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Coordinamenta2

Nodi irrisolti

di Elisabetta Teghil

2007-2017/ dieci anni di femminismo ovvero come il femminismo si è consegnato nelle mani del nemico

nodi irrisolti 1Il femminismo è di gran moda. Se ne fa un gran parlare, non c’è canale televisivo, quotidiano, rivista, sede istituzionale o paraistituzionale che non parli di femminicidio, che non nomini la violenza sulle donne, da quella sessuale agli abusi sul lavoro, dalla necessità delle quote di rappresentanza femminili, di qua o di là, alla disparità di trattamento economico e via discorrendo. Si vendono le cuffie con le orecchie rosa, le borse con il simbolo di genere perfino nei mercatini rionali. Detto così sembrerebbe un gran bene. Invece il “femminismo” che va per la maggiore, svuotato di ogni valenza antagonista e liberatoria, diventato merce e strumento delle logiche di dominio, sta portando ai resti il femminismo tutto.

E’ stato un lungo percorso che si è dipanato dalla fine degli anni’70 fino ad oggi e nella deriva a cui siamo giunte ha una parte importantissima la scelta politica di non affrontare e risolvere alcuni nodi fondanti: la sorellanza, l’emancipazione, la trasversalità, l’interclassismo, il conflitto.

Tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70 le donne hanno scoperto di essere tutte sorelle nella consapevolezza della comune oppressione. Non più un problema femminile, dunque, di cui tutti quelli che avevano a cuore una società migliore avrebbero dovuto e voluto occuparsi, non più una carenza di attenzione e di diritti a cui la società avrebbe dovuto porre rimedio, bensì una questione strettamente legata ad un modello socio-economico, il patriarcato, assunto e affinato dalla società del capitale, che prevedeva ruoli sessuati precisi, gerarchicamente impostati, in cui il maschile veniva costruito come dominante e il femminile dominato per una resa ottimale degli individui messi al lavoro in una divisione precisa dei compiti e con uno sfruttamento differenziato e gerarchico.

Tutte le donne, quindi, avevano un nemico comune, gli uomini, perché erano quelli a cui era stato affidato il compito di pretendere e far assolvere alle donne il compito sociale per loro costruito. L’asservimento del genere femminile era ed è trasversale alle classi sociali, seppure declinato in maniera diversa per ogni classe o frazione di classe.

La consapevolezza politica di cosa fosse il patriarcato e la presa di coscienza della sua natura strutturale aveva portato anche al separatismo. E qui dobbiamo aprire una piccola parentesi su cosa si intenda per strutturale, una parola di cui il femminismo riformista continua a riempirsi la bocca dicendo che l’oppressione sulle donne è strutturale perché si riconosce e si ritrova in ogni ambito della società. Invece è proprio il contrario. L’oppressione sulle donne si ritrova in ogni ambito della società perché è strutturale. E, quindi, la risposta a cosa significhi strutturale viene mistificata e non viene data. Dovrebbero svelare che il patriarcato è un modello economico che il capitalismo ha assunto e di cui l’aspetto culturale è solo la conseguenza, che il patriarcato è un modello organizzato per un ottimale sfruttamento e che per questo i ruoli sessuati maschili e femminili sono estremamente specializzati, che è un modello impostato sulla gerarchia, sul possesso, sul dominio e che quindi è impensabile destrutturare il concetto di proprietà fisica, affettiva, economica nello specifico del nostro sfruttamento senza porsi il problema di destrutturarlo nella società tutta. E questo vale, naturalmente, anche per la gerarchia e per il dominio che si basano sulla filiera meritocratica tanto cara al neoliberismo.

Ma l’assunzione del principio di sorellanza avulsa dall’analisi di come si muove questa società ha condotto a risultati perversi e ha perpetuato equivoci.

E’ vero, quindi, siamo tutte oppresse, ma, come tutto nella società del capitale, siamo attraversate dalla classe. Alcune lo hanno capito, altre lo hanno condannato, più o meno scientemente e, demonizzando la discriminante di classe, propagandando l’equivoco della non violenza e della fine delle ideologie hanno permesso la spoliticizzazione del femminismo, hanno contribuito al dispiegarsi della violenza del sistema come unica legittima e dell’ideologia dominante come unico riferimento e hanno riconsegnato attraverso la socialdemocrazia riformista le donne agli esperti e allo Stato. Chi aveva capito si è sgolata ma non se l’è sentita di attaccare le donne che stavano vendendo le altre donne. L’emancipazione è stata trasformata da strumento a fine, da presa in carico di ulteriori possibilità per potersi liberare all’assoggettamento alle logiche della partecipazione allo Stato, della carriera, della promozione individuale fino a diventare parte integrante del potere.

In quelle che avevano capito ha preso il sopravvento la paura del conflitto. Ma cosa significa paura del conflitto? Le remore nei confronti di un conflitto fra donne sono state più forti della consapevolezza del disastro.

Trasversalità, è vero, tutte le donne sono oppresse, ma quelle che supportano e che si fanno garanti e partecipano attivamente ad una configurazione ideologica gerarchica, autoritaria, classista saranno sempre dalla parte sbagliata della barricata, contro se stesse ma anche contro tutte le altre donne e quindi nostre nemiche.

Ma per comprendere meglio come questi enunciati si siano tradotti in scelte reali basta attraversare il femminismo degli ultimi dieci anni, dal 2007 al 2017 e prendere come esempio quello che è accaduto a Roma, non perché sia più importante di altri luoghi ma perché particolarmente significativo.

A Roma dal 2007 al 2017 si sono svolti degli eventi che sono stati degli snodi emblematici per il percorso politico femminista, e non solo, in questo paese. Inoltre questi snodi sono stati vissuti in prima persona e questo non guasta, anche se sono convinta che le esperienze si sedimentino e che non sia necessario siano fatte direttamente, altrimenti per parlare di qualcosa dovremmo avere esperienza di tutto lo scibile umano.

