘esclusi’ e i ‘marginali’ ereditata principalmente dal dissenso cattolico della fine degli anni Sessanta. Ma a quasi mezzo secolo di distanza forse è anche possibile leggere l’inno di Masi – e l’intera operazione condotta da Lotta continua, quantomeno nei suoi primi anni di vita – come un tentativo di sviluppare ciò che, sulla scorta della proposta teorica di Ernesto Laclau, oggi si definirebbe un «populismo di sinistra».

Proprio come nello schema delineato da Laclau, Lotta continua tentò – certo in modo infruttuoso – di declinare la «classe» della tradizione marxista (e operaista) nei termini di un «popolo» in lotta: un popolo composto da una pluralità di segmenti distinti (gli operai, i compagni, i braccianti, la gente dei quartieri, gli studenti e i pastori sardi elencati dalla canzone di Pino Masi), ma unificato dalla lotta contro il nemico comune rappresentato dal sistema capitalista. In questo modo, Lc rifiutava la fascinazione operaista per il soggetto ‘centrale’, collocato nei settori più avanzati della produzione capitalistica, in favore di una visione che almeno tendenzialmente collocava sul medesimo livello tutte le diverse rivendicazioni, sia che provenissero dal cuore della fabbrica fordista, sia che invece giungessero dalla ‘periferia’ delle aree arretrate, dai disoccupati o dai lavoratori ‘improduttivi’. E anche per questo adottò nella propria propaganda un registro linguistico ‘popolare’, che abbandonava lo stile delle organizzazioni marxiste-leniniste, facendo invece ampio ricorso al gergo, alle formule dialettali, alle espressioni orali, all’invettiva e persino al torpiloquio, secondo una modalità che davvero anticipava quello stile comunicativo che nell’Italia della ‘Seconda Repubblica’ – a partire dai comizi di Umberto Bossi – sarebbe stato adottato dai diversi «populismi» cresciuti nell’ultimo quarto di secolo.

La polemica contro l’operaismo (e contro quella che veniva considerata la sua deteriore ‘filosofia della storia’) doveva però spingere Lc a riconoscere le tracce del «popolo» da ricomporre soprattutto nelle esplosioni di protesta e nelle ‘eruzioni emotive’ che affioravano nei diversi punti di una società in trasformazione. Più che dal radicamento in determinati rapporti sociali, l’appartenenza al mitico «popolo» in lotta contro il sistema capitalistico – e dunque la manifestazione del «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente» – sembrava infatti dipendere dalla trasformazione individuale prodotta dalla partecipazione al conflitto e dal mutamento soggettivo determinato della «militanza». Se la ‘filosofia’ del gruppo in questo modo coglieva una dimensione cruciale della politica (spesso quantomeno trascurata dalla tradizione marxista), la sua attenzione alle componenti ‘soggettive’ del conflitto induceva però a disancorare la rappresentazione degli antagonismi dall’analisi delle relazioni di potere nella società. Concentrandosi cioè sui movimenti ‘alti’ delle mobilitazioni e sulla trasformazione innescata dalla partecipazione, il suo sguardo si concentrava sulle piazze in cui la «lotta di popolo» si manifestava. Perché la violenza dello scontro – qualsiasi forma assumesse – poteva essere interpretata non solo come un’evidente conferma della maturazione della «lotta di popolo», ma persino come la leva capace di unificare i mille frammenti di una società in trasformazione. Ma proprio l’ossessione per quella sorta di guerra simulata che veniva rappresentata nelle piazze finiva col pregiudicare molte delle più originali intuizioni di Lc, e in particolare l’idea di ricercare il «popolo» in lotta non solo dietro le porte di Mirafiori ma anche nelle periferie dell’Italia dell’industrializzazione, dentro le maglie delle istituzioni disciplinari e persino nella trama ‘microfisica’ delle relazioni sociali. Perché la proiezione verso la «lotta» mitizzata che si svolgeva sul teatro delle piazze induceva di fatto a deviare lo sguardo da ciò che avveniva realmente al di sotto della superficie ‘spettacolare’ delle mobilitazioni, dalle più durature conseguenze dei processi conflittuali sulle reali relazioni di potere e dunque da ciò che si modificava davvero nei luoghi in cui quotidianamente operavano i singoli frammenti di quel «popolo» in lotta.

Molti anni dopo – e in un contesto abissalmente distante rispetto a quello dei primi anni Settanta – l’ipotesi di un «populismo di sinistra» (che certo Lotta continua non formulò mai in termini espliciti, ma che forse si può davvero ravvisare nelle sue coordinate teoriche) torna nuovamente sulla scena, riaprendo vecchie divaricazioni e imprimendo nuove fratture. E non è certo sorprendente che, anche in questo caso, l’opzione ‘populista’ torni a essere proposta in polemica con l’operaismo, o meglio con quel «postoperaismo» che ne rappresenta oggi la principale eredità e che affida alla «moltitudine» e al «lavoro cognitivo» il testimone della trasformazione sociale lasciato cadere dalla classe operaia della golden age fordista. Negli ultimi tempi anche nel campo radicale varie voci, spesso riprendendo l’eredità di Laclau (e sull’onda del successo ottenuto in Spagna da Podemos), si sono spinte infatti a sostenere l’opportunità di strappare il termine «populismo» al suo utilizzo giornalistico e alla prevalente accezione spregiativa, e soprattutto di farne la guida per la costruzione di un movimento politico ‘di sinistra’. Di questi tentativi la Variante populista di Carlo Formenti[1] (Derive Approdi, pp. 255, euro 20.00) rappresenta per molti versi una sorta di manifesto. Il libro di Formenti, con la foga della polemica militante, pone infatti sul terreno, insieme a molte provocazioni (che non hanno mancato di sollevare reazioni indispettite), alcune domande centrali. Ma, soprattutto, sviluppa una duplice svolta, che per un verso intende chiudere definitivamente i conti con l’operaismo, mentre per l’altro sostiene la necessità di adottare lo schema populista in direzione di una battaglia volta a riconquistare la «sovranità popolare», contro le derive post-democratiche, e la «sovranità nazionale», contro le istituzioni europee. E proprio perché negli anni a venire non pochi si troveranno a imboccare il sentiero teorico-politico indicato da Formenti, vale la pena di esaminare con cura le diverse sequenze di questo percorso. Anche perché – come le prossime pagine cercheranno di mostrare – nella svolta di Formenti si annida il rischio di un’involuzione in fondo non molto diversa dalla distorsione di cui rimase vittima il populismo un po’ naïve di Lotta continua.

 

Dall’operaismo al populismo

Il libro di Formenti rappresenta l’ultima tappa (almeno per ora) di un percorso critico e autocritico che, in qualche misura, ha proceduto dal riconoscimento del fallimento, o quantomeno dell’insufficienza, dei movimenti che – a partire da Seattle – si sono incaricati di contestare le istituzioni e la logica della globalizzazione neo-liberista. All’inizio del nuovo millennio Formenti aveva infatti osservato con uno sguardo simpatetico quei movimenti, e soprattutto in testi come Incantati dalla rete (2000) e Mercanti di futuro (2002), pur conservando uno sguardo critico nei confronti delle mitologie del web cresciute negli anni Novanta del secolo scorso, aveva ipotizzato che esistessero i margini per la costruzione di una sorta di «Quinto Stato», costituito dai soggetti che avevano guidato la rivoluzione digitale e dall’imprenditoria di Internet, e che questo «blocco sociale» potesse avviare un’evoluzione dei sistemi politici occidentali capace di integrare gli istituti della democrazia rappresentativa con nuove forme di democrazia partecipativa. Solo pochi anni dopo, a partire in particolare dalle pagine di Cybersoviet (2008) e in seguito ancora più energicamente in Felici e sfruttati (2011), Formenti riconosceva però come quell’ipotesi non avesse retto alla prova dei fatti, e come l’alleanza tra knowledge workers e imprenditoria di Internet si fosse definitivamente sfaldata, con la conseguenza di un’ulteriore chiusura degli spazi di democrazia partecipativa[2]. Se nel corso di questo percorso si è distanziato dunque dalle utopie «tecno-ottimiste», che avevano guardato alla rivoluzione digitale come a un processo capace di rovesciare la logica del capitalismo, Formenti si è però progressivamente accomiatato anche dal paradigma teorico operaista, da cui derivavano alcune delle coordinate del suo lavoro. E anche per questo quasi tutti i suoi libri – a partire dalla Fine del valore d’uso (1980) – scandiscono in qualche modo le tappe di una discussione critica (e sempre più radicale) di alcune delle tesi sostenute dai postoperaisti, e cioè da quel filone teorico – per la verità piuttosto eterogeneo al proprio interno – definitosi dagli anni Settanta attorno alle proposte di Antonio Negri. Ancor più precisamente, quasi tutti gli scritti di Formenti – persino testi all’apparenza più distanti dall’analisi delle trasformazioni capitalistiche, come per esempio Prometeo e Hermes (1986), Immagini del vuoto (1989) e Piccole apocalissi (1991) – possono essere considerati anche come un tentativo di riarticolare alcune delle ipotesi dell’operaismo in una direzione differente rispetto a quella indicata da Negri e dagli altri esponenti del postoperaismo. Nel corso degli anni le traiettorie di questa critica si sono però modificate, anche in modo sensibile, soprattutto per quanto concerne la rilevanza attribuita al terreno politico e alle modalità dell’organizzazione. Ma un elemento che nel corso di ormai quasi un quarantennio contrassegna la riflessione di Formenti consiste nella critica alle tracce di determinismo e di «ottimismo» tecnologico ravvisabili nel postoperaismo. Se questo aspetto era già presente nelle pagine della Fine del valore d’uso, sarebbe tornato – in termini più marcati – in pressoché tutti gli scritti successivi, fino a giungere a livelli particolarmente elevati in Felici e sfruttati (2011) e Utopie letali (2013), dove, in particolare, Formenti giungeva a riabilitare la vecchia e bistrattata «autonomia del politico», intesa tanto come autonomia dell’organizzazione politica, quanto come autonomia della macchina statale.

