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Contrordine: la creative class non è più progressista

Sul “pentimento” di Richard Florida

di Lucia Tozzi

floridaLa classe creativa non è più il motore della civiltà democratica, e la concentrazione di hipster, nerd e omosessuali in ameni quartieri urbani non è più il segno di una prosperità in procinto di espandersi a macchia d’olio, ma un epifenomeno della crescente diseguaglianza e della segregazione che ha investito la popolazione globale.

Ma chi poteva ancora sostenere delle idiozie del genere, viene da chiedersi?

La risposta è Richard Florida, il più grande divulgatore di questi e altri (pochi) concetti simili, e insieme a lui migliaia di politici, amministratori urbani dei cinque continenti, l’intero arco della stampa mainstream globale, e un numero più grande di quanto non si voglia ammettere di accademici e studiosi nel campo dell’urbanistica e dell’economia urbana. Perciò, se all’indomani dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca appare un libro intitolato The New Urban Crisis, sottotitolato How Our Cities Are Increasing Inequality, Deepening Segregation, and Failing the Middle Class – and What We Can Do About It, e firmato Richard Florida, author of The Rise of The Creative Class, non bisogna prendere la cosa sotto gamba.

 

Anatomia di un pentimento

Dopo averci martellato per 15 anni con la teoria delle tre T (Talento, Tecnologia e Tolleranza) – cioè dei tre attributi grazie ai quali la Classe Creativa, raggrumandosi come uno sciame d’api sul miele nel centro delle città più vibranti, rappresenterebbe la miniera d’oro della società, in grado di produrre crescita illimitata, pace e benessere per tutti gli uomini e le donne di ogni genere e razza – Richard Florida si cosparge il capo di cenere e illustra in 300 pagine come il clustering della suddetta classe creativa non produce altro che ingiustizia sociale, favorendo i processi di accumulazione da parte delle élite urbane e di esclusione e impoverimento delle classi medie e basse.

È importante capire perché lo fa e come. E non perché ci interessano i rimorsi di coscienza di un pensatore modesto, ideologo del capitale liberal, professore alla Rotman School of Management dell’Università di Toronto e Distinguished Fellow alla Schack School of Real Estate della New York University, ma perché quando nel pensiero unico dominante si apre una breccia anche minuscola è doveroso saggiarne l’ampiezza e la consistenza, verificare che non sia un trompe-l’oeuil, e in ogni caso usarla per indebolire la compattezza dell’edificio.

La prima e più importante verifica che si impone in questo caso riguarda la dimensione, o se si vuole la “sincerità” di questo pentimento: quella di Richard Florida è una rivoluzione copernicana? Le analisi contenute in questo libro equivalgono a un ripudio delle sue tesi originali sulle città creative, a una nuova visione del mondo che sostituisce completamente quella precedente? Assolutamente no, è evidente: The New Urban Crisis è un libro che reagisce a due terremoti nella cultura liberal statunitense, la ricezione del libro di Piketty e la sconfitta di Hillary Clinton. Dopo queste due scoppole, Florida tenta di ricomporre il suo mondo real estate oriented ammettendo il minimo possibile (l’elefante della diseguaglianza, che non voleva proprio più restare nell’armadio), ma facendolo teatralmente apparire come un atto di grandissima autocritica e presa di responsabilità. A una lettura estesa di questo ammasso ridondante di dati e di concetti tautologici, risulta che sì, le città più creative sono le più diseguali, e viceversa che le massime concentrazioni di diseguaglianza corrispondono ai cluster di creativi, ma non si fa cenno al ruolo delle lobby immobiliari nelle dinamiche di espulsione dei meno abbienti, e men che meno ai fondamenti delle politiche fiscali che hanno spazzato via il sistema redistributivo conquistato punto per punto nel XX secolo.

 

La scarsità è colpa dei NIMBY

Il contenuto della svolta di Florida è sostanzialmente una benedizione al sistema esistente, ma con qualche piccolo aggiustamento fiscale, qualche piccolo investimento in più sul trasporto locale e sulle case low budget (non popolari, si badi), e una grande deregulation urbanistica che riduca i NIMBY al silenzio.

Uno dei grandi crucci di Richard, infatti, è che inesorabilmente i creativi, una volta aggregati in una città sufficientemente cool, cominciano a competere per aggiudicarsi gli spazi migliori – guarda un po’ –, creando le condizioni perché questi scarseggino, e quindi il loro prezzo aumenti a dismisura. Questa è già una disgrazia, ma la cosa peggiore, a suo parere, è che invece di correre ai ripari e cercare il modo più efficiente per accogliere le classi meno abbienti, questi fortunati creativi mostrano un gusto speciale per l’accresciuto valore immobiliare delle loro case e l’esclusività del proprio quartiere, e finiscono per arroccarsi come i più oscuri razzisti reazionari. Insomma, i supposti campioni della tolleranza si oppongono a qualsiasi progetto di espansione o di apertura e si trasformano in quei vessatori denominati NIMBY - Not In My Back Yard.

Ora, il Nimbismo è certamente un fenomeno odioso fino a sconfinare nell’abiezione, come nel caso degli abitanti di North Kensington a Londra che dopo avere assistito all’incenerimento doloso di decine di abitanti della Grenfell Tower nella scorsa primavera si opponevano senza vergogna alla riallocazione dei poveracci superstiti nello stesso quartiere, in quanto loro avevano pagato «fior di quattrini per comprare in quella zona», e «abitare in centro non è un diritto». Tuttavia, anche detestandolo, è ridicolo identificarlo come causa prima efficiente della scarsità di terreno, in città oramai letteralmente governate dalle più grandi compagnie immobiliari: è un classico spostamento dal piano politico-economico al piano morale. Una forma di distrazione.