Il 24 novembre del 2007 ci fu proprio a Roma un’imponente manifestazione nazionale femminista, autoconvocata in seguito al femminicidio di Giovanna Reggiani e contro la strumentalizzazione che veniva portata avanti dall’arco costituzionale per il varo di leggi e decreti securitari e di controllo sociale. La consapevolezza delle responsabilità politiche era chiara, le ministre e le deputate, da Carfagna a Prestigiacomo, da Livia Turco a Pollastrini, a Melandri, che osarono presentarsi furono cacciate. La manifestazione era di donne, i pochi maschi furono mandati via e relegati in fondo al corteo, i giornalisti oscurati perché alla stragrande maggioranza delle partecipanti era chiaro il ruolo della stampa al servizio del potere.

Da quella mobilitazione nacque la mailing list femminista nazionale “Sommosse” che esiste ancora, oltre ad una miriade di liste locali tra cui quella romana “Chiavidicasa”.

Il 23 e 24 febbraio 2008, tre mesi dopo il 24 novembre, fu chiamato sempre a Roma un incontro nazionale di discussione, dibattito, confronto chiamato FLAT, femministe e lesbiche ai tavoli, la cui assemblea conclusiva si svolse nella sala della chiesa valdese di piazza Cavour. Ed è qui, nell’assemblea generale, che dopo le discussioni e i confronti e le belle parole e i migliori intenti della giornata precedente si consuma un importante passaggio. Ad un certo punto una femminista prende parola per chiedere solidarietà e supporto per una compagna delle Brigate Rosse, Marina Petrella, a rischio estradizione dalla Francia. A questa richiesta di aiuto alcune, tra cui femministe “storiche” che ancora oggi hanno la pretesa di considerarsi tali, sono insorte pesantemente con modalità e parole che non ho visto né sentito spendere per fatti molto gravi, dalla violenza delle Istituzioni alle guerre neocoloniali, tanto per fare un esempio, su cui il loro silenzio invece ha regnato sovrano. Questa levata di scudi non ha trovato una risposta ferma ed adeguata da parte del resto dell’assemblea che pure è rimasta perplessa. Proprio per questo una sensazione di disorientamento è calata su tutte, come se quello che era stato detto in quei mesi precedenti e fino al giorno prima, fosse inficiato da qualcosa di storto, da una sensazione sottile di non vero, da una sensazione di malessere. E la sorellanza? Che cos’era allora la sorellanza di cui tanto si era parlato? La sorellanza non era fra tutte? Allora fra quali? E nessuna ha avuto il coraggio di dire neppure a se stessa quello che era venuto fuori, che no, la sorellanza non era fra tutte. Ma chi era che stava da una parte e chi dall’altra? Non aver affrontato questo nodo, averlo sotterrato sotto la sabbia, averlo taciuto quasi con la paura che tutto potesse crollare come un castello di carte ha fatto sì che questo tarlo corrodesse dal di dentro il movimento femminista. Un nodo sempre più stretto. Certo tante avevano chiarezza politica rispetto a quello che era successo. Era una storia vecchia, ce la portavamo dietro dagli anni ’70 quando le socialdemocratiche avevano preso il sopravvento, avevano propagandato come una grande vittoria la creazione dei consultori pubblici e della 194, avevano spinto in massa le donne ad entrare nelle strutture dello Stato contrabbandando questo come un grande successo e demonizzando quelle che praticavano ancora autonomia e autogestione, autodeterminazione e autorganizzazione tacciandole di scarso realismo, di velleitarismo, di utopismo quando non di violenza in contrapposizione ad un movimento femminista “sano”, “non violento”, con i “piedi per terra”.

Ma che cos’è la storia? E la memoria? a che serve la memoria? Il potere mette in atto processi di decostruzione della storia e di ricomposizione della memoria attraverso la produzione di ricordi sostitutivi, di codificazioni fuorvianti e fraudolente. La vittoria della componente socialdemocratica è passata attraverso l’area della comunicazione sociale, attraverso la produzione di falsificazioni, la manipolazione e l’intossicazione della memoria con il controllo preventivo e la condanna dei comportamenti potenzialmente antagonistici.

Così per il 22 novembre del 2008 ci siamo ritrovate in molte di meno, ma con le idee abbastanza chiare per scendere in piazza come “Indecorose e libere”. Volevamo essere tutto fuorché quello che il sistema voleva da noi e non avevamo nessuna intenzione di metterci al suo servizio

“In un anno gli attacchi alla nostra libertà e autodeterminazione sono aumentati esponenzialmente, mettendo in luce la deriva autoritaria, sessista, e razzista del nostro paese. Ricordiamo il blitz della polizia al policlinico di Napoli per il presunto aborto illegale, le aggressioni contro lesbiche, omosessuali e trans, contro immigrate/i e cittadine/i di seconda generazione. Violenza legittimata e incoraggiata da governi e sindaci-sceriffi che vogliono imporre modelli di comportamento normalizzati in nome del “decoro” e della “dignità” impedendoci di scegliere liberamente come condurre le nostre vite.”

Si legge così nel documento per la manifestazione nazionale. Ma l’ideologia neoliberista sospingeva la società a tappe forzate e cercava ovunque chi fosse disposto e disposta a collaborare.