In questa sorta di ‘corpo a corpo’ teorico, che ovviamente doveva anche investire gli stessi principi di fondo dell’operaismo, Formenti non cessava però di utilizzare alcuni strumenti analitici di quel filone di pensiero, e in particolare non rinunciava a ricorrere al concetto di «composizione di classe», che rimaneva anzi quasi l’unica bussola capace di fornire un orientamento in una situazione di radicale transizione. Al termine di Felici e sfruttati scriveva per esempio che rimaneva sempre necessario «analizzare la composizione politica del proletariato globale», oltre che «ripensare il rapporto fra nuovi media e conflitto sociale a partire dalle esperienze degli operai cinesi, più che dalle chiacchiere sulle utopie 2.0»[3]. E anche in Utopie letali, pur soffermandosi in termini ben più energici sul ruolo dell’organizzazione politica e sull’importanza di alcune recenti esperienze latino-americane, non cessava di ritenere fondamentale «una rigorosa analisi della composizione di classe in ogni singola situazione»[4]. Nella Variante populista l’allontanamento di Formenti dall’operaismo giunge invece probabilmente al culmine. Perché viene liquidato (o comunque fortemente ridimensionato) proprio il concetto di «composizione di classe».

Nella Variante populista Formenti riprende e sviluppa molti temi che erano già stati enunciati nei suoi lavori precedenti, e in particolare in Utopie letali. Riprende infatti la lettura della crisi e dell’assetto neo-liberale avviata in precedenza, e prosegue l’operazione di demistificazione dei miti della rivoluzione digitale mostrando, per esempio, come dietro il velo affascinante della sharing economy si celi solo l’aumento dello sfruttamento dei lavoratori. E torna a svolgere una critica alla trasformazione delle sinistre, accusate di avere abbandonato il conflitto sociale e di avere collocato al centro delle proprie riflessioni e delle proprie battaglie la retorica dei diritti, oltre che un femminismo e un ecologismo depotenziati, incapaci di articolare una critica al sistema capitalistico. Ma anche se molte delle polemiche sul libro si sono concentrate proprio su questi aspetti (e sull’ostentato dileggio del «politicamente corretto», cui Formenti induce sempre con un certo compiacimento iconoclasta), il nucleo e la vera innovazione del volume vanno ricercate altrove, e in particolare in una duplice mossa teorica che effettivamente sancisce una cesura rispetto all’itinerario precedente.

La Variante populista definisce infatti una «doppia svolta» nel percorso teorico-politico di Formenti, che coinvolge da un lato il rapporto con l’eredità dell’operaismo e dall’altro proprio le potenzialità assegnate all’ipotesi populista. La prima svolta consiste innanzitutto «in una definitiva presa di distanza, non solo dalle teorie post-operaiste […], ma anche dal paradigma operaista originario»: si tratta cioè di una presa di distanza che – osserva Formenti – «riguarda nozioni fondanti quali il metodo della tendenza, il concetto di composizione di classe (perlomeno nella sua formulazione ‘classica’) e l’interpretazione operaista della categoria marxiana di general intellect» (p. 7). Un simile passaggio implica però un commiato anche dalla stessa teoria marxista, o quantomeno l’abbandono della convinzione ‘determinista’ secondo la quale «la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione» è destinata a condurre «necessariamente al superamento del capitalismo» (p. 8). Ma proprio questa definitiva rottura rispetto alla concezione che spinge a ricercare nel ‘centro’ del sistema capitalistico, ossia nei settori tecnologici più avanzati, il soggetto egemone, capace di agire da traino per l’avvio di un ciclo conflittuale, implica anche un ulteriore passaggio, che conduce proprio al populismo.

La seconda svolta consiste infatti in due movimenti complementari: in primo luogo, la «messa a fuoco dei fattori di controtendenza rispetto al processo di globalizzazione, ovvero il ritorno – ancorché in forme mutate – del conflitto inter-imperialistico, della guerra, dei confini, dello stato di eccezione, dei campi, mentre si dissolvono gli scenari di governance ‘imperiale’»; in secondo luogo il «riconoscimento del fatto che l’unica forma politica che appaia in grado di unificare la galassia di soggetti conflittuali descritta poco fa è il populismo» (p. 8). Ed è naturalmente proprio quest’ultimo punto – che non casualmente fornisce il titolo al volume – a definire la logica di fondo del ragionamento di Formenti, il quale in effetti osserva: «sono convinto che le chance di rilanciare la lotta anticapitalista siano appese alla possibilità di costruire un’egemonia proletaria e socialista all’intero di quei movimenti populisti di sinistra che abbiano saputo unificare e rappresentare le classi subordinate» (p. 8). Più precisamente, lo svolgimento dell’ipotesi populista richiederebbe una serie di passaggi teorico-politici. In primo luogo si tratterebbe di dotarsi di strumenti adeguati alla centralità del «popolo»: «1) restituire a termini come popolo, blocco sociale, egemonia, guerra di posizione, l’originario significato gramsciano, strappandoli alle interpretazioni depotenziate che ne offrono autori come Laclau e Mouffe; 2) appropriarsi dell’idea di popolo come unità contrapposta alla élite, della lotta di classe come opposizione alto/basso, pur senza rinunciare ad analizzare i conflitti di classe che ‘striano’ il popolo e a lavorare perché l’egemonia sia nelle mani di chi sta in basso e non in quelle dei ceti medi; 3) riconoscere che, tanto sul piano della comunicazione e dell’innovazione linguistica, quanto su quello delle forme organizzative (vedi il recupero di forme di democrazie diretta e partecipativa), le sinistre hanno solo da imparare dall’esperienza populista. Anche da quelle di destra!» (pp. 8-9). In secondo luogo, si tratterebbe però anche di «riconoscere e metabolizzare» le conseguenze di due dinamiche globali: «1) l’esistenza di controtendenze crescenti alla globalizzazione, 2) il fatto che la lotta di classe tende a presentarsi come conflitto fra flussi globali di segni di valore, informazioni, merci e manager da un lato, territori e comunità locali che si oppongono alla colonizzazione da parte dei flussi dall’altro» (p. 9).

Se ognuno di questi passaggi illustra la logica di una ridefinizione delle coordinate teoriche di Formenti, sono però soprattutto le prospettive politiche a qualificare i contorni di una svolta che può apparire persino dirompente. Proprio nelle pagine introduttive Formenti esplicita infatti che il vero obiettivo che sostiene l’opportunità dell’ipotesi populista consiste nella «riconquista della sovranità nazionale»: «Accettare la sfida del populismo a partire da questi due eventi significa comprendere che non è possibile opporsi al capitale globale senza lottare per la riconquista della sovranità popolare la quale, a sua volta comporta la riconquista della sovranità nazionale. Se a egemonizzare la lotta sarà il populismo di destra, assisteremo al trionfo di razzismo e xenofobia, se sarà invece quello di sinistra, potremmo assistere alla nascita di un’idea ‘postnazionalista’ di nazione, intesa cioè come comunità di tutti quelli che lavorano e lottano in un determinato territorio» (p. 9).

È piuttosto evidente come il perno su cui si regge il discorso della Variante populista sia la critica indirizzata all’Unione europea. L’idea che l’ipotesi populista rappresenti un’opzione necessaria procede infatti dalla convinzione che l’insieme dei vincoli europei crei le condizioni dell’unità del «popolo» contro le élite, del basso contro l’alto, e renda tanto importante la riconquista della sovranità nazionale. Ed è d’altronde proprio per questo motivo che il discorso di Formenti coglie davvero alcuni nodi cruciali, che è necessario esaminare in modo approfondito. Ma, nonostante l’operazione tocchi effettivamente l’urgenza di alcune questioni vitali, è difficile non riconoscere nel discorso di Formenti alcune forzature, che – al di là dell’asprezza che si può concedere talvolta a una dura ma franca polemica teorica – rischiano davvero di aprire una serie di problemi tutt’altro che secondari. E di indirizzare la discussione su un terreno quantomeno insidioso.

Nel discorso di Formenti si annidano infatti principalmente due problemi, che non casualmente investono direttamente proprio il cuore della «doppia svolta» delineata nella Variante populista. Innanzitutto, le modalità con cui Formenti propone di «archiviare l’operaismo» non solo risultano piuttosto ingenerose nei confronti di questa tradizione teorica, ma rischiano soprattutto di generare conseguenze fuorvianti. Non tanto perché una simile operazione non sia in sé legittima, o persino opportuna, quanto perché, a ben guardare, la traiettoria con cui Formenti ritiene si possa liquidare l’operaismo e le sue deformazioni in realtà finisce con l’indicare una direzione paradossalmente molto simile a quella battuta – con più o meno successo – dal post-operaismo. E invece molto diversa da quella percorsa da un’altra possibile lettura dell’operaismo (e dunque da un altro postoperaismo), cui invece Formenti si è spesso richiamato in molti suoi scritti precedenti.

 

Archiviare l’operaismo?

Nella propria presa di distanza definitiva dal postoperaismo (per il quale non ha per la verità mai nutrito particolare simpatia), Formenti enfatizza il radicale disaccordo maturato nel corso degli anni nei confronti di tre tesi che questa tradizione teorica avrebbe condiviso fin dalla sua nascita: a) la tesi secondo cui «il capitalismo contiene un principio immanente che lo guida inesorabilmente verso la sua negazione/superamento, che coinciderebbe con il raggiungimento di un livello di sviluppo delle forze produttive incompatibile con l’attuale modo di produzione» (p. 134); b) la tesi secondo cui «le attuali forze produttive sono sostanzialmente neutre e quindi riusabili in un contesto non capitalista»; c) la tesi secondo cui «le nuove forme di lavoro ‘immateriale’ liberano le potenzialità creative degli individui permettendo loro di esprimere liberamente la propria personalità» (p. 135). Nonostante le riserve che qualcuno potrebbe sollevare sulla categoria di «postoperaismo» e sulla effettiva omogeneità delle posizioni che vengono ricondotte in questo alveo, è piuttosto evidente che simili critiche non rappresentano una novità per Formenti, dal momento che non fanno che sintetizzare un discorso le cui tracce più remote possono essere rinvenute nella Fine del valore d’uso. Ben più significativa è invece la critica che Formenti indirizza all’intera tradizione teorica operaista e in particolare al concetto di «composizione di classe». Perché in effetti ai suoi occhi è ormai necessario archiviare anche l’operaismo, e non solo il postoperaismo.

