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sinistra

Il più impolitico e capitalistico dei gesti: il selfie

di Salvatore Bravo

22Il selfie è il più impolitico dei gesti, il suo ripetersi ossessivo, lo scatto che diviene autoscatto per autoscrutarsi alla ricerca di una gratificazione narcisistica escludente.

Il selfie è molto più che un gesto banale, è il gesto che consente di cogliere la struttura sostanziale del capitalismo assoluto. Ogni realtà deve scomparire con le sue contraddizioni, in sua vece l’idolatria di se stessi: il corpo diviene morto in quanto è negato nella sua relazione con l’altro. Il declino dell’occidente lo si può cogliere nell’ermeneutica di un gesto banale, quasi innocente. L’assenza di pensiero permette a quel gesto di trasformarsi in un’azione anticomunitaria ed antipolitica. Il corpo vivo è il corpo vissuto della comunità nella relazione del logos, nell’incontro che diviene ontogenesi dell’idea. L’epoca del capitalismo assoluto vive del corpo morto, anestetizzato dalla possibilità-necessità dell’intenzionalità. Il capitale si è affermato con la divisione tra res cogitans e res extensa, corrispondente alla classe dei detenitori dei mezzi di produzione ed alla classe dei salariati. La filosofia di Cartesio è divenuta la sovrastruttura per giustificare sulla soglia dell’industrializzazione la divisione dei ruoli trasformatasi in ipostasi. La riduzione della materia ad ente privo di vita, infinitamente manipolabile ben si presta alla cultura della morte, alla rottura di ogni vincolo comunitario, il quale sopravviveva nell’uso comune delle terre durante il Medioevo.

Con l’industrializzazione declina la politica in modo definitivo, essa diviene ideologia, idea per celare interessi particolari. Si assiste ad una frattura sociale e comunitaria che il pensiero di Hegel e Marx cercheranno di trascendere attraverso il superamento del dualismo. La politica è intenzionalità che vive dell’azione percettiva in cui ritrovarsi. Ogni grande idea di comunità ha il cuore pulsante nell’incontro, nella genesi dello sguardo che diviene parola. Si giunge alla parola nell’agere del precategoriale il quale si attualizza nella cultura della dualità. Il selfie è il silenzio dell’altro e di se stessi. Lo sguardo consumato solo per sé orienta la percezione verso la chiusura, verso una clausura edonistica nella quale ogni temporalità diviene reversibile: il gesto si ripete e con esso si struttura un modello sociopolitico. L’atomismo di massa passa per l’atomizzazione di parti di corpi, nella separazione dell’unità del corpo, metafora della separazione della comunità. Tempo della ripetizione che invita la persona ad essere oggetto di un ciclo naturale con il suo ritmico ripetersi. Il gesto cannibalico, del divorare se stessi, attraverso la ripetizione. Il selfie e l’incultura sociale ed economica che lo sostiene, dilaga anche nelle scuole, insegna l’indifferenza, devitalizza il corpo, il quale diventa immagine da mostrare e vendere nel mercato globale. Sempre meno persona, sempre più selfie, il silenzio si fa raggelante per tutti. Con il gesto più individualista che il turbocapitalismo abbia fondato, la comunità scompare. Si vive nella cultura dell’astratto. Si assiste ad un cambiamento antropologico: tale gesto è la punta di diamante di una cultura della mercificazione senza limiti, in cui al soggetto si insegna la separazione ed il conflitto funzionali alla logica del capitalismo. I processi di soggettivizzazione si concretizzano in una microfisica del potere, della gestualità, che ritaglia nella carne la propria prospettiva, e la propria condizione del mondo, tagliando altri gesti possibili. L’astrazione consiste nella scomparsa dell’altro, e dunque di ogni lotta per la trasformazione. L’ossessione quando diventa socialmente disfunzionale, tale da impedire il ciclo consumo – produzione, è curata come patologia, e dunque non è spiegata nella sua genesi materiale. La medicina e la psichiatria divengono la costola della cultura del capitale.

La doxa descritta dalla Arendt in Socrate, in quanto splendore, apparire agli altri, rendersi visibili agli altri con la propria storia, con la fragilità dell’essere umano è invece principio di lotta, di dialettica, è un apparire che mette in moto le energie cognitive comunitarie per l’azione, per la trasformazione dei limiti e delle contraddizioni operanti.. La doxa non ha la pretesa d’essere portatrice dell’aletheia, della verità assoluta, la doxa è il vissuto personale che si rende pubblico, si fa parola per progettare nello scontro -incontro, nella fatica dell’ordito delle parole un logos comune e dunque una comunità politica in cui l’esserci di tutti è contemplato come possibile reale”.