Per il 28 novembre 2009, giorno di lancio della manifestazione per la giornata del 25, viene messo in atto in maniera ingannevole e fraudolenta lo scippo della manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne da parte di alcune femministe e da una femminista storica in particolare. Una virata di contenuti strabiliante imposta con l’inganno prima e in maniera autoritaria poi. Improvvisamente da indecorose e libere eravamo diventate quelle che avrebbero dovuto mobilitarsi

<Contro la violenza maschile sulle donne, per la libertà di scelta sessuale e di identità di genere, per la civiltà della relazione tra i sessi, per un’informazione libera e non sessista, contro lo sfruttamento del corpo delle donne a fini politici ed economici. Per una responsabilità condivisa di uomini e donne verso bambini, anziani e malati, nel privato e nel pubblico. Contro ogni forma di discriminazione e razzismo, per una scuola che educhi alla convivenza civile tra i sessi e le culture diverse […]>

Questo uno stralcio della chiamata sul sito costruito ad hoc ”Torniamoinpiazza” come se in piazza non ci fossimo sempre state.

Fu chiamata un’Assemblea Romana al 30 di Via dei Volsci in cui nonostante la condivisa indignazione rispetto a quello che stava succedendo fu palese l’incapacità di agire il conflitto, di dichiarare apertamente ciò che effettivamente tutte pensavano e tanto meno di metterlo per iscritto anche per il boicottaggio di un’infima minoranza che aveva dichiarato che se avessimo messo quello che pensavamo nero su bianco avremmo escluso loro che non erano d’accordo. Un ricatto esplicito attraverso sorellanza, condivisione, orizzontalità facendo così dimenticare che non palesare un’opposizione politica significa far vincere chi sta agendo violenza. Ancora la paura del conflitto, ancora la perdita di autonomia e autodeterminazione. Un altro nodo ancora più stretto.

Il 31 ottobre del 2009 fu chiamata un’Assemblea Nazionale a Bologna dove nonostante ci si rendesse conto dell’operazione truffaldina messa in atto alla fine si decise di attraversare quella manifestazione con altri contenuti come risulta dal documento conclusivo

<L’Assemblea Nazionale che si è riunita a Bologna il 31-10-2009 ha stabilito di non poter aderire tout-court al testo di indizione della manifestazione perché privo di alcune parole per noi imprescindibili ed anche perché non scaturito da una pratica politica condivisa. Ha stabilito comunque di dover partecipare alla Manifestazione del 28\11\’09 perché la denuncia della violenza maschile contro le donne e le lesbiche è tema centrale e continuativo del lavoro politico di molte ed interesse certo di tutte. Saremo in Piazza a Roma il 28 con la piattaforma che segue […]>

Ma quello che era accaduto non era casuale. L’incapacità di leggere in maniera politica quegli avvenimenti ha impedito di capire che quelle scelte non erano altro che un passo della trasformazione in corso, della traduzione del discorso neoliberista nell’ambito delle lotte femministe, della messa in atto di quell’appropriazione delle istanze antagoniste e liberatorie e della loro trasformazione in forme funzionali al potere che avrebbe caratterizzato l’avvento del neoliberismo. Lo scippo di quella manifestazione apriva un’ulteriore falla nel movimento femminista. Non a caso in quell’occasione diversi gruppi, che ancora si presentano come femministi e che ora vanno manifestando contro il fascismo, tolsero la discriminante antifascista e scesero in piazza solo come antisessiste e antirazziste come se si potesse essere tali senza essere antifasciste. Ma perché nessuna ha mai chiesto conto di quella scelta? E perché nessuna chiede loro conto della faccia tosta con cui portano avanti ora una posizione antifascista? Si dice che il pesce rosso possa vivere in una piccola bolla d’acqua e girare in tondo perché ha una memoria limitata a due minuti. Perché le compagne femministe hanno la memoria del pesce rosso?

Ma tutto quello che stava succedendo non era casuale, serviva a lanciare <Se non ora quando?> l’operazione che la socialdemocrazia riformista aveva imbastito per eliminare Berlusconi e il berlusconismo dal panorama politico attraverso la condanna della sua condotta personale, della sua vita sessuale definita dissoluta e delle donne che a questa vita partecipavano a pagamento e non. Berlusconi era il referente della borghesia imprenditoriale nazionale destinata a soccombere di fronte all’attacco della borghesia transnazionale il cui referente era il PD. La strumentalizzazione dell’oppressione delle donne e del femminismo fu violentissima. Il 13 febbraio del 2011 fu chiamata una manifestazione a Piazza del Popolo a Roma il cui appello si rivolgeva a tutte le italiane o più precisamente a quelle che avrebbero dovuto indignarsi contrapposte a quelle donne che invece con i loro comportamenti suscitavano questa indignazione. La donna a cui si rivolgeva questo appello, accantonate le reprobe, veniva descritta come casa e cura, madre, moglie e figlia, con la tessera di qualche partito non importa quale, sindacalista, imprenditrice, volontaria. Venivano così annullate le differenze politiche e i ruoli nella società, ma le donne venivano di nuovo divise in sante e puttane. E sul palco di piazza del Popolo si avvicendarono suore, fasciste, donne in carriera, operaie, tutte dovevano concorrere alla grandezza della <Nazione>.

Il risultato più evidente è stato l’ingresso massiccio delle donne di una élite, le così dette progressiste, in posizioni e ruoli di potere e l’impostazione di una vera e propria strumentalizzazione organizzata della violenza sulle donne. E così l’emancipazionismo usato come fine e non come mezzo si è configurato ufficialmente come strumento di oppressione di poche su tutte le altre e su tutti gli oppressi.

Non c’è stata indignazione nel movimento femminista, a parte alcune singole, niente proclami inorriditi, niente prese di distanza ufficiali, niente condanne, nessuna analisi condivisa, nessuna assemblea furibonda. Perché? Nodi irrisolti su nodi irrisolti.