Nella Variante populista Formenti sintetizza i cardini dell’operaismo ‘classico’ intorno a quattro affermazioni: «1) per composizione di classe si intende la relazione fra trasformazioni dell’organizzazione produttiva del capitale (composizione tecnica) e orientamenti strategici (obiettivi, pratiche di lotta e le loro forme organizzative) dei vari strati di classe (composizione politica); 2) le lotte operaie sono il motore dello sviluppo capitalistico e ne determinano direttamente o indirettamente i ritmi e le forme […]; 3) l’operaio massa, in quanto figura egemone del modo di produzione fordista, è il soggetto di lotte che esprimono l’immediata politicità dei comportamenti del lavoro vivo; 4) il compito del partito rivoluzionario non consiste più nel trasformare la coscienza spontanea (tradeunionista) in coscienza socialista, bensì nel coordinare e organizzare sul piano tattico la spontanea strategia rivoluzionaria del proletariato» (p. 139). E sono proprio questi tasselli a dover essere archiviati, secondo Formenti. La ricerca sulla composizione tecnica e politica ai suoi occhi rischia infatti di risultare fuorviante e di partorire una sorta di filosofia della storia. «Il rischio connaturato a questo approccio», cioè, «è che, quando la storia non regala conflitti antagonisti, il metodo della tendenza finisce per inventarsi nuovi soggetti anche laddove questi non esistono» (p. 142). In altre parole, lo schema operaista non può evitare di cadere nella trappola per cui si ritiene che la trasformazione capitalistica debba necessariamente partorire un processo ricompositivo. Più in generale, deve però essere archiviata anche la convinzione secondo cui «le lotte operaie sarebbero, sempre e in qualsiasi circostanza storica, l’unico vero motore dello sviluppo capitalistico» (p. 143).

Il riconoscimento della contingenza storica e il rifiuto del determinismo non possono allora che indurre Formenti ad archiviare l’esperienza operaista come ormai priva di qualsiasi vitalità: «Il postoperaismo è stato l’estremo tentativo di rivitalizzare una teoria che appare sempre più come il prodotto di una irripetibile contingenza storica, sociale e culturale. Il carattere contingente delle tesi del gruppo dei ‘Quaderni Rossi’ e dei suoi eredi non è dovuto solo al fatto che erano fondate sulle peculiari caratteristiche professionali dell’operaio massa, ma anche sulle peculiari caratteristiche culturali delle comunità migranti e degli strati generazionali che ne costituivano il nerbo. […] Ma […] occorre anche ammettere che la temporalità storica non è lineare, che la storia, contrariamente all’antico adagio, i salti li fa eccome, per cui ritengo che sia arrivato il momento di archiviare anche il concetto di composizionismo. Il che non vuole affatto dire che non vi sia più la necessità di un costante sforzo di analisi della stratificazione di classe. Al contrario: penso che tale necessità non sia mai stata tanto urgente, ma debba essere affrontata con nuove categorie interpretative» (p. 144).

Naturalmente l’operazione di ‘archiviazione’ dell’operaismo è del tutto legittima, e a ben guardare Formenti non è certo il primo a suggerire l’opportunità di considerare quel paradigma teorico come l’esito di una felice congiuntura, le cui condizioni sono però oggi definitivamente tramontate. Il punto è che però l’archiviazione proposta da Formenti risulta viziata da una semplificazione di fondo, che forse può apparire a molti come del tutto residuale, ma che finisce di fatto con lo schiacciare l’operaismo sul post-operaismo. La semplificazione consiste nella stessa definizione del concetto di composizione di classe che Formenti adotta (e che propone di liquidare), e in particolare nella distinzione tra composizione tecnica e composizione politica. E il punto non è tanto che una simile distinzione debba essere attribuita più al postoperaismo che all’operaismo degli anni Sessanta, quanto che quella distinzione finisce con l’obliterare alcuni degli elementi più originali delle intuizioni dei «Quaderni rossi» e di «classe operaia». E dunque con l’indirizzare l’indagine su un terreno che è paradossalmente molto simile a quello a lungo calcato dal postoperaismo nel corso degli ultimi quarant’anni.

Un rilievo preliminare che si potrebbe indirizzare al discorso di Formenti riguarda naturalmente l’opportunità di utilizzare il termine «postoperaismo». Lo stesso Negri di recente ha biasimato questa espressione, e – sottolineando come la propria ricerca degli ultimi tre decenni rappresenti in realtà una prosecuzione fedele dell’originaria impostazione operaista – ha suggerito di definire questa nuova fase di riflessione come «neo-operaismo», se non addirittura – senza alcuna qualificazione ulteriore – come un rinnovato «operaismo». La scelta è senz’altro legittima, perché non ci sono dubbi – e per la verità, come si è visto, neppure un critico tanto severo come Formenti lo nega – che esistano alcune linee di continuità tra la stagione dei «Quaderni rossi» e le indagini sul lavoro cognitivo e sul «comune»[5]. Ma al di là della scelta dei termini, è anche chiaro che nelle diverse stagioni del pensiero di Negri intervengono dei mutamenti, talvolta non marginali: sull’originaria impostazione del paradigma operaista viene infatti progressivamente impressa una curvatura specifica, che finisce con l’allontanare il sentiero di ricerca almeno da alcuni degli elementi caratterizzanti del filone teorico nato negli anni Sessanta. Ed è proprio per questi motivi che la formula «postoperaismo» può essere utile, quantomeno in prospettiva storica, per collocare temporalmente una soglia tra le prime ipotesi e quelle sviluppate successivamente. Così, sebbene il termine venga adottato polemicamente con una venatura spregiativa (come fa lo stesso Formenti), esso deve essere inteso – o almeno viene inteso in queste pagine – solo come un’etichetta capace di identificare una fase specifica del paradigma teorico operaista: una fase nella quale si modificano alcuni principi della riflessione degli anni Sessanta, ma in cui viene conservata una sostanziale continuità nei termini, negli schemi analitici e nei riferimenti.

Adottando una simile impostazione, è possibile collocare la cesura tra operaismo e post-operaismo più o meno al principio degli anni Settanta, e non dunque (come hanno sostenuto per esempio Romano Alquati e Mario Tronti) in corrispondenza con la fine di «classe operaia», o (come invece sostengono molti altri) nel corso degli anni Ottanta[6]. È infatti dal principio degli anni Settanta (più o meno in corrispondenza dunque con la crisi e la dissoluzione dell’organizzazione nazionale di Potere operaio), che iniziano a essere messi in discussione alcuni dei presupposti fondamentali del discorso operaista del decennio precedente, a partire dalla centralità politica dell’operaio massa della grande fabbrica. Proprio allora alcuni dei protagonisti della ricerca degli anni Sessanta – come Mario Tronti, Alberto Asor Rosa, Rita di Leo e Massimo Cacciari – ‘rompono’ in modo più netto con le vecchie ipotesi e imboccano il sentiero dell’«autonomia del politico». Ma anche coloro che conservano un rapporto di maggiore continuità con la stagione dei «Qr» e di «classe operaia» – come Negri e Sergio Bologna – spostano la loro attenzione verso altri settori, che comprendono per esempio il lavoro nel terziario, i disoccupati, i giovani, il lavoro domestico, articolando ipotesi teorico-politiche – peraltro tra loro molto lontane – che si distanziano sotto diversi aspetti da quelle del decennio precedente.

Più precisamente – ma si tratta ovviamente di una scelta che va presa con la dovuta cautela – è forse possibile collocare il momento specifico della transizione dall’operaismo al postoperaismo nel settembre 1971, ossia quando, allegato al n. 43 di «Potere operaio», esce, come materiale per la discussione interna all’organizzazione, l’opuscolo Crisi dello Stato-piano, destinato negli anni seguenti a essere ripubblicato in varie versioni. Proprio in quell’opuscolo, nell’economia di una riflessione più articolata, Negri proponeva una nuova lettura dello sviluppo capitalistico e della crisi, che attingeva in modo specifico ai Grundrisse di Marx e che appariva invece nettamente in contrasto con la visione articolata da Tronti in Operai e capitale (e adottata in fondo anche da Potere operaio almeno fino al 1969). Ovviamente nel corso degli anni e dei decenni seguenti sarebbero intervenute molte altre innovazioni, che avrebbero approfondito il solco tra l’operaismo e il postoperaismo. Ma probabilmente da quel momento – e dunque, paradossalmente, prima ancora che venisse riconosciuto il tramonto dell’operaio massa della grande fabbrica, come figura egemone del conflitto di classe – i cardini del ragionamento iniziarono a essere almeno in parte diversi da quelli attorno ai quali avevano ruotato fino ad allora l’analisi e la pratica operaista. Ed era proprio nel quadro di questa trasformazione che lo stesso concetto di composizione di classe doveva subire quella metamorfosi di cui Formenti, proponendone l’archiviazione, lamenta tutti i limiti.

In realtà, la distinzione tra composizione tecnica e composizione politica era stata formulata qualche anno prima, nel 1967, per la prima volta probabilmente da Sergio Bologna, il quale aveva utilizzato quello schema per sintetizzare la logica della transizione dall’operaio professionale all’operaio massa nella Germania dei primi decenni del Novecento. Da allora si canonizzò una sorta di genealogia, sulla quale si sarebbe innestata la ricerca di una nuova figura egemone, nella convinzione – non sempre esplicitata a chiare lettere – che dalla nuova composizione tecnica della forza lavoro dovesse scaturire prima o poi anche una nuova composizione politica, secondo uno schema analogo a quello che si poteva riconoscere nella storia dell’operaio professionale e dell’operaio massa. Romano Alquati – per molti versi il principale artefice del concetto di «composizione di classe» – non utilizzò mai quella distinzione (che ritenne anzi sempre piuttosto discutibile), e lo stesso Bologna qualche anno dopo ne propose un sostanziale ridimensionamento. Ad adottare con convinzione la dicotomia di composizione tecnica e composizione politica fu invece proprio Negri, che ne fece la guida per formulare l’ipotesi della genesi del nuovo «operaio sociale», destinato a nascere dalla progressiva socializzazione della fabbrica[7].

