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Circa la ‘tentazione’ del populismo democratico

di Alessandro Visalli

La Folla Courtesy of TripheDi recente Michele Prospero, filosofo fortemente impegnato nella critica di leaderismo e populismo, in particolare negli anni che vanno dall’insorgere di Berlusconi a Renzi, passando per il M5S, ha scritto un interessante articolo su Il Manifesto (qui il testo) nel quale segnala la crisi del liberismo anglosassone ed anche, contemporaneamente sia del “liberismo a contaminazione populista”, di marca berlusconiana, sia del “neo-illuminismo europeo”, di marca prodiana. Distingue quindi in queste crisi l’emergere di un vuoto nel quale sono premiate quelle che chiama “chiusure, protezioni e illusioni comunitarie”.

L’articolo si muove chiaramente nell’orbita di LeU, che ne è il soggetto, il “progetto” cui fa riferimento nei primi righi è questo:

Che il voto non abbia premiato la sinistra è così evidente che non vale insistervi oltre. Invece di accanirsi in una metafisica della sconfitta o di trincerarsi in un silenzio che dura ormai da un mese, i dirigenti dovrebbero chiarire cosa fare del modesto bottino elettorale comunque ricevuto. Non ci vuole una disperata opera di contrizione per spiegare perché dal 6% raggiunto alcuni mesi prima alle regionali in Sicilia si è verificata alle politiche una perdita di almeno due punti che ha indebolito di molto il progetto.

Nel seguito immediato l’autore nomina le cause che hanno sottratto “quei decimali di consenso” che avrebbero ridotto la sconfitta elettorale. Questi sono:

gli errori di comunicazione (la dichiarazione di disponibilità di Grasso, a tre giorni dal voto, a un governo di scopo con Renzi e Berlusconi), l’arroganza nella composizione delle liste (in Umbria, nella notte prima del deposito delle candidature, da Roma è venuto l’ordine di cancellare la lista che si apriva con il nome di uno tra i più autorevoli costituzionalisti, solo per soddisfare equilibri astrusi), l’insensibilità politico-culturale (di un appello promosso da Asor Rosa e firmato da 150 docenti universitari non si è ritenuto di fare nulla), il rifiuto in origine di dotarsi di un nome e di un simbolo che risultassero più coerenti con l’ambizione di rappresentare la sinistra rimasta nel bosco.

Di qui nasce lo scopo dell’articolo: invitare a non smobilitare LeU, pur nel quadro di quelli che chiama “processi obiettivi” che trascendono la possibilità effettiva di incidere nella crisi. Ci sarebbe “più di un milione di persone che non rinuncia al voto identitario”.

Quanto detto fino ad ora è dunque che un progetto sconfitto, strutturalmente marginale (che obiettivamente non può incidere nelle onde della crisi) sul piano dell’effettiva capacità di incidere nelle dinamiche politiche, e caratterizzato da errori inerenti gli uomini che lo hanno portato avanti (errori in sostanza riconducibili all’autoreferenza ed al politicismo), tuttavia va proseguito.

Perché?

Lo schema di Prospero è geometrico: da una parte l’individualismo estremista, rappresentato dal liberismo i cui effetti ultimi hanno definito la crisi sociale in corso (crisi di perdita di coesione, prima ancora che economica), dall’altra il rifugio nella chiusura protettiva ma ingannevole di comunità nazionali (viene citato “italiani, rosario e ruspa”). Entrambe sono ricondotte alla ‘destra’ che passa con disinvoltura dal liberismo in crisi di risultati al protezionismo di Trump.

La crisi del liberismo è il punto di partenza comune alle democrazie d’occidente. La destra passa con disinvoltura dal mito liberista reaganiano e tatcheriano alle invocazioni di protezionismo di Trump, che conquista le periferie sollecitando primordiali spinte comunitaristiche.

Il liberismo è da Prospero quindi inquadrato come destra, anche quando la “contaminazione” berlusconiana lo rendeva poco riconoscibile nei suoi caratteri idealtipici, mentre la sinistra, tutta, è inquadrata in altra rubrica: ovvero in quella progressista. L’analisi del caso italiano, sul quale ha speso diversi libri (come ad esempio questo), è infatti duale:

ll dato di sistema, anche in Italia, è segnato dalla crisi degli assi politico-sociali-culturali della cosiddetta seconda repubblica. Essi ruotavano attorno alla polarità tra un liberismo a contaminazione populista e a guida berlusconiana e una modernizzazione dolce guidata dalla coalizione all’insegna di un neo-illuminismo europeo a conduzione prodiana.

La coppia è, insomma, “destra/liberismo (e populismo)” vs “sinistra/progressismo (ed europeismo)”.

Ed il progressismo è identificato come illuminista e modernizzante.