Il neoliberismo ha impostato una società che abbiamo definito dell’antisessismo sessista, dell’antirazzismo razzista, dell’antifascismo fascista. Assume queste istanze, le ingloba, le risucchia e le usa per consolidare il potere. Si rafforza rappresentandosi come democratico, progressista, attento, politicamente corretto. E opera uno stravolgimento delle parole che appartengono alle lotte antagoniste, all’analisi di genere e di classe, le svuota del significato originario, le fa strumento di propaganda mediatica e di marketing.

Inoltre, una delle scelte dell’ideologia neoliberista è stata quella di chiudere in maniera unilaterale lo spazio di contrattazione. Non c’è nessuna possibilità di incidere nelle scelte del sistema perché il sistema ha scelto di non mediare più. Ha lasciato aperto solo lo spazio del collaborazionismo.

Non Una di Meno è la sintesi di questa operazione tradotta ed esplicitata con il lancio della manifestazione per il 25 novembre del 2016. La socialdemocrazia riformista si è sentita così forte da chiamare direttamente una manifestazione femminista e le compagne e le femministe hanno perso talmente tanto i riferimenti politici di anni di lotte che si sono acriticamente accodate ad una chiamata esplicitamente interclassista e riformista, dove l’interlocutore è lo Stato a cui si chiedono soldi, attenzione, riconoscimento e riforme.

Viene identificato il femminismo con una miriade di associazioni che dovrebbero occuparsi delle donne ai più svariati livelli, dalla violenza maschile all’educazione alla convivenza tra i sessi, all’educazione scolastica, al rapporto con le donne migranti, alla formazione del personale medico, paramedico, degli apparati di polizia e magistratura…un elenco senza fine. E le parole che avevano costruito e costituito l’ossatura del femminismo vengono rilanciate continuamente come uno spot pubblicitario svuotate dai contenuti effettivi, il tutto condito da un’accattivante dichiarazione di anticapitalismo proclamata e sbandierata insieme alle donne che sono esplicite garanti del neoliberismo. Da non crederci.

Il neo liberismo ha stravolto parole, segni, segnali, significati, riferimenti politici in ogni ambito, è una sua caratteristica, per poter rimodulare il presente e la società a suo uso e consumo e togliere agli oppressi e alle oppresse gli strumenti di rivolta. La parola “riforma” lungi dal significare miglioramento seppure in un ambito di contrattazione significa tagli allo stato sociale in ogni ambito, la “sicurezza” da desiderio di una serenità di vita e di futuro è diventata controllo sociale serrato e repressione, le guerre sono diventate umanitarie, il lavoro è concorrenzialità e precarietà spietata… E questo è successo anche nel femminismo perché le parole che appartenevano ad un movimento di rottura con l’ordine stabilito sono state svuotate, tritate, rimasticate e risputate contro di noi. E così non siamo più in grado di usare nemmeno gli strumenti su cui lo stesso movimento femminista ha basato le lotte di anni perché questi strumenti sono diventati vuoti, senza significato o con un significato cambiato e stravolto.

E così autodeterminazione significa chiedere allo Stato, autorganizzazione significa pietire sempre dallo Stato i soldi per centri antiviolenza, progetti di sensibilizzazione, corsi universitari sulle questioni o la storia di genere… fino ad arrivare all’aberrazione di proporsi, sempre allo Stato, come soggetto adeguato a verificare, stigmatizzare e correggere linguaggi e modalità sessiste nella stampa e nei mezzi di comunicazione e a decidere e a decretare, previa autorizzazione chiaramente, quale sia il vero femminismo e quale no. Il Piano contro la violenza sulle donne varato da NUDM qualche tempo fa costituisce la sintesi nero su bianco di questo pensiero.

E così il femminismo oltre a diventare una delle tante forme di associazionismo all’interno del variegato mondo delle Ong, delle Onlus, diventa strumento di controllo sociale insieme agli altri strumenti di controllo sociale, strumento del potere per l’addomesticamento delle coscienze, parte fondante dell’Impero del Bene.

Abbiamo una sola strada. Non ci sono più nodi da sciogliere, ma solo un taglio netto. Porsi fuori e contro tutto questo. Ricominciare a raccontare le cose come stanno, ricostruire il nesso tra parole e significato, tra agire politico e obiettivi, tra azione e pensiero perché il femminismo non può essere altro che un percorso di uscita da questa società.

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armando
Thursday, 10 January 2019 00:04
Mi sono sbagliato, No Movimento potere alla donna, ma MOVIMENTO MADRE DEL SOCIALE.
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armando
Wednesday, 09 January 2019 23:09
Io sono un cretino ossessionato dal Patriarcato non ancora compreso dalla donne. In passato ero già intervenuto su un tuo articolo. Scrivi sempre molto bene e chiaro. Diciamolo Patriarcato è la sintesi tra Religione, Capitalismo, Politica. Vero, non citi Marx, ma credo che sia il più grande "femminista" rispetto alle attuali femminucce femministe. Perché? Sappiamo tutti come sarà la società comunista: Da ognuno secondo le sue capacità a ognuno secondo i suoi bisogni. Gli intellettuali comunisti non lo hanno ancora capito!. Scienza per quanto riguarda le capacità, soddisfazione dei bisogni, chi li può garantire se non la madre per i suoi figli? Allora, solo la Madre del sociale può farlo. Forse sbaglierò ma la donna deve andare al potere per poter fare questo. Come? Un Movimento per il Potere alla donna. e si chiami pure come si vuole purché sia un movimento politico. Condivido il tuo pensiero: Abbiamo una sola strada. Non ci sono più nodi da sciogliere, ma solo un taglio netto. Porsi fuori e contro tutto questo. Ricominciare a raccontare le cose come stanno, ricostruire il nesso tra parole e significato, tra agire politico e obiettivi, tra azione e pensiero perché il femminismo non può essere altro che un percorso di uscita da questa società. Mi fermo qui, ciao
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Vincenzo Cucinotta
Sunday, 18 November 2018 23:13
Quoting Ernesto09:
Quoting Vincenzo Cucinotta:

Voglio dire che è liberale non perchè sottovaluta la contraddizione di classe, ma proprio perchè assume il punto di vista individuale come proprio criterio di giudizio, anzi di più lo teorizza proprio, e immagina la persona come in grado di comportarsi secondo le proprie convinzioni indipendentemente dai nostri limiti naturali, come se ci si potesse inventare secondo le proprie convinzioni teoriche.