Quando Formenti oggi liquida il concetto di composizione di classe, coglie propriamente il residuo di implicito determinismo che si annidava fin dal principio nella dicotomia di composizione tecnica e composizione politica. Ma la sua proposta di archiviazione finisce col trascurare il fatto che la teoria della composizione di classe non era riducibile esclusivamente a quello schema, se non altro perché la riflessione operaista – a partire dagli scritti di Alquati e anche dalle pagine di Operai e capitale – aveva in realtà suggerito un modo di considerare la composizione di classe molto differente da quello in seguito ‘canonizzato’ da Negri, e per molti versi lontano da quella tentazione determinista che finisce col rappresentare i conflitti come una sorta di ‘storia evolutiva’ della classe operaia[8]. Anche se negli scritti del ‘giovane’ Tronti degli anni Sessanta si possono senz’altro rinvenire le tracce di una ‘filosofia della storia’, in realtà non si trattava di un rischio che incideva in modo significativo sull’idea della «composizione in classe» sommariamente delineata in Operai e capitale. Invece di ricorrere alla distinzione tra composizione tecnica e composizione politica, Tronti utilizzava infatti la dicotomia – ben differente – di forza lavoro e classe operaia, che, per quanto conservasse una patina idealista, in realtà acquistava il suo pieno significato all’interno del «rovesciamento strategico» della teoria del valore proposta in quelle classiche pagine. La forza lavoro identificava infatti il lavoro in quanto merce acquistata all’esterno della fabbrica, mentre la classe operaia coincideva con la concreta massa operaia che, all’interno della cooperazione lavorativa, lottava quotidianamente contro l’estrazione di pluslavoro attraverso i propri comportamenti di rifiuto. In questo modo era evidente che il processo lavorativo non era solo il risultato ‘tecnico’ della combinazione tra capitale variabile e capitale costante, tra forza lavoro e mezzi di produzione, perché registrava piuttosto l’esito della continua lotta tra lavoro necessario e pluslavoro che si svolgeva ogni giorno all’interno delle mura della fabbrica. E in questa operazione l’elemento davvero cruciale consisteva nell’intuizione – e nella riscoperta – per cui il lavoro necessario non era semplicemente ‘determinato’ dalla tecnica o dal livello della sussistenza, ma era invece un risultato ‘politico’. Era cioè l’esito dei conflitti e delle esperienze di lotta del passato, che andavano a consolidarsi nel livello del lavoro socialmente necessario e in qualche modo nella stessa struttura della cooperazione produttiva.

La distinzione tra composizione tecnica e composizione politica non si sarebbe limitata invece a imprimere una curvatura determinista al concetto di composizione di classe. In termini ben più radicali, collocando quella distinzione all’interno di una nuova lettura della crisi del capitalismo, avrebbe finito con lo smarrire progressivamente la portata della «rivoluzione copernicana» cui il concetto originariamente si riferiva. A partire dagli anni Settanta – e probabilmente proprio dall’opuscolo del 1971 sulla Crisi dello Stato-piano – Negri avrebbe infatti abbandonato il quadro delineato da Tronti in Operai e capitale. In termini molto schematici – che possono essere qui solo sintetizzati in modo brutale – Negri abbandonò la convinzione trontiana che fabbrica e società fossero destinate a contrapporsi senza soluzione, per attingere a quello schema della crisi del modo di produzione capitalistico che Marx aveva abbozzato nel celebre Frammento sulle macchine dei Grundrisse. Da quel momento si affacciarono nella riflessione di Negri alcuni nuovi temi, come l’estinzione della «società civile» e l’obsolescenza della «legge del valore», destinati a modificare sensibilmente il quadro teorico precedente e a definire un nuovo schema (che si può riconoscere anche nei suoi lavori più recenti e nella trilogia di Impero, Moltitudine e Comune). Per fondare questa lettura, Negri doveva però anche abbandonare la logica della «rivoluzione copernicana» delineata da Tronti, per far propria una visione nella quale il lavoro viene reso astratto grazie allo scambio delle merci che avviene nella società grazie al denaro (e non dunque dalla produzione e riproduzione della forza lavoro come merce). E per quanto si trattasse di un’operazione raffinata e con solide basi teoriche, era proprio per effetto di questo mutamento che la composizione di classe finiva col perdere il proprio significato originario. Privata delle basi nella «rivoluzione copernicana» e del radicamento nella logica dell’«inversione strategica» della teoria del valore, la composizione di classe non poteva più essere concepita come un indicatore di conflitti sedimentati, ma doveva diventare la semplice descrizione ‘sociologica’ di un profilo ‘tecnico’ della forza lavoro, il cui volto ‘politico’ emergeva (talvolta) in occasione delle esplosioni conflittuali, o addirittura sfumarsi del tutto nella figura della «moltitudine» globale[9].

In quasi quarant’anni Formenti si è sempre tenuto distante dall’ottimismo di gran parte dei postoperaisti e ha in molte occasioni indirizzato una critica di latente determinismo alle riflessioni di Negri. Il commiato dalla teoria della composizione di classe, che propone nelle pagine della Variante populista, non implica però solo il rifiuto del determinismo implicito nella dicotomia di composizione tecnica e composizione politica. In termini molto più netti, l’archiviazione del concetto di composizione di classe – che viene identificato senza residui con la definizione canonizzata dal postoperaismo – implica anche l’archiviazione dell’«inversione strategica» della teoria del valore. Dunque, implica la rinuncia non tanto a concepire (storicamente e politicamente) la lotta operaia come il ‘motore’ dello sviluppo capitalistico, quanto a riconoscere in quella che il giovane Tronti definiva classe operaia un soggetto logicamente precedente al capitale e la spiegazione dei suoi movimenti. E le conseguenze di una simile scelta non sono affatto marginali, se non altro perché tutto il discorso rischia di rimanere vittima di una distorsione di fondo. Quando infatti Formenti sostiene che i soggetti della lotta capitalistica non si trovano nei «settori che si presume incarnino il livello più alto di contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione, ma che si deve invece guardare «alle periferie interne ed esterne, alle masse operaie supersfruttate dei paesi in via di sviluppo, ai migranti, alle comunità che vivono ai margini del sistema, alle classi precipitate dalla crisi nell’inferno del terziario arretrato, del precariato, della sottoccupazione, agli esclusi ed emarginati di ogni regione e di ogni settore produttivo» (p. 8), certo si discosta nettamente dalla convinzione postoperaista che i soggetti trainanti di ogni conflitto si trovino al ‘centro’ del sistema, ossia nel punto più elevato dello sviluppo capitalistico. Ma è piuttosto discutibile che il discorso di Formenti investa realmente i cardini del paradigma operaista, almeno per come risultavano definiti dalla «rivoluzione copernicana» degli anni Sessanta. Anche se gli operaisti degli anni Sessanta furono in larga parte convinti che il motore politico di ogni lotta si nascondesse nel cuore della «città fabbrica», nelle linee di montaggio della fabbrica fordista, in realtà la «rivoluzione copernicana» non poneva l’accento tanto sui punti elevati dello sviluppo capitalistico, quanto sui punti più elevati dello sviluppo del potenziale conflittuale della classe operaia, ossia sulla forza della composizione di classe. E proprio poggiando su queste basi teoriche, a partire dagli anni Settanta molte voci diverse articolarono un postoperaismo differente da quello proposto da Negri (o quantomeno differente da percorso che Negri batte in maniera più convinta). Ma questa possibile declinazione del postoperaismo viene invece trascurata da Formenti, che concentra la propria critica sulla versione proposta da Negri e da quei ricercatori che si richiamano più direttamente alle sue ipotesi. E il risultato paradossale è che, schiacciando l’operaismo sulla versione canonizzata dal postoperaismo di Negri, Formenti finisce in realtà col giungere a un risultato simile a quello cui pervengono i teorici della «moltitudine» e del «comune». Non tanto perché le conclusioni teoriche o gli obiettivi politici siano in qualche modo simili, quanto perché l’archiviazione del concetto di composizione di classe implica in sostanza una liquidazione degli stessi presupposti della «rivoluzione copernicana» non molto diversa da quella cui pervennero Negri e i molti postoperaisti a partire dagli anni Settanta, nel momento in cui formularono la tesi dell’esaurimento della legge del valore. Ed è proprio nel vuoto di determinazione creatosi con il definitivo commiato della «rivoluzione copernicana» che Formenti viene a collocare l’ipotesi populista.

 

L’ipotesi populista

Quando articola la sua ipotesi principale, Formenti accetta l’invito di Laclau «a superare l’approccio al populismo in termini di devianza e manipolazione» (p. 200). Per questo riprende le mosse dalla proposta del filosofo argentino, concentrandosi in special modo su due temi: «1) la ‘crisi populista’, intesa come evento che mette in discussione la struttura del sistema sociale e politico in cui si manifesta; 2) le conseguenze che possono favorirne l’evoluzione verso esiti rivoluzionari» (p. 200). La ripresa di Laclau è però solo parziale, perché Formenti – anche se forse meno energicamente di quanto aveva fatto in Utopie letali – considera la proposta del teorico argentino (e in particolare la sua lettura di Gramsci) come «un discorso totalmente inserito nel campo epistemologico di quella svolta linguistica delle scienze sociali» (p. 209) ampiamente criticata nella Variante populista e ritenuta corresponsabile del fallimento della sinistra. Naturalmente Formenti rifiuta l’idea di Laclau secondo cui le domande degli attori non hanno un radicamento nella struttura ‘oggettiva’ della società. Ma l’ipotesi di Laclau, ai suoi occhi, ha comunque il merito di chiarire come la crisi populista renda possibile l’unificazione in un fronte comune di quelle domande sociali differenti che per Formenti sono in sostanza le domande del «99%» contrapposto all’«1%» dei detentori della ricchezza. L’ipotesi populista diventa credibile dunque proprio in un assetto in cui la «condizione comune tale da agevolare la costruzione di coalizioni fra i diversi strati proletari» esiste, ed è rappresentata dalla «comune appartenenza alla ‘comunità di destino’ che li inchioda tutti – a prescindere dalle loro differenze reciproche – ai decili di reddito inferiori, mettendoli in una relazione di opposizione antagonista nei confronti di quell’1% che concentra nelle proprie mani una quota crescente della ricchezza sociale» (p. 174). Ed è inoltre nel quadro dei vincoli europei che l’ipotesi populista deve assumere anche la veste di una battaglia per la riconquista di una sovranità popolare e nazionale.