Ci sono dunque due crisi contemporanee: quella del liberismo e quella del “progetto europeo della concorrenza dei mercati”. Sembra di capire che il progetto europeo, imperniato sulla concorrenza tra i mercati in primis nazionali (anche quando si vogliono dissolvere a parole), non abbia quindi a che fare con il “liberismo”. A ben vedere è necessario che sia così nell’economia del discorso, altrimenti la distinzione tra “destra” e “sinistra” diventerebbe, nei termini posti, difficile. Come diventerebbe difficile associare così strettamente l’olio del liberismo e l’acqua del comunitarismo. Per dire Friedrich Hayek in “Perché non sono un conservatore” definisce nucleo della posizione liberale la fiducia nella libertà individuale e la simmetrica sfiducia nei poteri del governo, mentre il “conservatorismo” ne sarebbe il nemico, al pari del “socialismo”. I “conservatori” sono coloro i quali rispettano le tradizioni, le autorità costituite sociali e comunitarie. Insomma, sulla frontiera indicata da Prospero gli elementi comunitari e “populisti”, sarebbero del tutto diversi ed opposti al “liberismo” e al “progressismo” insieme.

Del resto nella frase seguente, lo schema diventa improvvisamente tripartito: “tra l’individualismo liberista demolito dalla crisi sociale e i rifugi in comunità ingannevoli (prima gli italiani, il rosario e la ruspa) esiste un vuoto, quello che nel Novecento ha occupato il socialismo”. Compare proprio lo schema Hayekiano: liberalismo/conservatorismo/socialismo. Ma allora Prodi si deve trovare nello spazio del liberismo (insieme al progetto europeo).

Tralasciando questa ritrosia a portare avanti la critica, comprensibile, vero la fase ulivista della storia recente della sinistra il vero scopo del pezzo di Prospero compare ora: sbarrare la strada ad ogni ipotesi di produrre versioni non di destra della protezione offerta dalla comunità nazionale. Ovvero qualsiasi ipotesi di proporre una critica del liberalismo su questo piano.

Infatti:

Chi pensa che non ci siano alternative al populismo, e che quindi anche la sinistra debba camuffarsi con abiti adeguati allo spirito del tempo (ma il Renzi trafitto a ripetizione non era proprio questo travestimento populistico?) lancia alternative illusorie. Per recuperare gli elettori che hanno abbandonato la sinistra per approdare al M5S non occorre scimmiottare la versione più originale e anche genuina della rivolta del “basso”. Questo inseguimento della invenzione grillina sarebbe una operazione inutile e velleitaria (come è parsa la disperata mossa di Letta e Renzi di riassorbire la protesta del M5S contro la casta cancellando il finanziamento pubblico ai partiti).

Qui il discorso, però, sembra tornare politicista. È infatti “illusorio” cercare abiti adeguati allo spirito del tempo, anche perché sarebbe inautentico (un “camuffarsi”); se si vuole “recuperare gli elettori”, ovvero contare nel gioco politico rappresentativo, non si può scimmiottare la rivolta dal basso, anche se è “genuina”, perché sarebbe velleitario: non funzionerebbe.

In effetti se compiuta dal personale politico di LeU la cosa potrebbe essere tale, o meglio essere la stessa cosa di quello tentato da Letta e molto più sistematicamente da Renzi (il cosiddetto “populismo dall’alto”, che gli elettori hanno subito letto come inautentico e finto).

Allora che può fare LeU? Per Prospero “serve un progetto più complesso” che non sia “l’ossimoro del populismo rosso”.

Tra le due destre resta lo spazio del socialismo.

Il socialismo sarebbe, dunque, un terzo tra l’individualismo ed il comunitarismo per il quale invita a costruire una “cultura politica nuova che tragga ispirazione da Marx e che quindi politicizzi oggi la contraddizione tra il tempo che la tecnica libera e le esclusioni che il capitale impone”. Mi sembra, però, che l’indicazione muova in qualche modo nella direzione opposta a quella tentata da Marx: mentre questi ha inteso politicizzare la contraddizione tra il lavoro salariato, dunque tra il tempo di lavoro alienato, e l’inclusione subalternizzante, e costituente al contempo, che imponeva il capitale al suo tempo, Prospero sembra qui proporre di lavorare nello spazio del “lavoro liberato”. Ovvero della crescente marginalità creata dalle dinamiche tecniche dell’automazione (soprattutto nei servizi) insieme alla esternalizzazione a catena lunga (la globalizzazione).

Bisogna capirsi: se Prospero, nel pezzo sul Manifesto, sta dicendo che una organizzazione politica rappresentata in Parlamento, LeU, non ne deve inseguire un’altra, il M5S, e non si deve alleare con essa, il discorso ha un senso. Se, invece, seguendo la logica astratta delle premesse, sta in effetti dicendo che il nucleo costituito da questa deve fare lavoro di costruzione della classe, senza seguire la logica “del 99%” del populismo politico pone una questione diversa e più seria e difficile.