Proporre ancora più deregulation urbanistica non può che portare a città ancora più piene di uffici e residenze di lusso e quasi-lusso destinate a restare semivuote. Come per esempio a Milano, dove dopo il fallimento del progetto Santa Giulia e dei terreni del post-EXPO, dopo i grattacieli semivuoti di ex-Fiera e Porta Nuova ora proprietà dell’emiro del Qatar, si è appena approvato un piano per gli ex-scali ferroviari fatto di uffici e residenze di lusso, in cambio di minuscole quote di housing neanche tanto sociale. Tutto questo in una città che conta in decine di migliaia gli appartamenti sfitti e sempre in decine di migliaia gli iscritti in lista d’attesa per l’assegnazione delle case popolari.

Insomma, l’“Urbanism for All”, il capitolo delle soluzioni che nelle speranze di Richard Florida dovrebbe assicurargli un altro ventennio di consulenze e conferenze sul futuro urbano, è un misto di misure reazionarie in malafede, regali per il Real Estate, e obiettivi che, scollegati dalla critica al sistema capitalistico, suonano, più che utopici, dadaisti, come aumentare i salari ai lavoratori dei servizi o migliorare il mercato dell’affitto a buon mercato.

Ma allora, tornando al punto di prima, a che ci serve questo pentimento?

In primo luogo è prezioso perché infrange la grande divisione che lo stesso Florida ha sempre avallato tra gli “ottimisti urbani” (lui e i suoi amici) e i “pessimisti urbani”, cioè chiunque eserciti una forma di critica nei confronti dello sviluppo urbano capitalista. L’ottimista urbano per eccellenza che increspa il monocromo della sua elegia urbana con una critica grossa come un macigno è la rottura di un tabù politico e mediatico, costringe giornali e poteri forti ad abbandonare la dittatura del positive thinking, a elaborare risposte articolate al conflitto. O quanto meno rende più difficile liquidare la critica come pura negatività, come mancanza di visione. È come il fratello scemo che lancia la torta in faccia durante un matrimonio, guasta la festa più di un gruppo di facinorosi accalcati al cancello. La melassa spalmata su miliardi di pagine e traboccante dagli schermi perde consistenza, suona stonata.

L’altro elemento interessante è che, nella sua smania di coniare definizioni icastiche, che possano essere memorizzate e diffuse con facilità, Richard Florida cattura il fortunato filone dell’economia “Winner-Take-All” – inaugurato a metà degli anni ‘90 dal saggio di Robert Frank e Philip J.Cook (The Winner-Take-All Society: Why the Few at the Top Get So Much More Than the Rest of Us) ed espanso nei decenni successivi ad analisi dei mercati, della finanza, delle politiche economiche – applicandolo alle politiche urbane. Il secondo capitolo del suo libro, intitolato appunto Winner-Take-All Urbanism, descrive sommariamente il meccanismo dello star system urbano globale, che in maniera del tutto analoga a quello del cinema, dello sport o dell’arte o di qualunque altro campo si traduce in una polarizzazione estrema tra pochissime metropoli che attraggono tutto il capitale umano e finanziario e la quasi totalità delle altre che rovina nella povertà e nell’oblio. Nonostante il guazzabuglio di argomentazioni superficiali e contraddittorie, emerge con stentorea chiarezza, quasi per errore, questa frase conclusiva: «La concentrazione di talento e attività economica in un numero di spazi sempre più ristretto non solo divide le città del mondo in vincitrici e perdenti, ma rende le winner cities inaccessibili a chiunque non appartenga al ceto più privilegiato. Questo ciclo in perenne accelerazione è una buona notizia per ricchi proprietari di case e terreni, ma pessima per quasi tutti gli altri».

Florida impiega il resto del libro a tentare di annacquare e smentire la drammaticità di questa affermazione, ricorrendo ai NIMBY e a dati male intrecciati, ma di fatto non ci riesce.

Ha messo il dito nella piaga principale, quella che David Harvey chiama il sistema di governo imprenditoriale delle città, costruito sull’attrazione competitiva di investimenti, che è il cardine della logica liberista in campo urbano, della crescita senza occupazione e senza redistribuzione. Chiunque sia in grado di osservare da vicino e con una certa lucidità le politiche urbane sa che questo è il sistema egemone, che non è più solo un effetto della normale competizione tra i mercati ma ha plasmato le strutture di governo sovranazionali. Gli amministratori invece di amministrare sono costretti a promuovere la città, a patteggiare con le lobby e a imbastire improbabili progetti per “vincere” finanziamenti europei o peggio corrottissime gare gestite dalla Fifa o dal BIE, e questo non fa altro che alimentare il circuito di estrazione delle risorse ed espulsione delle classi medie.

Solo che finché queste cose le dicono Harvey, Mike Davis o Saskia Sassen restano confinate in un circolo inoffensivo di intellettuali, mentre se scappano dette al guru, al consulente dei governi liberal, è un altro paio di maniche.

La formuletta di Florida, Winner-Take-All Urbanism, decostruisce in maniera forse più efficace di quanto avrebbe voluto la miseria dello storytelling meritocratico sulle città efficienti e innovative, smascherandole per quello che sono: Londra, New York, San Francisco, e in misura proporzionalmente minore Milano o Berlino, non sono altro che sanguisughe. Il loro successo è fatto della linfa delle altre città, delle risorse sottratte alle periferie e ai suburbia, e le popolazioni ricacciate ai margini ne sono oramai abbondantemente consapevoli. Se non si trova una via di uscita a questo sistema claustrofobico, la troveranno loro.

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