Mi sembra tu abbia le idee molto confuse . La liberazione dell'individuo è lo scopo esplicito di tutta l'opera di Marx .
La naturalizzazione della persononalità dell'individuo in base al suo sesso , alle sue origini nazionali o quant'altro è lo scopo delle estreme destre .


Strano intervento il tuo.
Non mi pare di avere citato Marx, nè la sinistra, nè la destra.
Piuttosto che incasellarmi da qualche parte, dovresti leggere semplicemente ciò che scrivo e dare il tuo parere in proposito senza pregiudizi, forse ti convinceresti.
Non è poi così difficile capire che non siamo fatti per saltellare sulla nostra testa tenendo le gambe in alto, tanto per fare un esempio elementare. Accettare i propri limiti non è nè di destra nè di sinistra, è il minimo per non risultare dementi.
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michele castaldo
Sunday, 18 November 2018 12:32
Le obiezioni dio F. Marchi a E. Teghil sono più che legittime e in parte condivisibili. Poi però lui stesso dovrebbe spiegare perché il nuovo nazionalismo - che chiamano sovranismo - che aumenta la concorrenza fra le nazioni, dunque delle merci, e spinge il proletariato - cioè quella classe che più delle donne muore ogni giorno sul lavoro come lui sostiene - alla competizione in quanto merce, dovrebbe favorire - il nuovo nazionalismo - una maggiore solidarietà fra i lavoratori di entrambi i generi. Perché mi chiedo riusciamo a vedere lungo oltre frontiera da un punto di vista strategico - la prospettiva generale - e ci rinserriamo nell'angolo angusto del nazionalismo, allo stesso modo di E. Bernstein, sotto il segno del "il movimento è tutto il fine è nullo"?
Il modo di produzione capitalistico è in crisi di sistema non ieri, ma oggi e oggi - dico a F. Marchi - piuttosto che guardare alla nostra prospettiva, l'araba fenice capace di sorgere dall'implosione del modo di produzione capitalistico, ne alimentiamo la guerra intestina fra i lavoratori? Non è un corto circuito teorico, politico e pratico? Nessuna meraviglia se poi si finisce con l'appoggio tattico a un governo come quello attuale.
Una maggiore accortezza teorica e una più corretta attenzione politica dovrebbe portarci fuori dalle maglie interclassiste e recuperare un senso di classe che necessariamente si ripresenterà nei prossimi anni. Perché - mi chiedo - tagliarci tutti i ponti con il futuro?
Michele Castaldo
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Ernesto09
Sunday, 18 November 2018 11:40
Quoting Vincenzo Cucinotta:

Voglio dire che è liberale non perchè sottovaluta la contraddizione di classe, ma proprio perchè assume il punto di vista individuale come proprio criterio di giudizio, anzi di più lo teorizza proprio, e immagina la persona come in grado di comportarsi secondo le proprie convinzioni indipendentemente dai nostri limiti naturali, come se ci si potesse inventare secondo le proprie convinzioni teoriche.