Benché Formenti recuperi solo parzialmente le ipotesi di Laclau, rifiutandone in sostanza il ‘culturalismo’, non può però evitare di ereditare le ambiguità principali del ragionamento del teorico argentino. Nella ‘riabilitazione’ del populismo proposta da Laclau la costruzione del «popolo» appare per molti versi come una sorta di operazione ‘linguistica’, o, più propriamente, come un processo che si svolge interamente sul terreno delle rappresentazioni. Il «popolo» (che non promana da alcuna essenza ‘originaria’, né tantomeno da determinazioni sociali) si forma infatti grazie a «catene equivalenziali» che possono ancorarsi a un «significante vuoto», in fondo in modo non molto diverso da quanto suggeriva in termini romantici l’inno di Lotta continua scritto da Pino Masi (anche se ovviamente, per Lc, il «popolo» aveva un radicamento tutt’altro che residuale nelle relazioni sociali capitalistiche). Proprio per questo, il merito di Laclau consiste nell’aver riproposto la centralità dell’«autonomia del politico», considerata però principalmente nelle sue dimensioni simboliche, in una visione in cui il ‘politico’ coincide cioè con la dimensione della produzione delle identità collettive: una dimensione che non solo è prevalentemente ‘culturale’, ma che è addirittura autonoma rispetto a ogni determinazione ‘materiale’ o ‘strutturale’ (anche perché Laclau escludeva la stessa legittimità di qualsiasi distinzione tra ‘struttura’ e ‘sovrastruttura’). Ma, a dispetto di tutti i suoi meriti, l’ipotesi di Laclau presenta anche una serie di limiti, che non possono essere trascurati, e che invece si possono intravedere anche nel discorso sul populismo svolto da Formenti. In linea generale, questi limiti sono proprio relativi al sostanziale disinteresse nutrito dal teorico argentino per le risorse materiali di potere di cui i soggetti possono effettivamente disporre. Ma, più precisamente, questi limiti sono evidenti nelle modalità in cui lo spazio e le risorse del conflitto vengono concepiti.

Laclau tende infatti a dare per scontato che le domande sociali non definiscano uno spazio conflittuale autonomo, ma si confrontino e aggreghino in una sorta di spazio ‘liscio’ e ‘orizzontale’ comune. Ovviamente è solo questo presupposto che consente a Laclau di pensare alla costruzione di catene equivalenziali strette attorno a un significante vuoto, perché, se ogni domanda desse origine a una superficie conflittuale differente, la ‘somma’ tra le diverse istanze sarebbe concettualmente possibile. Ma un simile presupposto ha molteplici implicazioni problematiche. In primo luogo, Laclau deve ritenere che tutte le domande possano tendenzialmente essere aggregate con le altre, ma ciò evidentemente non è sempre possibile. In secondo luogo, tende per molti versi a dare per scontato che il confronto tra identità collettive avvenga sul terreno delle istituzioni statali, e, dunque che il conflitto agonistico tra parti si svolga dentro il perimetro dello Stato nazionale. In terzo luogo, sembra assumere che ciò che avviene sul terreno del conflitto simbolico possa riflettersi sempre sui reali rapporti di potere in cui i singoli individui sono inseriti. Infine, sembra in larga parte presupporre uno spazio politico ‘nazionale’, sostanzialmente impermeabile agli attori esterni. E proprio in virtù di questi limiti, se certo il modello di Laclau riesce a illustrare efficacemente la logica della costruzione simbolica del popolo, risulta sostanzialmente inadeguato a spiegare i conflitti che non si svolgano sul palcoscenico della politica nazionale[10].

Si può considerare questo modo di concepire il conflitto come un frutto della ‘svolta culturalista’ e ‘postmodernista’ di cui Laclau è per molti versi uno dei principali esponenti. Ma forse si possono rinvenire le radici più profonde di questa visione nelle coordinate da cui in origine prese le mosse la riflessione di Laclau nell’Argentina degli anni Sessanta. Anche se negli anni Ottanta maturò una posizione «post-marxista», fissata soprattutto nelle nitide pagine di Egemonia e strategia socialista, Laclau era stato infatti profondamente influenzato dal marxismo. Ma, a ben guardare, il principale riferimento della sua posizione marxista era rappresentato dalla teoria della dipendenza, sviluppata per esempio da Fernando Henrique Cardoso, Enzo Faletto e Andre Gunder Frank. In uno dei suoi primi scritti teorici Laclau si concentrò infatti proprio su una severa critica di Frank, che però non metteva in discussione tanto l’impianto di quella teoria, quanto l’individuazione delle specificità del modo di produzione capitalistico. E benché Laclau fosse destinato ad abbandonare molto presto queste posizioni, non è del tutto improprio ravvisare le radici più remote della sua visione del populismo – o quantomeno del modo in cui viene impostata la questione della ‘riabilitazione’ teorico-politica del populismo – nella matrice ‘neo-ricardiana’ della teoria della dipendenza. Nelle sue diverse formulazioni, la teoria della dipendenza – a dispetto dei suoi molti meriti – tendeva infatti a concentrarsi prevalentemente sui meccanismi di appropriazione del surplus e della sua distribuzione tra gli Stati e i diversi strati sociali, e in particolare individuava le cause dello squilibrio non tanto nella logica della produzione capitalistica, quanto soprattutto nello scambio ineguale tra metropoli e satelliti, tra centro e periferia del sistema. In questo schema, lo Stato era ovviamente fondamentale, dal momento che poteva rompere le relazioni di dipendenza tra metropoli e satellite, avviando un’industrializzazione sostitutiva delle importazioni, e poiché era in grado di sciogliere i legami feudali di dipendenza interna, redistribuendo le risorse provenienti dagli introiti fiscali a favore dei settori più poveri della popolazione. Ma ovviamente tutto il discorso rimaneva in questo caso collocato al livello delle relazioni di scambio e della distribuzione, di cui lo Stato poteva diventare gestore, mentre era sostanzialmente trascurato ciò che avveniva ‘dentro’ il processo produttivo in senso stretto. Non casualmente, molti teorici della dipendenza considerarono (almeno parzialmente) positive le parentesi ‘populiste’ di Perón e Vargas proprio perché, attenuando il legame di dipendenza con i paesi avanzati del Nord del mondo, erano riuscite ad avviare un processo di industrializzazione sostituiva delle importazioni (e a siglare una sorta di patto di alleanza con la classe operaia urbana). Ovviamente, nella riabilitazione del populismo compiuta nella Ragione populista Laclau si disinteressava degli aspetti economici. Ma per molti versi – seppur certo forzando questa lettura – si può considerare la sua operazione di ridefinizione del populismo proprio come una sorta di aggiornamento, in una chiave «postmarxista», dello stesso modo di concepire il conflitto che contrassegnava la teoria della dipendenza. Un modo di concepire il conflitto che, proprio perché si concentra principalmente sui meccanismi dello scambio e della distribuzione del reddito, può assegnare allo Stato (e dunque al conflitto per la conquista dei vertici istituzionali) un ruolo centrale.

Se Laclau, a partire dagli anni Ottanta, non dimostrò più alcuna attenzione per la teoria della dipendenza, Formenti torna invece, almeno implicitamente, ad attingere a questo schema teorico, e nel momento in cui – discutendo le posizioni di Alberto Acosta e la sua critica del modello sviluppista adottato Correa in Equador – riprende la vecchia idea dello «sganciamento». Le ipotesi di Acosta – che puntano alla riconquista della «sovranità economica», a una riforma agraria capace di colpire il latifondo e la concentrazione della proprietà terriera, alla limitazione della dipendenza dall’estrazione di petrolio, alla trasformazione in prodotti finiti delle estrazioni, alla costruzione di un sistema politico decentrato – diventano infatti credibili «per chi ritiene che la globalizzazione non sia irreversibile né frutto di ‘necessità’ storica, bensì il prodotto di una guerra di classe dall’alto che […] ha assunto la forma di una guerra dei flussi contro i luoghi», e cioè di «un conflitto in cui i paesi periferici e semiperiferici, nella misura in cui si illudono di poter competere con il centro sul piano della crescita e dello sviluppo, si condannano a rinunciare alla propria sovranità e a restare perennemente sottoposti al dominio altrui» (p. 231). E in effetti è proprio il delinking proposto in passato da Samir Amin e Hosea Jaffe – un processo che «significa cancellare il debito estero e rendersi autosufficienti, invertire il processo di urbanizzazione e tornare nelle campagne per conquistare la sovranità alimentare, rinunciare a priori a rincorrere i livelli di consumo americani ed europei», oltre che «rinunciare agli investimenti esteri per tenersi strette le materie prime e costruire industrie di trasformazione che lavorino per i mercati locali» (p. 231) – a indicare per Formenti la strada che dovrebbe imboccare l’ipotesi populista. «Non si tratta», precisa inoltre, «di immaginare un ritorno all’autarchia, ma di ridurre significativamente il legame con il sistema capitalista mondiale, di praticare cioè strategie di antiglobalizzazione anche attraverso forme di cooperazione e sostegno internazionale a livello regionale, come quelle praticate dai paesi bolivariani attraverso l’accordo Alba» (pp. 231-232). E benché le indicazioni che provengono dagli esperimenti ‘bolivariani’ siano quantomeno contraddittorie, Formenti sembra concedere più di qualche credito a questa opzione.