Ma qui il ragionamento sembra un poco sfilacciarsi, se ha ragione nel dire che nessuno può supplire alla necessità di farsi classe dei subalterni (per farsi valere), la mossa di Marx poggiava sulle solide fondamenta del modello taylorista di lavoro, che concentrava ed uniformava. Invece lo spazio che invita ora a ripoliticizzare è costitutivamente individualista e disperso. Di qui l’essenza della mossa populista, almeno nella versione ‘di sinistra’ di Laclau.

Il richiamo che segue ai delegati sindacali ed ai lavoratori precari, a costruire una coalizione sociale ed una organizzazione politica autonoma sembra peraltro ripetere, non ben collegandosi con l’invito a guardare il ‘tempo liberato’ (che andrebbe più sui temi di un Gorz), quasi identica, la mossa costitutiva del socialismo novecentesco.

Purtroppo credo anche io che possa essere illusorio ‘camuffarsi con abiti adeguati allo spirito del tempo’, ma rischia di esserlo anche rimettere i vecchi.

Per andare avanti io credo convenga guardare più profondamente alla questione del populismo, al di là dei richiami strettamente congiunturali di Prospero al M5S ed all’esperienza berlusconiana (ma anche renziana) sui quali ha totalmente ragione nell’avere ampie riserve. Ma per farlo non è conveniente cederlo completamente alla “destra” (anche perché ci sono significativi esempi storici anche sull’altro versante). Nel libro di Nicolao Merker “Filosofie del populismo”, che Prospero conosce molto bene, nel paragrafo 4 del primo capitolo, viene detto che sono esistiti ed esistono populismi “di sinistra, o nella fattispecie populismi socialisti” (p.12). I populisti russi, gli anarchici, gli schematismi della seconda e terza internazionale, con l’idea che la creatività del popolo avrebbe reso inutile il governo, ma anche la Comune di Parigi. Tutte forme di “ipostatizzazione” del “popolo” che sottende una istanza morale di universalizzazione della giustizia. Insomma, Merker fa un lungo elenco di “schematismi”, ne fanno parte: “trotskismo, operaismo, marxismi terzomondisti, ‘libretto rosso’ di Mao, ecc…”, e chiaramente il “marxismo-leninismo”. Non sarebbe populista invece Gramsci, Kautsky, Bernstein, l’austromarxismo di Renner e Bauer.

Insomma, la traccia di Merker sarebbe che è “populista” ciò che propone un soggetto, ovviamente immaginandolo e costruendolo nella mossa di nominarlo, come centrale e tendenzialmente unico, delegittimando radicalmente gli altri, mentre non lo è il riformismo, che ammette l’esistenza di più soggetti legittimati.

In effetti questa è, in altre forme e linguaggi, un’opinione largamente condivisa.

Di recente Nadia Urbinati, in “La sfida populista”, ha scritto un articolo nel quale richiama il rischio della demagogia e del maggioritarismo come limite delle esperienze populiste. La sua tesi è stata avanzata anche in altre occasioni: il populismo democratico è il limite estremo del campo, rischia sempre di scivolare fuori, costituendosi come dittatura di nome o di fatto. Della stessa opinione, ad esempio, Jan-Werner Muller in “Cos’è il populismo”, per il quale questo è intrinsecamente maggioritario, ovvero totalitario ed estraneo alla tradizione liberale.

Certo, Hayek vedeva, come altri, in sostanza tutto il socialismo sulla stessa diversa sponda del liberalismo, lo “Stato interventista” che esprime la volontà generale formata per via politica sarebbe incompatibile con la libertà.

“Populismo”, come “comunitarismo”, sarebbero in effetti opposti alla “democrazia liberale” fondata sul primato del diritto formale e procedurale e quindi degli individui. E lo sarebbero in grande misura alla versione europea, imperniata su un più modesto “Stato regolatore” disciolto sulla verticale di istituzioni via via sovraordinate, che estremizza la soluzione madisoniana interpretando e tradendo ad un tempo (tutte le estremizzazioni lo fanno) il principio lockiano su cui sono al fondo costruite le nostre costituzioni scaturite dalle rivoluzioni “borghesi”: ogni autorità legittima deriva dal consenso di coloro sui quali è esercitato, ovvero, “gli individui sono tenuti solo a ciò a cui hanno acconsentito”.

Il populismo, che ha intrinseche dimensioni antipluraliste, è però, come riconosce anche Muller, “una risposta democratica illiberale al liberalismo antidemocratico”. Un liberalismo, che come si è manifestato nel conflitto del referendum, nel quale Prospero era fortemente schierato per il “no” (come me) ha dimenticato il principio fondante della democrazia: la sovranità popolare.