Mi sembra tu abbia le idee molto confuse . La liberazione dell'individuo è lo scopo esplicito di tutta l'opera di Marx .
La naturalizzazione della persononalità dell'individuo in base al suo sesso , alle sue origini nazionali o quant'altro è lo scopo delle estreme destre .
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Vincenzo Cucinotta
Saturday, 17 November 2018 22:31
Io vorrei distinguere la questione di quale sia la contraddizione principale, se di classe o sessuale, dalla questione in sè di quanto il femminismo sia diciamo intrinsecamente un movimento a ispirazione liberale.
Voglio dire che è liberale non perchè sottovaluta la contraddizione di classe, ma proprio perchè assume il punto di vista individuale come proprio criterio di giudizio, anzi di più lo teorizza proprio, e immagina la persona come in grado di comportarsi secondo le proprie convinzioni indipendentemente dai nostri limiti naturali, come se ci si potesse inventare secondo le proprie convinzioni teoriche.
La storia doveva poi dimostrare come questa pretesa doveva infine portare alla distruzione stessa del femminismo da parte di quei movimenti che, dopo aver sposato l'idea bislacca che sia possibile inventarsi senza tenere conto del nostro patrimonio genetico, hanno infine distrutto anche il senso del sesso come criterio di classificazione a favore di un gender basato soltanto sul proprio personale punto di vista.
Si potrebbe chiosare così: "Hai pensato di essere liberale, ma troverai sempre uno che lo sia più di te".
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michele castaldo
Saturday, 17 November 2018 20:03
Non la femmina si deve liberare dal maschio, ma l'uomo e la donna si devono liberare da un rapporto alienato di un sistema di produzione che domina la stragrande maggioranza delle une e degli altri. Per il semplice (semplice?) motivo che: una cosa è tale solo in rapporto con un'altra. Questo vuol dire che la donna - non la femmina ma la donna - è tale solo in un rapporto corretto non col maschio ma con l'uomo, che è tutt'altra cosa. Orbene, il femminismo è la deturpazione dell'emancipazione della donna perché individua nel rapporto col maschio la sua oppressione piuttosto che esaminarlo nel modo di produzione capitalistico che rende merce la donna e allo stesso modo rende merce il proletariato indipendentemente dai sessi e fra essi discrimina ovviamente quello per ragioni strutturali, cioè biologiche, più "debole" perché più esposto al ricatto per i fattori legati alla maternità. Si tratta dell'infamia capitalistica - non maschilista - che piuttosto che premiare chi procrea la castiga in quanto strumento di merce e procreatrice di merce.
Le compagne dovrebbero chiedersi: perché le femministe non propongono di bruciare i negozi di sex shop, di chiudere e bruciare i bordelli, i night club, le case di moda che usano il corpo femminile per invadere il mercato di merce? Perché tantissime femmine si sentono addirittura libere e liberate dalla schiavitù maschilista nella professione di escort (cioè esercitando la prostituzione con altro nome)? Perché attratte dai soldi, dal mercato, dal lusso, dal benessere e così via. Perché si rincorrono i modelli che la televisione e i rotocalchi propongono? Insomma: perché vi prestate - o femmine - a questo gioco sporco? Perché il mondo capitalistico prevale su di voi. Giusto, siete vittime di un sistema barbaro e crudele. Ma è lo stesso sistema che rende l'uomo maschio frustrato e meschino, capace di scaricare le sue frustrazioni e la sua rabbia sulla figura che l'insieme del sistema del capitale innalza a simbolo: il sesso femminile.
Non si tratta perciò di liberare la femmina dal maschio ma di ricostruire un rapporto corretto perché la donna sia tale in virtù di un rapporto corretto del maschio umanizzato. Detto ancora più chiaramente: il maschio diviene uomo solo in virtù di un corretto rapporto con la femmina divenuta donna. Questo è possibile solo e soltanto se l'insieme dei due sessi superano lo stato brado che li rendo reciprocamente schiavi del sistema imperante.
Fino a che le femmine esercitano le stesse professioni dei maschi in un sistema che mercifica ogni rapporto sociale, l'umanità può solo procedere a passi spediti verso la barbarie. Se il movimento femminista ha ritenuto che alcuni diritti civili avrebbero potuto liberare la donna dall'oppressione di un sistema mondiale basato sullo sfruttamento, si è illuso e proprio la crisi attuale del modo di produzione capitalistico sta mettendo a nudo una serie di illusioni e sta chiamando tutti gli oppressi e sfruttati a fare i conti con le contraddizioni non fra i due sessi, ma tra la gran parte dei due sessi con la minor parte di essi. E' dura da affrontare, ma non ci sono scorciatoie. Il femminicidio è figlio legittimo di un sistema che brutalizza i rapporti fra i due sessi, producendo due vittime e due infelici nella parte maggioritaria dell'umanità. Le classi che vogliono tenere in vita questo sistema hanno buon gioco a scaricare sulla criminalità maschilista la responsabilità del femminicidio, che è l'effetto di una causa più generale.
Detto in modo chiaro: le femmina deve divenire donne, devono distruggere l'icona che le fa identificare con il sesso di piacere per il maschio e il maschio deve divenire uomo, e distruggere il senso di onnipotenza e di dominio e solo come tali possono ricostruire un nuovo e diverso rapporto. Questo vuol dire mettere in discussione tutti i "valori" sin qui sviluppatisi: proprietà privata e pubblica, famiglia e diritto di famiglia, possesso e diritto del possesso dei figli, matrimonio e leggi d'esso, smantellamento radicale della mercificazione del corpo femminile attraverso la prostituzione e tutte le ramificazioni dirette e indirette ad essa legate. Insomma si tratta di riscrivere una nuova carta delle donne in rapporto con una nuova carta degli uomini e insieme costruire un futuro su nuove basi. Nonostante la potenza apparente di questo modo di produzione e degli attuali rapporti, si prospetta una crisi generale che li mette in discussione. Abbiamo perciò dalla nostra la possibilità di riscrivere le nostre carte. Facciamolo, non lasciamo al papa Francesco e alla sua chiesa l'uso strumentale di battaglie di respiro strategico!