La parola doxa non significa solo “opinione”, ma anche “splendore” e “fama”. In quanto tale si riferisce al campo politico, che è la sfera politica in cui ciascuno può apparire e mostrare chi egli sia.” Per i Greci, sostenere una propria opinione faceva parte della capacità di mostrarsi, di essere visti e sentiti dagli altri. Questo era il vero e grande privilegio legato alla vita pubblica, un privilegio che veniva a mancare nella dimensione privata della sfera domestica, in cui nessuno può vederci o sentirci( i membri della famiglia, la moglie e i figli, gli schiavi e i servi, non erano evidentemente considerati umani).”1

Il selfie è la negazione della doxa, è il ritorno ad un privato in cui non si è riconosciuti in quanto esseri umani con una storia. La politica per la Arendt è comunità, la persona trova il suo fondamento nel processo dinamico dell’ontologia intenzionale. Il declino della politica è il tramonto di ogni spazio pubblico: al suo posto uno spazio sempre più astratto, uno schermo breve nella sua grandezza in cui perdersi per sempre. Lo spazio pubblico rende umani poiché in esso il logos si concretizza nella dualità dell’incontro con se stessi e con gli altri”.

Secondo Socrate, il principio guida per l’uomo che espone in modo veritiero la propria doxa è “essere d’accordo con se stesso”, non contraddirsi e non dire cose contraddittorie.”2

Il selfie è la cultura dello spettacolo organica al silenzio del logos. L’essere umano che ha smesso di parlare con se stesso può essere all’occorrenza un criminale relazionale o semplicemente un consumatore inconsapevole agito all’interno del tempo ciclico del consumo. La Filosofia deve farsi carico del suo Golgota riportare la politica dove regna lo spazio astratto del consumo, deve svelare le contraddizioni attraverso le parole sepolte dal selfie. La politica potrà superare la sua crisi solo mediante il riconoscimento dei mali che la logorano e che ledono la sua credibilità di essere fondatrice di comunità di senso. Marx aveva colto che il capitale, il plusvalore, ambisce a divorare come una divinità mefistofelica la persona, le comunità. La vita stessa sotto i suoi colpi ‘finanziari’ diventa una vita inautentica, reificata. Lo spettacolo quotidiano della vita offesa va in scena di giorno in giorno, di attimo in attimo; fatalmente la nuova cattiva divinità divora le vite degli uomini per trasformarli in automi da selfie. Le vite inautentiche devono essere ascoltate, perché si possa introdurre dove regna la coazione a ripetere il pensiero divergente. L’analisi dei modi di produzione e dei miti annessi è un’operazione cognitiva e specialmente politica imprescindibile. La sinistra militante deve smitizzare le ipostasi, vere trappole ontologiche, in cui generazioni sono cadute. E’ in gioco la libertà e la vita plena. Marx affermava “essere tutti uguali per essere diversi”, ponendo al centro del suo pensiero la condizione dell’individuo, ribaltando il paradigma dell’umanità appendice dell’economia. La struttura economica dev’essere per l’uomo, e dunque la trasformazione dei modi di produzione era l’immagine visibile di un nuovo paradigma culturale, in cui un’umanità consapevole spezzava, in circostanze storiche favorevoli, le catene della reificazione. La vera vita di Badiou pone la libertà come problema al centro del suo testo, aristotelicamente potremmo dire che la libertà non è un dato naturale, ipostasi eterna cosostanziale alla democrazia, la libertà è un processo emancipativo storicamente condizionato. Della libertà non si parla nel libero occidente, dogma della religione del capitale, la libertà è professata secondo il filtro del mito del capitalismo assoluto, unica cifra in cui si declina la libertà. La libertà è la moltiplicazione del selfie, la sua produzione ad infinitum, libertà è il gesto che consuma se stessi in una cultura pornografica, in cui regna il visibile. La libertà è libero mercato, consumo trasgressivo nel regno del sonno della ragione. E’ essere omologati nel mito del giovanilismo, eternamente giovani per poter consumare e nulla più. La cultura dell’inautentico avanza in una tragicommedia, i padri e le madri in senso lato inseguono la cultura del rendersi visibili per omologarsi ai figli. Si lascia in tal modo avanzare il mercato il quale priva i figli dei diritti dei padri e delle madri. Badiou evidenzia che accanto a questa visione liberticida ed atomistica della libertà serva ed ancella dei mercati e del capitalismo predatorio, vi è un’altra libertà: la libertà di vivere ricercando il proprio sé, di fiorire a nuova vita e ritrovarsi con gli altri in un processo di reciproco riconoscimento. La libertà è relazione con sé e con gli altri, in tal modo la libertà dona alla comunità esseri umani degni di questo nome e non automi del e per il consumo.