Si sta in queste opposizioni come un uomo affamato in un labirinto di specchi. Se la sovranità popolare è stata dissolta nel gioco dei rimandi e delle procedure (nei vari “piloti automatici”), ma ovviamente “il popolo” non esiste, in cosa si sostanzierebbe il richiamo al “socialismo”? Peraltro anche alla democrazia?

Accolto il piano politicista, e se si cerca di essere se stessi e non di imitare altri, cosa resta che si possa dire se non si vuole cedere alle soluzioni madisoniane, sin dalla prima formulazione costruite (come gli Stati Uniti d’America) per controllare il temibile “popolo”?

È singolare che un filosofo come Laclau cerchi di uscire da questo dilemma, lui che vede la faccia dell’egemone liberale dal lato giusto, essendo argentino, recuperando in chiave costruttiva e debitrice delle svolte linguistiche del novecento, il concetto di “egemonia” da Gramsci. Il campo sociale si costruisce come effetto di forze che sono aggregate da discorsi politici. Ma non preesiste, potendo essere rilevato secondo qualche tecnica (ad esempio il web), alle pratiche performative che sono il proprio del politico.

Scrive Carlo Galli in “La sinistra e la speranza”, sul suo blog, che se la crisi della sinistra e reale e lo stato di LeU e PaP “non giustifica alcuna speranza”, e che “essere anti-sistema è obbligatorio, siamo in un’epoca di crisi che ce lo impone”.

Allora, magari, bisogna uscire dagli schemi troppo vecchi e troppo ossificati: non tanto destra/sinistra, quanto comunità/libertà. Forse la libertà passa per la comunità, e non solo per l’individuo che sceglie nell’illusione di poterlo fare da solo.

Forse il proprio del politico, se non ci si vuole arrendere alla dittatura dello “Stato regolatore” (la cui maggiore espressione storica si dà negli stati federali e nella strana copia estremizzata che è l’Unione Europea), può essere proprio nell’articolare faglie antagoniste compiendo l’impossibile: costruire ciò che non è, e non può essere, cioè la società.

Ciò per Laclau significa passare da una logica liberale della differenza, della creazione e valorizzazione di individuali differenze e quindi dello scontro di minoranze, alla logica dell’equivalenza. Ovvero alla logica per la quale le differenze trovano e valorizzano nel discorso egemonico imposto dal politico la linea di faglia specifica rispetto alla quale sono reinterpretate e quindi create come equivalenti; rispetto alla quale, cioè, tante soggettività diverse in tutto si fanno finalmente “popolo” e rivendicano la propria “sovranità”.

Hic Rodhus his saltus, scrive Galli.

Bisogna dimenticare il governo per farsi popolo.

Per poterlo fare bisogna correre qualche rischio, e lavorare anche sulla vaghezza e la retorica. Tenere in vista e insieme revocare in dubbio il nostro razionalismo, la dipendenza profonda dal discorso della modenizzazione, del progresso (che suonava ben diverso alla metà del secolo XIX, quando i principi e le dinastie regnavano in Europa), e puntare alla produzione di significanti che si possono riempire da parte di soggettività disparate.

La domanda sarebbe quindi: quale è il significante, di per sé vuoto, che può costruire un popolo in grado di rivendicare la propria sovranità?

Siamo, con questa domanda, molto oltre il quadro dell’articolo di Prospero. In effetti più sul terreno di Galli, ma questo mi pare più appropriato alla drammaticità del momento: non ha molta importanza se LeU resta, se si scioglie, se va con questo o se va con quello. Ciò che conta è quale formazione egemonica si ritiene più adatta alla fase, quale “popolo” si può costruire in essa, quale, sapendo che non sono tutte uguali (che “l’onesto”, ad esempio, demarca un “popolo” non significativo rispetto alle faglie più urgenti, che sono quelle dello schiacciamento economico e sociale, o che “il nativo” esprime una non necessaria violenza, o che la “casta” contiene una visione rozzamente piatta del funzionamento sociale e liquida troppo rapidamente il fatto dell’autorità), e che la vocazione della tribù della sinistra, che ha perso per via, è di leggere, certo anche definendo, dei funzionamenti sociali, dei concatenamenti resistenti, solidi, in qualche modo primari, difficilmente aggirabili, che determinano opposizioni nelle cose, e non solo nelle rappresentazioni.

Attraverso questi leggere le grandi questioni che dividono, e che identificano quindi (per fare qualche esempio):

Nominandole, esaminandole e sottoponendole alla più feroce critica, si tratta di proporre una sottostante comprensione delle meccaniche del dominio, dei fattori di divaricazione all’opera nel tessuto vivo della società, di quelle deviazioni della rabbia verso falsi bersagli che creano unità utili a cambiare tutto perché nulla cambi.

Bisogna essere insomma se stessi, su questo ha ragione pienamente Prospero, ma su questi temi bisogna costruire il popolo.

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