Le conclusioni – provvisorie e interlocutorie – della Variante populista delineano d’altronde uno scenario conflittuale in cui a contrapporsi sono, per un verso, «il mondo ‘immateriale’ e ‘leggero’ […] dei flussi (di segni di valore, merci, servizi, informazioni e membri delle élite che li governano)» e, per l’altro, il «mondo dei luoghi in cui vivono i corpi di coloro che chiedono cibo, casa, lavoro e affettività» (p. 256). E proprio all’interno di una simile prospettiva Formenti ipotizza la possibilità di una convergenza tra ‘territorialisti’ e ‘comunitaristi’, tra la «comunità operosa» e la «comunità del rancore» evocate da Aldo Bonomi, in grado di rappresentare «un’alternativa al dominio assoluto e incontrastato dei flussi» (p. 258). In altri termini, come Formenti scrive nelle pagine conclusive della Variante populista, si tratterebbe di edificare un movimento ‘populista’, in grado di unificare una pluralità di domande per erigere una barriera contro il «mondo dei flussi» e soprattutto di riconquistare la «sovranità nazionale»: «per combattere il colonialismo dei flussi, occorre partire dal basso, organizzando la lotta dei ‘nuovi barbari’, delle comunità del rancore. Solo laddove si è riusciti a farlo […] si è riusciti a contrastare l’egemonia delle destre sulla rappresentanza degli strati sociali inferiori e ottenere qualche risultato nel contrastare il dominio coloniale dei flussi sui territori. Ma imboccare questa strada vuol dire compire un salto di paradigma, a partire dalla comprensione della necessità di sfruttare le difficoltà e le contraddizioni del processo di globalizzazione per riconquistare sovranità popolare. Vuol dire assemblare dal basso partiti federativi di tipo nuovo, come il Mas boliviano, vuol dire lottare contro questa Europa vuol dire non avere paura di rivendicare la riconquista della propria sovranità nazionale. Nessun processo costituente potrà essere messo in atto in assenza di tali condizioni» (p. 258).

La linea teorico-politica indicata da Formenti è senz’altro ricca di suggestioni, che acquistano un valore ulteriore nel contesto di un’Unione europea in cui le decisioni politiche appaiono ‘depoliticizzate’ e sottratte ai governi e ai parlamenti nazionali. La credibilità – politica, prima ancora che teorica – della ‘variante populista’ è d’altronde strettamente legata alla convinzione secondo cui le diverse domande provenienti dal basso possono legarsi in un fronte comune contrapposto a un alto che è rappresentato proprio dall’Ue e dai sistemi politici ‘postdemocratici’ del Vecchio continente. Ed è per questo che – in una catena logica dalle indubbie potenzialità politiche, oltre che evocative – l’ipotesi populista si connette alla parola d’ordine della riconquista della «sovranità popolare» e alla proposta, che potrebbe apparire persino sconcertante in un pensatore della sinistra radicale, di una riabilitazione del concetto di «nazione»: un concetto che secondo Formenti deve essere sottratto al monopolio delle destre e che deve essere declinato però – come ha fatto Podemos in Spagna – «in chiave progressista, non ripiegata cioè su temi identitari e xenofobi, ma aperta verso l’esterno nonché disponibile ad accogliere e riconoscere pluralità e differenze al proprio interno» (p. 245).

Anche nel momento in cui avanza l’ipotesi populista, Formenti, a ben guardare, non rinuncia del tutto a conservare qualche elemento della sua precedente impostazione operaista, declinato però in una direzione molto distante da qualsiasi determinismo e da ogni fascinazione industrialista. Proprio questo aspetto costituisce forse uno dei tratti più originali e innovativi del suo libro. Anche se l’eredità laclausiana e il recupero dello schema della teoria della dipendenza rischiano di obliterare la portata della proposta.

 

Comunità vs. Popolo

Sempre proseguendo sulla linea della critica al determinismo e alla fascinazione industrialista del postoperaismo negriano (ma da cui non era certo immune neppure l’operaismo degli anni Sessanta), Formenti procede verso una riabilitazione delle ‘comunità’, dei ‘territori’ e della ‘tradizione’ (soprattutto contadina). Per esempio sostiene che «per costruire l’unità dell’insieme degli oppressi e degli sfruttati» si deve cominciare «dal basso, dagli strati più deboli ed emarginati di quelli che stanno ‘dentro’ […] e dalle larghe masse umane che vivono ‘fuori’ (contadini, sottoproletariato metropolitano, lavoro servile, comunità indigene, ecc.» (pp. 193-194). Per Formenti, non si tratta di «sostituire il mito della spontaneità operaia con quello della spontaneità rivoluzionaria di altri strati sociali», bensì di «abbandonare il punto di vista ‘immanentista’, secondo cui più nulla esiste al di fuori del capitale, e di assumere viceversa il punto di vista che riconosce il persistere della dialettica dentro/fuori e dei confini, anche se ridisegnati in relazione all’antagonismo fra flussi e luoghi», dunque di «abbandonare l’idea che il capitale debba essere inseguito sul terreno dell’innovazione tecnologica e della ‘modernizzazione’ delle relazioni sociali» e di «abbracciare invece l’idea che la lotta anticapitalista si nutre soprattutto di opposizione, resistenza e rifiuto nei confronti dei processi di modernizzazione» (pp. 198-199). E proprio in questa logica vengono a situarsi la riscoperta e la riabilitazione della comunità tradizionale, concepita come ‘freno’ alla penetrazione della logica capitalistica: «valorizzare l’apporto di idee, valori, comportamenti, sistemi di relazione e pratiche che vengono da ‘fuori’ (inteso non solo come altrove geografico, ma anche come sfera delle forme di vita non compiutamente colonizzate che vivono negli anfratti delle società capitalistiche) vuol dire valorizzare le relazioni comunitarie concepite come alternative alle relazioni astrattamente sociali fra individui» (p. 199).

Nella propria ‘riabilitazione’ della comunità, Formenti richiama una frase di Mario Tronti – tratta da Dello spirito libero – secondo cui il movimento operaio ha perso nel momento in cui ha iniziato a ‘correre’, e ha cioè cominciato a coltivare l’ambizione di poter raccogliere la missione modernizzatrice del capitale. Ma, al di là di questo richiamo al potenziale ‘rivoluzionario’ della ‘conservazione’ (che peraltro ritorna spesso nell’Abecedario di Tronti curato dallo stesso Formenti e pubblicato da Derive Approdi), il discorso sulla comunità sviluppato nella Variante populista non può essere considerato come del tutto estraneo né alla tradizione operaista, né ad alcune delle declinazioni del postoperaismo. Lo stesso Tronti ha individuato nell’operaismo, già a partire dagli anni Sessanta, un’ambivalenza genetica, e cioè la compresenza – all’interno delle sue posizioni teoriche e delle ambizioni politiche – di una tensione «escatologica» e di una vocazione «katecontica». «L’operaismo, mentre si esprimeva, prima metà Sessanta», ha scritto per esempio in Noi operaisti, «aveva un segno escatologico: non si proponeva certo di concludere al meglio la storia della salvezza, ma, più modestamente, puntava a dare alle lotte operaie uno sbocco politico». Ma il suo merito politico, in chiave retrospettiva, appare ben diverso, perché «compare piuttosto in primo piano la sua funzione di opposizione attiva, consistita nel trattenere, nel ritardare quella deriva umanitario-filantropica della stessa figura dell’operaio di fabbrica, rimasta ormai l’ultima casamatta da conquistare per l’universalismo borghese»[11]. E in contrapposizione al «paradigma escatologico» di Negri, Tronti ha così evocato un «paradigma katekontico», che concepisce la storia in termini molto diversi da quelli del determinismo e della fascinazione industrialista di buona parte della tradizione socialista (e del marxismo): «Penso che noi non possiamo più dire o credere che ci sia un’idea lineare della storia, quindi che comunque sia dobbiamo andare avanti nello sviluppo poiché esso comporterà contraddizione nuove. Credo che bisogna trattenere, non lasciar scorrere il fiume della storia. Bisogna rallentare l’accelerazione della modernità. Perché questo tempo più lento permette di ricomporre le nostre forze»[12].

