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machina

La vita non essenziale

di Cristina Morini

0e99dc 7d24ab79c1f54c39aca0d9ea2f842b93mv2«Le attività non essenziali»: passerà alla storia questa dizione legata alla pandemia Covid-19 a definire tutto ciò che non attiene alla sfera delle attività ufficialmente immesse nel processo di produzione capitalistico e non formalmente retribuite. Per essere più chiari essa prova a definire quegli atti che non sono «condizioni oggettive del lavoro» della «forza-lavoro viva», quindi, marxianamente, non fanno parte «dei mezzi di sussistenza e dei mezzi di produzione» [1]. O, più semplicemente ancora, circoscrive tutto ciò che non può dirsi «occupazione retribuita, considerata come mezzo di sostentamento e quindi esercizio di un mestiere, di un’arte o di una professione» [2].

Si tratta perciò della sfera ibrida delle azioni umane improduttive che hanno a che vedere con il relazionarsi con gli altri, con i legami sociali, con aspetti che impegnano le nostre vite e il loro mantenimento in una rete di rapporti molteplici con altri esseri viventi, al di fuori dal tempo del lavoro produttivo certificato come tale. L’affermazione del governatore Toti di tenere a casa i non indispensabili non fa che ribadire ulteriormente il principio ispiratore degli apparati decisionali di fronte all’emergenza sanitaria. Un piano tutto ordinato intorno al ruolo essenziale del profitto che va accettato in una sorta di sottomissione collettiva ritualizzata. A fare resistenza rispetto alla narrazione dominante, governata attraverso lo strumento velenoso della paura mediatica, sono state soprattutto le donne.

Affermo una volta per tutte, per l’ennesima volta, che il problema dell’emergenza sanitaria è grave e reale, soprattutto perché il sistema si è dimostrato incapace di reggerne l’urto. Le disposizioni governative che abbiamo visto succedersi fino ad ora hanno messo in luce un modello atto soprattutto a preservare le attività esplicitamente economiche (pubblico-produttive) e a limitare tutte quelle correlate alle relazioni umane (privato-improduttive).

È evidente che si tratta di una dicotomia solo funzionale alla costruzione soffocante del discorso del potere, poiché non c’è un momento della vita dal quale non si riescano ad estrarre forze a favore del capitale, con diversificazione e ramificazione delle sfere produttive.

Il tempo non ibernato dal lavoro implicato nel processo produttivo salariato e perciò riconosciuto, in base alle disposizioni connesse all’epidemia viene spazzato via. Si limita il più possibile il tempo dell’umanità per allargare a dismisura quello dell’attenzione e dell’affetto che convogliamo nelle info-macchine. Il tempo che prima ci restava, quel residuo che noi chiamavamo «tempo libero», viene traslato all’interno di contesti produttivi con un aumento della massa della produzione. Marx dice: «la produzione per la produzione», intendendo «la produzione come fine in sé» che consente la «sottomissione formale del lavoro al capitale» il cui scopo immediato è la «produzione generale» e l’ottenimento della «grandezza maggiore possibile del plusvalore». Attenzione: questa «produzione per la produzione» è una produzione non vincolata da limitazione dei bisogni. Il carattere antagonista dei bisogni dell’umano crea limiti alla produzione che vengono qui superati di slancio. L’ingresso della riproduzione nella produzione ha in questa assenza di limiti (un salario fissato per un tempo fissato) il suo carattere peculiare e spettacolare e il suo carattere distintivo rispetto ai «modi di produzione precedenti». Abbiamo così «produzione in contrapposizione ai produttori e senza riguardo per essi; il vero produttore come semplice mezzo per produrre; la ricchezza materiale come fine in sé; infine, e di conseguenza, lo sviluppo della ricchezza in antitesi e a spese dell’essere umano». Il fine di questo percorso «è che ogni prodotto contenga il più possibile lavoro non pagato, cosa che si può ottenere solo con la produzione per la produzione» [3].

Si tratta di un tempo residuo poiché tale tipo di processo e allenamento era già in corso e il leisure time è stato già in gran parte sottratto, rubato. Ma chiediamoci meglio: che cosa abbiamo già fatto durante il lockdown o durante i «coprifuochi»? Che cosa faremo durante le prossime «chiusure mirate» per distrarci un poco da quegli impieghi essenziali per il mercato che resteranno aperti e dove rischiamo, ancora e ancora, di ammalarci prima di tornare a richiuderci in casa? Quali azioni compiremo, dopo essere stati al lavoro domiciliare, connessi a un computer, a un telefono, in svariati webinar fino (e oltre) le ore 18 mentre calano le saracinesche sulla realtà che sta oltre le nostre finestre? Staremo di nuovo al computer o useremo uno smartphone, staremo su facebook, oppure su altri social, scaricheremo un nuovo gioco, acquisteremo un vestito, presi da bisogno compulsivo dopo l’ennesima volta che lo vediamo. Seguiremo una nuova, ennesima, serie in televisione, decideremo di fare un nuovo abbonamento a qualche servizio digitale o di iscriverci a un corso online. Dunque, in sostanza lavoreremo ancora e ancora, del tutto gratuitamente, contribuendo con ciò a nuove forme di espansione del capitale.