Hic rhodus, hic salta!
Michele Castaldo
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Cristiana Fischer
Wednesday, 14 November 2018 18:28
Quello che è sicuro, in questo articolo, è che l'autrice propone un femminismo solo orizzontale di sorellanza, e "reattivo" contro i maschi e il patriarcato: fatto stranamente coincidere con il capitalismo!
Nell'articolo ricorrono critiche in politichese "falsificazioni, manipolazione e intossicazione" per dare conto di una lotta tra gruppi femministi, che interessa però soprattutto come lotta contro il neoliberismo.
Il femminismo si è fondato sulla libertà femminile, che significa che ogni donna pensa e che il suo pensiero è pensiero per tutti, è cioè pensiero universale.
Partire da una posizione così semplice ma così radicalmente autonoma -la libertà femminile-, fa uscire dalla contraddizione di cui scrive Fabrizio Marchi. Da qui anche una diversa fatica di pensare le lotte, le critiche o le scomuniche.
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alessandro visalli
Wednesday, 14 November 2018 13:58
cara compagna,
tu hai sicuramente ragione nel dire che tutti i movimenti riconducibili alla sinistra, praticamente, anche se con grandi differenze che vanno comprese e rispettate, da quelli francamente liberali (come quelli che raccolgono l'eredità, già problematica, del Pci-Pds-Ds, del Psi e della Dc, fondendoli malamente in un progetto nato tardi ed esplicitamente interclassista e centrista), a quelli della sinistra liberale (come i Verdi), a quelli della sinistra radicale post-comunista (Rif.Com), a quelli della sinistra libertaria (Sel) e antagonista, sono compromessi con le vaste infiltrazioni di un pensiero di provenienza liberale che parte dall'accettazione, almeno di fatto, del capitalismo. Un fenomeno generale e davvero profondo. Mi spiace, però, che tu sostenga in sostanza che dell'umanità ti interessa solo il genere femminile e che solo questo necessita di emancipazione. Mi spiace che tu consideri 'avvelenata' un'opinione, dunque la mia, solo perché proveniente da un essere umano al quale è capitato di nascere dal lato sbagliato.
Vanamente provo, tuttavia, a dire quel che mi sembra: nessuno può condannare un vasto movimento solo perché partecipa dello spirito del tempo, ma da questo tempo stiamo uscendo (il liberalesimo sta mostrando con evidenza che la liberazione promessa è veicolo di oppressione a causa del potere astratto, asessuato, e dissolvente del capitale che libera esattamente da ogni particolarismo e da ogni socializzazione), dunque oggi possiamo rivedere i nostri passi (di tutti) riconoscendo con il senno del poi il sentiero percorso. Uno degli spiriti incorporati nei movimenti di autoespressione, di liberazione, di self-help, di rivendicazione dei diritti, che sono usciti dalla crisi terminale del socialismo (dunque negli anni 60 e 70), e ciò non in riferimento al femminismo tutto, ma, come dici giustamente, a tutti i movimenti, oggi lo possiamo riconoscere come liberale. Possiamo vedere meglio come partecipi dello spirito del tempo, ovvero dell'individualismo, dell'emergere di una società edonista e dedita al consumo, che valorizza il desiderio più che il dovere e il legame sociale. Possiamo prestare occhio alla sincronia con la quale, in particolare per chi lo ha vissuto, mentre il più largo movimento dei lavoratori subisce sconfitte decisive, e sconta riallineamenti e veri e propri tradimenti, le energie di tante e tanti generose/i compagne e compagni si rivolgono a battaglie di modernizzazione rivolte contro strutture oppressive che lo stesso capitalismo post-fordista, fondato sull'informazione, rendeva obsolete.
Ti chiedo perdono, compagna, ma ai miei occhi ci sono simmetrie evidenti (ripeto, non specifiche del movimento femminista), e appare, in particolare nel susseguirsi del tempo e degli eventi, la progressiva cattura nell'alveo di un discorso del 'politicamente corretto' che è riconoscibile fondamentalmente come discorso liberale.
Piano piano abbiamo perso di vista, in favore di linee di frattura identitarie, le più varie, quello che è l'ordinatore essenziale della nostra società: il capitalismo. E abbiamo continuato a guardarlo con occhi vecchi, senza capire che questo, cambiando, aveva ora bisogno proprio dei discorsi che andavamo a fare.
Scusa, cara compagna, ma noi siamo proprio dalla stessa parte nella lotta che conta: quella contro la disumanizzazione che il capitale, nella sua essenza astratto ed indifferente, porta nelle nostre vite. Tutte.
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Nadia Marini
Wednesday, 14 November 2018 11:22
Ciao Elisabetta
Molto bene raccontare queste cose, ma non a sinistrsinrete, bensi alle donne. Vedi i maschi corrono subito a dare le loro opinione avvelenate, perchè non ti illudere anche quelli di sinistra sono maschi. Però la cosa da considerare è che la deriva, con infiltrazione di pensiero che si può dire riformista , sta a tutti i livello della società. Vedi i movimenti sindacali, partiti politici. Oggi quelli del partito democratico quando parlano sembra uno di destra. Perciò è un fenomeno generale, que solo un movimento di idee chiaramente contraria al neoliberismo, fascismo può contenere. Come questo non esiste, la cosidetta sinistra ,( come sempre nel momento di fare qualcosa di importante non sa quello che devi fare) è divisa, uno contro l'altro, tutti i movimenti di trasformazione della società non riesce a fare nulla. Siamo condennati ad andare irremediabilmente indietro, politica e socialmente. Ed i maschi che hanno intervenuti prima con opinioni che Elisabetta ha condannato tutto il movimento femminista dal 60 iin poi, detto con disprezzo, guardassero i movimenti dei quali partecipano. E' una piccola infiltrazione alla volta, che si somano nel lungo periodo. Ma che nessuno contrapone.
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CLAUDIO DELLA VOLPE
Wednesday, 14 November 2018 08:24
ma possibile che nessuna donna legga queste pagine?
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Ernesto09
Wednesday, 14 November 2018 00:48
Quoting Ernesto09:
e queste femministe marxiste erano ovviamente molto più coerenti per lo sfruttamento di genere si intreccia con quello di classe .