La libertà è oggi una possibilità, i miti dell’occidente declinano, le liturgie con rispettive gerarchie sono al tramonto. Gli effetti dell’incultura del selfie ci vengono incontro, ma spesso non trovano pensatori, uomini e donne pronti a confrontarsi con gli effetti di tale incultura. Vi sono dunque le condizioni per fondare nuovi modelli di vita egualitari in cui riconoscersi. Il pericolo incombente è il capitalismo assoluto; il tramonto delle ideologie e delle verità gerarchicamente imposte, se hanno lasciato spazio a margini di manovra notevoli, nel contempo rischiano di consegnare, in una società senza padri maestri e vecchi, le nuove generazioni al mercato.

La prima è l’apologia illimitata del capitalismo e delle sue vuote <<libertà>>, gravate come sono dalla vana neutralità della sola determinazione mercantile. Diamo un nome a questo percorso: il richiamo è quel che chiamo <<desiderio d’Occidente>>, ovvero l’affermazione che non esiste né può esistere nulla di meglio del modello liberale e <<democratico>> della nostra società, paesi dello stesso tipo.” qui da noi in Francia e in tutti gli altri”.3

Le nuove generazioni, non solo le nuove, sono esposte al rischio dell’asimbolico, di perdersi tra le cose, di vivere il nichilismo dell’ultimo uomo nietzscheano come possibilità realizzata.

Ma vi è un’altra possibilità in parte inesplorata, eppure fra di noi presente e potenzialmente concreta: la libertà come Ri-simbolizzazione egualitaria.

Oggi, poiché ne ha la libertà e la possibilità, la giovinezza non è più incatenata dalla tradizione. Ma che cosa farsene di questa libertà, di questa nuova erranza? Bisogna scoprire ciò di cui si è capaci, per quel che riguarda una vera vita creatrice ed intensa, bisogna risalire verso la propria capacità. Lì sarete pronti per la nuova simbolizzazione egualitaria. E’ questo il rapporto tra la sua costruzione e la sua negazione”4.

Badiou coglie la contraddizione non lontana dalla tragedia di una giovinezza che vive perennemente al limitare della libertà, la scambia con l’accumulo, con l’angoscia della vita vuota nella quale le cose silenziano il non senso dei giorni. La libertà è sempre possibile, vivere criticamente la libertà artificiale del mercato può spalancare la vita vera, la creazione intenzionale in cui si incontra se stessi e gli altri e con questa la meraviglia di vivere. Esposto sull’abisso del nichilismo, il futuro è ancora aperto, ma pericolosamente aperto. Dinanzi al nulla dei giorni, alla quotidiana frustrazione dei miti del mercato vi è il pericolo di nostalgie distruttive. Il passato può apparire preferibile alla tristezza delle esistenze appiattite dalla logica della compravendita” 

Il secondo percorso è il desiderio reattivo di un ritorno alla simbolizzazione tradizionale, ovvero gerarchica. Questo desiderio si riscopre spesso dell’una o dell’altra narrazione religiosa, che si tratti di sette protestanti negli Stati Uniti, dell’islamismo reattivo nel Medio Oriente o del ritorno al giudaismo ritualista in Europa. Ma si annida altrettanto bene nelle gerarchie nazionali (Viva i francesi <<di origine>>! Viva l’ortodossia grande-russa,!), nel razzismo puro e semplice (islamofobia di origine coloniale o antisemitismo ricorrente), o infine, nell’atomismo individuale (Viva Me e abbasso gli altri!)”5.

Il capitalismo assoluto con le sue ineguaglianze, con le ingiustizie evidenti ma che non trovano espressione e progetto potrebbe spingere verso pericolose derive autoritarie ammantate di democrazia. Si pensi alla politica dominata dai leader, ai governi forti imposti dall’eterna emergenza finanziaria, ai tentativi di svuotare il parlamento delle sue funzioni per rafforzare l’esecutivo. La filosofia deve tornare ad essere corruttrice dei giovani alla maniera di Socrate, deve ritornare nella storia, nella comunità per riportare la parola ed il logos dove regna l’atomismo sociale per essere forza plastica e creativa della vera vita. Non vi è futuro né libertà senza la filosofia liberata dalle catene delle accademie e dei media e che ritrova il suo fondamento nell’essere l’anima della polis.


Note
1 Hannah Arendt Socrate Raffaello Cortina Editore Milano 2015 pag. 34
2 Ibidem pag. 41
3 A. Badiou La vera vita ed. Ponte alle Grazie Milano 2016 pag. 40
4 Ibidem pag.49
5 Ibidem pag.41

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