La riabilitazione della comunità e della tradizione in chiave ‘rivoluzionaria’ che si propone la Variante populista si colloca proprio nel sentiero del paradigma «katecontico» delineato da Tronti. Benché Formenti sviluppi questa ipotesi in marcata contrapposizione polemica con l’operaismo e con il postoperaismo, in realtà questo paradigma non è logicamente antitetico ai cardini del paradigma operaista. E, a ben guardare, non sono mancati sviluppi del postoperaismo anche in una direzione katecontica. Probabilmente le tracce della prospettiva katecontica non erano infatti del tutto assenti già nelle pagine di Operai e capitale, anche se comprensibilmente queste tracce passarono largamente inosservate negli anni Sessanta e Settanta, quando si lesse il libro di Tronti come l’ultimo breviario novecentesco di una possibile rivoluzione (e non invece come la prima riflessione teorica su un mondo ‘post-rivoluzionario’). Ma il paradigma katecontico è chiaramente riconoscibile in alcune importanti declinazioni del postoperaismo, che, a partire dagli anni Settanta, imboccarono una direzione completamente differente da quella di Negri. Per molti versi, le ricerche di «Primo maggio», ‘relativizzando’ la centralità dell’operaio massa, aprirono l’indagine a settori ‘esterni’ alla cooperazione produttiva, e contribuirono così (almeno in parte) a ridimensionare quella tensione escatologica che aveva contrassegnato la teoria della composizione di classe. Probabilmente gli sforzi maggiori – nella direzione di quello che Tronti definisce come «paradigma katecontico» – furono però compiuti da quella componente ‘femminista’ che, pur provenendo (almeno teoricamente) dal percorso operaista degli anni Sessanta, imboccò il sentiero di una ricerca centrata all’inizio soprattutto sul lavoro domestico e, in seguito, sulle dinamiche della riproduzione. Quella riflessione comune – tra i cui frutti si possono per esempio ricordare Potere femminile e sovversione sociale (1972) di Mariarosa Dalla Costa, L’arcano della riproduzione (1981) di Leopoldina Fortunati e Il grande Calibano (1984) di Fortunati e Silvia Federici – al principio degli anni Ottanta imboccò una nuova direzione, non tanto perché le vecchie ipotesi fossero accantonate, quanto perché furono utilizzate per interpretare le dinamiche del sottosviluppo e le politiche di sviluppo promosse nel Sud del mondo dalle istituzioni finanziarie internazionali. La «rivoluzione copernicana» dell’operaismo non era così abbandonata in ossequio al nuovo Zeitgeist e neppure sostituita dalla fascinazione per la nuova rivoluzione digitale. Al contrario, intrecciandosi con il lavoro di riviste come «Zerowork» e «Midnight Notes» e con le indagini di ricercatori come Harry Cleaver, George Caffentzis e Gustavo Esteva, trovava una nuova declinazione, che per molti versi si spingeva a riconoscere come le comunità tradizionali – che erano soprattutto le comunità indigene latinoamericane – potessero costituire un ‘freno’ allo sviluppo capitalistico, e in primo luogo all’estrazione della ‘materia prima’ della produzione capitalistica, ossia la forza lavoro. Lungo questo sentiero l’incontro con l’insurrezione zapatista del 1994 doveva sancire un ulteriore passaggio, e fu d’altronde proprio sull’onda di quell’esperienza che l’idea dei commons – intesa ovviamente in termini molto ‘materiali’, e non solo come ‘metafora’ – iniziò a essere considerata, a partire dalla metà degli anni Novanta, come il principale ‘freno’ alla modernizzazione[13]. Ed era proprio in questa chiave che vent’anni fa Mariarosa Dalla Costa – polemizzando con la convinzione dell’«ineluttabilità dello sviluppo capitalistico» condivisa da buona parte degli eredi dell’operaismo – articolava una proposta in fondo non molto differente da quella che oggi suggerisce Formenti, nel momento in cui riabilita le relazioni comunitarie, auspica l’alleanza della comunità operosa e della comunità del rancore ed evoca una lotta comune del «mondo dei luoghi» contro il «mondo dei flussi». Perché in effetti Dalla Costa riteneva proprio che la lezione dei movimenti indigeni (e di alcune esperienze cooperative negli Stati Uniti) profilasse «il tentativo di coniugare un nuovo rapporto con la terra (per coltivazione, per abitazione, come spazio pubblico), con il trattenere altre risorse a livello locale, dalle abilità lavorative al denaro attraverso l’instaurazione di nuovi livelli di comunità, riappropriandosi del valore d’uso contro il valore di scambio»[14].

Quando oggi Formenti riscopre la comunità e il ruolo di ‘freno’ che può svolgere, di fatto non viene così davvero a ‘divorziare’ del tutto con l’operaismo. Piuttosto, procede in una direzione convergente sotto molti punti di vista – il rifiuto del determinismo e della fascinazione industrialista, l’attenzione per le aree periferiche dell’economia mondiale, la convinzione che le tradizioni e le pratiche della comunità indigena possano rappresentare un argine alla penetrazione capitalistica – con una specifica variante del postoperaismo, molto distante (e meno famosa) di quella canonizzata dalle opere di Negri, eppure strettamente legata, dal punto di vista teorico, alla logica della «rivoluzione copernicana» e ai principi dell’«inversione strategica» della teoria del valore. Ma ovviamente il problema non consiste nel fatto che il commiato di Formenti non sia così netto come invece si legge nella Variante populista. Il problema è invece che la ‘riabilitazione’ della comunità – sia che la si intenda come un tardo lascito dell’operaismo, sia che invece la si consideri come un elemento sostanzialmente antitetico con i fondamenti di quel paradigma – rischia di essere occultata dal recupero dell’ipotesi populista (e dalle sue conseguenze).

Quando infatti Formenti adotta lo schema con cui Laclau illustra la logica della crisi e la formazione – attraverso la costruzione di una catena equivalenziale fissata a un significante vuoto – di un «popolo» (e di una linea di contrapposizione con i suoi nemici), senza dubbio coglie tutta l’importanza dell’autonomia del «politico», o meglio dei meccanismi simbolici con cui si producono le identità collettive. Ma quasi inevitabilmente eredita anche tutti i limiti di quella impostazione. In primo luogo, anche nella proposta di Formenti le domande dei soggetti che si trovano in basso e che puntano a contrapporsi all’alto sembrano potersi aggregare in uno spazio ‘liscio’, che coincide ovviamente con lo spazio della rappresentanza politica e dunque dello Stato nazionale. In secondo luogo, le diverse domande – della comunità operosa e della comunità del rancore, per utilizzare le formule di Bonomi – sembrano davvero potersi ‘sommare’ le une alle altre, anche perché vengono per molti versi ‘tradotte’ nel linguaggio della rappresentazione politica, e dunque tramutate in una richiesta di potere (decisionale) indirizzata verso l’esterno e nella rivendicazione della riconquista della piena sovranità da parte dello Stato nei confronti dell’Ue. In terzo luogo, il ragionamento di Formenti – come implicitamente quello di Laclau – sembra poggiare sull’idea secondo cui lo Stato – una volta riconquistata l’autonomia monetaria e liberatosi dei «vincoli esterni» – risulterebbe finalmente in grado di incidere sulle relazioni sociali, registrando fedelmente i mutamenti che avvengono sul terreno del conflitto politico. Ma proprio questa idea deve assumere come presupposti due convinzioni che sono, a ben guardare, piuttosto problematiche. Innanzitutto, Formenti sembra talvolta persino implicitamente concepire lo Stato come una dimensione sostanzialmente «neutrale», ossia come un insieme di apparati, istituzioni e procedure che può essere ‘conquistato’ dal basso e che pare persino potersi ‘staccare’ non solo dai legami internazionali (come voleva l’ipotesi dello sganciamento) ma anche dalla stessa logica dell’accumulazione capitalistica. E – oltre a reputare praticabile una sorta di ‘rottura’ o di de-linking con le pressioni del sistema capitalistico e del mercato mondiale di merci, tecnologia e materie prime – sembra anche ritenere che lo Stato abbia la possibilità, intervenendo dall’alto, di incidere realmente sulle diverse relazioni conflittuali in cui sono inseriti i singoli individui, modificando le relazioni materiali di potere (per esempio, impedendo con i propri strumenti il lavoro nero dei migranti nelle campagne, evitando che un programmatore lavori nelle ore serali a casa propria o che un giovane architetto neo-laureato lavori gratis in uno studio solo per la vaga prospettiva di una futura assunzione).

Ovviamente tutti i presupposti di questa riabilitazione dell’ipotesi populista si scontrano con una serie di vincoli, che non derivano tanto dal «vincolo esterno» di Maastricht, quanto da quei legami ‘strutturali’ che, fin dall’alba della modernità, stringono l’uno all’altro lo Stato e il modo di produzione capitalistico. Per quanto gli si possa infatti riconoscere una più o meno rilevante «autonomia» nella regolazione dei processi economici, lo Stato non può che rimanere legato alle radici capitalistiche alle quali si alimenta, e – detto in termini forse più raffinati – non può cessare di essere una «forma» delle relazioni sociali capitalistiche, a prescindere da quale sia l’impostazione dottrinaria della forza politica che in un determinato momento detiene le ‘leve del potere’. Espresso in modo brutale, nessuno Stato – anche nel caso in cui riesca a ‘sganciarsi’ (in termini relativi) dal sistema internazionale degli scambi – può davvero ostacolare il processo di valorizzazione, se non rinunciando alle risorse di cui si alimenta e dunque tagliando il ramo su cui si regge il proprio potere. Per il semplice motivo che il rallentamento del processo di accumulazione (nelle sue diverse forme) ridurrebbe le risorse cui lo Stato deve attingere per conservare una burocrazia, per mantenere un sistema di istruzione pubblica e un sistema sanitario, ma anche per disporre di forze di polizia e di forze armate in grado di difendere il territorio da minacce esterne. E d’altronde i regimi populisti latinoamericani – che pure Formenti guarda con uno sguardo ambivalente, consapevole delle contraddizioni che li contrassegnano – non hanno cercato né di ‘indebolire’ lo Stato né di ostacolare e ‘rallentare’ il processo di accumulazione, perché semmai hanno puntato a garantire una più equa redistribuzione degli introiti fiscali (contando peraltro in modo tutt’altro che residuale sui benefici dell’estrazione di materie prime). Ma lo Stato – neppure uno Stato con ambizioni ‘totalitarie’ – può davvero incidere in modo sistematico su tutte le relazioni di potere, ‘trasferendo’ potere da un gruppo a un altro e dunque modificando la struttura ‘microfisica’ delle relazioni sociali. Certo, può tentare di ‘plasmare’ i corpi e le menti mediante le proprie istituzioni, e in questo modo può ‘produrre’ potere, ma solo con tempi piuttosto lunghi. E, inoltre, grazie a strumenti legislativi può favorire le condizioni di un mutamento delle relazioni di potere o consentire che un determinato gruppo sviluppi un potenziale conflittuale. Ma – come mostrano miriadi di casi – neppure la forza della legge può davvero assicurare che, nella vita quotidiana di ciascuno di noi, determinati diritti vengano effettivamente rispettati. E dunque, detto con il vocabolario del ‘vecchio’ operaismo, significa che la composizione di classe non può essere ‘scritta’ per decreto, ma rimane sempre il frutto di un processo di sedimentazione più complesso, in cui i livelli della mediazione politica giocano solo un ruolo parziale (che certo non può essere considerato del tutto irrilevante o trascurabile).