c'è un errore , il periodo corretto è :
"e queste femministe marxiste erano ovviamente molto più coerenti PERCHE' lo sfruttamento di genere si intreccia con quello di classe"
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Ernesto09
Wednesday, 14 November 2018 00:44
@Fabrizio Marchi ,
E' vero che c'è stato un femminismo interclassista , ma c'è stato un femminismo marxista di notevole spessore , a cominciare da Eleanor Marx ( figlia di Karl ) , Alexandra Kollontai, Claudia Jones ecc.ecc. ; e queste femministe marxiste erano ovviamente molto più coerenti per lo sfruttamento di genere si intreccia con quello di classe .
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Fabrizio Marchi
Tuesday, 13 November 2018 23:02
Troppo ci sarebbe da dire su quell’articolo della Teghil…Però, in estrema sintesi, rimandando alle decine se non centinaia di articoli che ho pubblicato in tema, il punto è che l’autrice non vuole e non può trarre le conseguenze necessarie perché altrimenti dovrebbe dichiarare la bancarotta del femminismo, per la serie “chiusura per fallimento”, e questa non vuole essere una boutade ma la logica e inevitabile conclusione della sua stessa analisi (se riuscisse a trovare la forza di essere coerente…).
La Teghil mette sotto accusa, anzi, condanna irrevocabilmente TUTTO il femminismo dagli anni ’60 in poi (cioè tutto il femminismo, che infatti nasce in quegli anni…), da quello istituzionale a quello “socialdemocratico” (molto più corretto sarebbe definirlo liberale…) di “Se non ora quando?” fino a quello radicale di “Non una di meno” (che è anche quello di Potere al Popolo, per capirci…); in altre parole tutto il femminismo. E dice che quel femminismo è finito per essere funzionale e organico al sistema capitalista, neo liberale e neoliberista. La sostanza del suo articolo è che tutti questi femminismi avrebbero quindi tradito il “vero” femminismo” che a questo punto però diventa anche difficile capire quale sia…La sua tesi ricorda un po’ quella di quegli intellettuali comunisti occidentali che dicevano che i comunisti sovietici, cinesi, bulgari, cecoslovacchi ecc. non erano “veri” comunisti” perché i veri comunisti erano loro...
Quindi partiti formati da decine di milioni di militanti che alle loro spalle avevano esperienze a dir poco enormi, rivoluzioni, guerre civili, lotte di liberazione, che avevano conquistato il potere mobilitando masse umane enormi, secondo quella manciata (perché queste sono le proporzioni…) di intellettuali marxisti occidentali non erano “veri” comunisti e anzi, chi in un modo e chi nell’altro avevano tradito il comunismo. Ora, al di là delle tragedie e dei fallimenti di quelle esperienze (con la dovuta precisazione che l’esperienza comunista mondiale non può essere certo ridotta a questo…) che nessuno vuole rimuovere, mi sembra un atteggiamento a dir poco sterile e spocchioso, bene che va di chi getta l’acqua sporca per salvare il bambino. Ed è esattamente quello che tenta di fare la Teghil. La quale invece tenta di uscire dall’impasse in cui inevitabilmente va a ficcarsi da sola, arrampicandosi sugli specchi, e cioè rivendicando un femminismo nello stesso tempo di genere e di classe (che sarebbe appunto stato tradito dagli altri femminismi…), ma questa è una contraddizione in termini in cui lei stessa - forse non avvedendosene – viene a trovarsi. Lei stessa infatti sottopone a critica severa la cosiddetta “sorellanza” che sarebbe responsabile del “tradimento” del “vero” femminismo, ma questa è appunta una contraddizione in termini. Per la semplice ragione che il femminismo si fonda sulla “sorellanza”, cioè sull’a priori dell’appartenenza di genere e non politica e/o di classe. E’ per questo che il femminismo è una ideologia interclassista e sessista o comunque destinato INEVITABILMENTE a sfociare e a determinarsi in un movimento interclassista e sessista. Perché l’appartenenza di classe è oggettivamente in contraddizione con quella di genere, per quanti tripli salti carpiati possa fare la Teghil. Questo è quello che lei non vuole e non può neanche ammettere, perché se lo ammettesse, dovrebbe dichiarare apertamente che il femminismo (compreso il suo…) poggia su fondamenta strutturalmente sballate. Naturalmente lei stessa continua a sostenere che l’attuale società capitalista sarebbe tuttora a dominio patriarcale, ma questa è un’altra tesi a dir poco obsoleta e del tutto priva di fondamento perché l’attuale forma di dominio capitalistico non ha nessun interesse al mantenimento di strutture sociali (e anche familiari) rigide e gerarchiche come potevano essere le vetero società patriarcali. Al contrario, ha necessità di contesti sociali “fluidi”, “liquidi”, dove la “forma merce” possa scorrere libera senza ostacoli di nessun genere. La famiglia vetero patriarcale – ormai un relitto del passato – non potrebbe che costituire un ostacolo per l’attuale dominio capitalistico.
Dopo di che ripropone il solito mantra sulla discriminazione millenaria delle donne causata dalla divisione dei ruoli. Sbaglia clamorosamente, anche in questo caso, perché parla di divisione dei ruoli quando avrebbe invece dovuto parlare di divisione sessuale del lavoro. E non c’è dubbio che questa abbia visto i maschi infinitamente più penalizzati delle femmine (a tutt’oggi a morire sul lavoro sono pressochè solo maschi così come, nel 95% dei casi, sono i maschi a finire nelle carceri, solo per citare un paio di esempi…) fin dai tempi antichissimi. Ma, anche in questo caso, se ammettesse questo dovrebbe inevitabilmente riconoscere che il patriarcato (ammesso che tutta la storia dell’umanità sia stata dominata dal patriarcato e le donne non abbiano esercitato alcun potere di condizionamento, cosa che io non credo affatto…) ha penalizzato gli uomini più di quanto abbia penalizzato le donne. Ma allora a quel punto non avrebbe neanche più senso parlare di femminismo, perché se la stragrande maggioranza degli uomini se la passano come se non addirittura peggio della stragrande maggioranza delle donne (cosa che, ovviamente la Teghil, come tutte le femministe, deve negare…), non avrebbe più senso partire da una opzione ideologica fondata sul genere.
Naturalmente il discorso si farebbe ora lunghissimo. Mi permetto di postare questo lungo documento (che invito caldamente a leggere) dove tutti i temi di cui sopra sono trattati in modo molto più approfondito: http://www.linterferenza.info/lettere/lettera-aperta-agli-uomini-alle-donne-potere-al-popolo/
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Mario Galati
Monday, 12 November 2018 16:09
Sarebbe utile esplicitare meglio dove sta la regressività della legge 194 e dei consultori rispetto alle "autonomia e autogestione, autodeterminazione e autorganizzazione", magari con lo sguardo rivolto a realtà periferiche, paesini, magari del sud, e a donne scarsamente acculturate, proletarie o sottoproletarie.
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