Proprio questo ‘salto’ contribuisce a spiegare la svolta che conduce verso la ‘riabilitazione’ della ‘nazione’ e alla decisione di indicare come terreno strategico in cui compattare un fronte ‘populista’ la battaglia per la riconquista della ‘sovranità nazionale’. Ma è proprio qui si annidano le insidie principali del discorso di Formenti. La prima di queste insidie è strettamente politica, e il suo peso è rilevante proprio perché la forza dell’ipotesi di un blocco populista e ‘nazionalista’ sta per molti versi ‘nelle cose’, e cioè nella dinamica della crisi dell’Ue e dell’eurozona. Molto probabilmente nei prossimi anni l’opzione ‘sovranista’ verrà infatti ad attraversare gli schieramenti politici e rimettere in discussione la stessa distinzione tra destra e sinistra. E non è affatto da escludere che lo scenario di una pacifica ‘presa del potere’ da parte di un blocco di sinistra populista come quello delineato da Formenti si riveli, almeno in alcuni paesi dell’Europa meridionale, molto più realistico e credibile di quanto non possa apparire oggi (d’altro canto, è già oggi molto meno irrealistico di quanto non dovesse risultare cinque anni fa). Ma il punto è che – qualora una sinistra sovranista emergesse e conquistasse la ‘stanza dei bottoni’, e qualora si realizzassero davvero un’uscita unilaterale dall’euro o un abbandono multilaterale della moneta unica – il populismo, pur disponendo delle leve di manovra di uno Stato tornato ‘sovrano’, rischierebbe probabilmente di trovarsi privo delle risorse di potere necessarie per modificare realmente gli equilibri all’interno della società, nelle relazioni ‘microfisiche’ che strutturano la vita quotidiana nelle fabbriche, nei capannoni, negli uffici e nello stesso mercato del lavoro. In altre parole, si tratterebbe di un populismo capace di conquistare la ribalta dello spettacolo politico e di insediarsi al vertice del potere statale, ma privo di basi in un tessuto di relazioni di potere consolidate nella società. E un populismo che non disponga di una base di potere reale (un potere che certo non si conquista con le elezioni), rischia di rivelarsi un protagonista effimero, a dispetto degli entusiasmi che possono sollevare i suoi successi. Formenti naturalmente è consapevole di questo rischio, e l’adozione dell’ipotesi populista marcia per questo di pari passo con la riabilitazione della comunità e con l’idea della lotta del «mondo dei luoghi contro il «mondo dei flussi». Ma dato che il suo discorso è prevalentemente proiettato verso la necessità di costruire un blocco ‘populista’, tutte le intuizioni sul potenziale ruolo ‘frenante’ delle comunità e dei territori rischiano di essere obliterate, o di passare inosservate.

Nascosta nelle pieghe del discorso c’è però anche un’insidia ancora più rilevante, che più che altro è legata alla lettura che delle ipotesi di Formenti può essere fatta. Per effetto della duplice svolta compita nella Variante – da un lato l’archiviazione dell’operaismo e della teoria della composizione di classe, dall’altro l’adozione dello schema populista di Laclau e di un apparato interpretativo fortemente indebitato con la teoria della dipendenza – il rischio è infatti di imboccare una strada in cui il ‘tradizionale’ conflitto di classe si trasforma in un conflitto ‘politico’ che si svolge nel teatro della rappresentazione, o persino in un conflitto tra Stati, che vede tra loro in contrasto le ‘periferie’ (e le ‘semi-periferie’) con le potenze espressione del ‘centro’. E anche se Formenti non cessa di guardare a ciò che avviene nei territori, e alle tracce della resistenza delle comunità alla penetrazione del «mondo dei flussi», l’adozione dell’ipotesi populista – in nome della polemica contro il postoperaismo – rischia di deviare l’attenzione dalle relazioni ‘materiali’ di potere (e per ovviare a questo inconveniente non può certo servire una ‘correzione’ in senso gramsciano, che inverte solo in parte la logica del discorso). Sebbene Formenti sia infatti costantemente interessato alla stratificazione sociale e ai mutamenti del capitalismo, nel momento in cui adotta lo schema di Laclau non può che situare il populismo nella sede dello spettacolo politico (o della relazione tra Stati), mentre il riferimento ai conflitti materiali rischia di dissolversi, tramutandosi nella semplice attenzione ai mutamenti nella distribuzione del reddito e dunque nell’evocazione di una possibile azione di ‘redistribuzione’ da parte di uno Stato tornato padrone della leva monetaria. E proprio per questo l’archiviazione del concetto di composizione di classe e dell’operaismo suggerita da Formenti può giungere ad aprire le porte alla legittimazione del disinteresse (teorico e politico) per i conflitti che avvengono ‘dentro’ i processi di produzione e riproduzione, e alla valorizzazione di uno sguardo che invece si rivolge in modo prevalente ai meccanismi di distribuzione del reddito, ossia proprio verso quei meccanismi sui quali può effettivamente intervenire l’azione dello Stato. E nel vuoto di determinazione che si apre con il commiato dall’operaismo e dalla teoria della composizione di classe, si può dunque anche agevolmente collocare la tendenza a trasferire le relazioni conflittuali a livello internazionale, ossia a un livello in cui a contrapporsi non sono le classi o i gruppi sociali, bensì gli Stati e le nazioni della ‘periferia’, in lotta contro il ‘centro’ del sistema capitalistico per conquistare la propria autonomia.

Il rischio di questa nuova «variante populista» non è allora solo di tornare a rivisitare il populismo un po’ naïve di Lotta continua, con la sua invocazione alla «lotta di popolo» di operai, studenti e pastori sardi, insieme alla sua mitizzazione della violenza proletaria e dello scontro politico. Il rischio ben più rilevante è di tornare a rispolverare quell’impasto di sorelismo, spontaneismo e nazionalismo che – a cavallo della Prima guerra mondiale – rappresentò una via di uscita dalle secche del determinismo marxista e dal fallimento della Seconda Internazionale. E la «variante populista» può così davvero rivelarsi un’incognita di cui rimane difficile prevedere gli sviluppi. Non solo perché, privata della consolante bussola offerta dalla fascinazione industrialista e dalla filosofia della storia marxista, ogni distinzione tra ‘progresso’ e ‘conservazione’ (e tra valori ‘progressisti’ e posizioni ‘oscurantiste’, oltre che tra ‘destra’ e ‘sinistra’) perde qualsiasi significato. Ma soprattutto perché la definizione della fisionomia di un «popolo» privo di radicamento nella struttura ‘materiale’ della società rischia di essere affidata solo alle onde mutevoli della corrente emotiva, all’entusiasmo di una proposta politica, alle capacità comunicative di un leader carismatico o di un abile gruppo dirigente. E proprio per questo, la riabilitazione della ‘nazione’ e l’adozione delle parole d’ordine sovraniste potrebbero essere allora solo i primi passi di un percorso ben più sinistro. Perché – se certo non sarà Formenti a imboccare una simile direzione – non possiamo escludere che nei prossimi anni, proprio sviluppando quelle premesse che vengono fissate nella Variante populista, qualcuno non si spinga a riabilitare il vecchio mito dell’Italia «nazione proletaria», in lotta con le ricche e forti nazioni continentali, che Enrico Corradini inalberò più un secolo fa. O che qualcuno non giunga persino a dipingere nell’avventura della guerra l’occasione del sospirato riscatto, capace di sottrarre un paese al suo destino di declino e di condurlo verso la meta di un mitico «socialismo nazionale».


Note
[1] C. Formenti, La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo di Carlo Formenti (Derive Approdi, Roma, 2016). Salvo diversa indicazione, tutte le citazioni (seguite dall’indicazione delle pagine da cui sono tratte) si riferiscono a questo libro.
[2] Per una più approfondita ricostruzione di questo discorso rinvio a D. Palano, Il viaggio di Hermes. A proposito di “Felici e sfruttati” di Carlo Formenti, in «maelstrom», 10 febbraio 2012 [http://www.damianopalano.com/2012/02/il-viaggio-di-hermes-proposito-di.html].
[3] C. Formenti, Felici e sfruttati, Egea, Milano, 2011, p. 149.
[4] C. Formenti, Utopie letali, Jaca Book, Milano, 2013, p. 237.
[5] D’altronde, lo stesso Formenti aveva utilizzato in passato la formula «neo-operaismo» per indicare la posizione di Negri.
[6] Per questa lettura rimando ad alcune note sviluppate in D. Palano, The «excesses» of cognitive capitalism, in «Historical Materialism», 2013, n. 3, pp. 229-245.
[7] Per questa rilettura del concetto di composizione di classe (e delle sue diverse declinazioni), rimando a, D. Palano, Il bandolo della matassa. Forza lavoro, composizione di classe, capitale sociale: note sul metodo dell’inchiesta (2001), ora in Id., Il bandolo della matassa. Pensiero critico nella società senza centro, Multimedia Publishing, Milano, 2009, pp. 115-167, e Id., Nel cervello della crisi. La “storia militante” di Sergio Bologna tra passato e presente, in A. Simoncini (a cura di), Dal pensiero critico. Filosofie e concetti per il tempo presente, Mimesis, Milano, 2015, pp. 333-357.
[8] Sintetizza qui una critica che ho già sviluppato in D. Palano, Lenin a Pechino? Leggendo «Utopie letali» di Carlo Formenti, in «Tysm», giugno 2014.
[9] Per un’argomentazione più articolata di questa lettura, che può qui essere ripresa solo in estrema sintesi, rinvio a D. Palano, Politica nell’età postmoderna. Teoria e critica nella trasformazione sociale, Aracne, Roma, 2015, e soprattutto a Id., Dioniso Postmoderno, Multimedia Publishing, Milano, 2008.
[10] Per una discussione un po’ più ampia delle tesi di Laclau, rinvio a D. Palano, Il principe populista. La sfida di Ernesto Laclau alla teoria democratica, in M. Baldassari – D. Melegari (a cura di), Il popolo che manca. La teoria radicale di Ernesto Laclau, Ombre corte, Verona, 2012, pp. 241-261, oltre che a Id., In nome del popolo sovrano? La questione populista nelle postdemocrazie contemporanee, in S. Cingari – A. Simoncini (a cura di), Lessico postdemocratico, University Press, Perugia, 2016, pp. 157-186, e a Id., Populismo, Bibliografica, Milano, 2017.
[11] M. Tronti, Noi operaisti, Derive Approdi, Roma, 2009, pp. 63-64
[12] Ibi, p. 111.
[13] Esempi significativi in questa direzione sono rappresentati dagli scritti recenti di Federici e dal lavoro di Massimo De Angelis e della rivista britannica «The Commoner».
[14] M. Dalla Costa, L’indigeno che è in noi, la terra cui apparteniamo, in A. Marucci (a cura di), Camminare domandando. La rivoluzione zapatista, Derive Approdi, Roma, 1999, p. 310.

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