Che cosa è infatti il lavoro contemporaneo? Da qui è necessario partire per capire le trasposizioni e la esplicitazione di campi già aperti (il lavoro domestico e di cura come antesignano di tutte le praterie del lavoro gratuito per l’accumulazione), ma oggi sempre più larghi e sempre più trasparenti. La persona è infatti una sostanza relazionale, «ossia la sua natura è intenzionalmente e originariamente relazionale. La cifra della persona è, quindi, una relazione che è sostanza e una sostanza che è relazione» [4]. Cosicché mentre il mondo si allontana dai nostri corpi e dalle nostre parole, per il nostro bene, noi abbiamo comunque bisogno del mondo. Vogliamo stare nel mondo e utilizzeremo mezzi virtuali per restare in contatto, per avere rapporti, per cercare di ricostruire una parvenza della nostra vita non essenziale. Questa è l’era dell’economia dell’interiorità [5].

Si esercita un dichiarato controllo su tutti i mille recessi sociali della quotidianità nel tempo libero, i quali vengono dichiarati inessenziali, pericolosamente inutili, amputabili, rimandabili. Foucault ha reso definitivamente palese questa forma di governamentalità fondata sul controllo diretto o indiretto dell’esistenza e sulla indiscrezione: le istituzioni si occupano di ciò che non le riguarda per forgiare le abitudini e disciplinare ciò che accade fuori dall’orario di lavoro.

Oggi che ci confrontiamo con una epidemia che attacca esplicitamente l’Occidente con proporzioni estremamente rilevanti, dietro decisioni che interpellano direttamente la vita privata, la responsabilità individuale e le forme di vita almeno in apparenza non investite dalla produzione, si intravvede apertamente una strategia di «medicalizzazione del sociale e dell’individuale» [6].

Si realizza un processo di deresponsabilizzazione dello Stato, data una decomposizione progressiva degli istituti di welfare e di assicurazione del lavoro salariato, nella precarizzazione generalizzata, cui corrisponde una progressiva «responsabilizzazione etica degli individui nella gestione del loro patrimonio biologico e della loro salute» [7].

Per fare qualche esempio, non abbiamo visto un impegno delle istituzioni sul piano del diritto alla salute e della tutela della salute attraverso investimenti seri e programmazioni oculate (ripristino di presidi medici territoriali, acquisto di macchinari adeguati, adeguamento delle strutture scolastiche, politiche di occupazione in settori strategici come la sanità e l’istruzione per fare fronte all’emergenza, potenziamento dei trasporti pubblici), ma abbiamo visto come il problema della salute pubblica sia stato addossato interamente ai cittadini e alla loro «condotte».

Mai come in questo periodo ci siamo accorti di come gli Stati non offrano più da tempo tutele e sicurezza, ma si limitino a generare, «con una quantità di arcaismi pronti a strisciare fuori dalla cripta» (nazionalismi, populismi, religioni), «forme preconfezionate di affiliazione esistenziale» [8].

La precarietà ha avuto un preciso ruolo di selezione e di controllo della forza lavoro sulla base di criteri di accesso diseguali e si è rivelata, come notava perfettamente David Graeber [9], soprattutto efficace per depoliticizzare la forza lavoro. Mi riferisco sopra ogni cosa alla tendenza all’individualizzazione e, appunto, alla responsabilizzazione dell’individuo.

Abbiamo assistito, in modo possibilmente ancor più evidente del passato prossimo, alla traslazione della riproduzione e degli aspetti relativi alla cura in un preciso contesto economico: il welfare è, oggettivamente, un modo della produzione che valuta costi, valorizzazioni, prodotti lordi e netti. Questo non significa essersi liberate di antiche schiavitù, anzi. L’emergenza ha fatto affiorare quanto, nel modello del welfare famigliare italiano, continui a esistere e a pesare l’obbligo, etico e sociale, per le singole donne, individualmente, a doversi prendere cura. La cura delle donne integra in modo determinante ciò che i servizi non offrono nel badare ai bambini, ai partner, ai parenti anziani.

La pandemia Covid-19 ha messo in luce la persistenza della divisione dei compiti di cura in base al genere. Uomini e donne hanno affrontato in modo differente le conseguenze di una nuova organizzazione della cura e dell'orario di lavoro imposti dalle misure di controllo sociale. La divisione dell'assistenza basata sul genere era sbilanciata già prima di questa esperienza. Essa finisce, oggi come ieri, per fare ricadere i carichi di cura su ogni singola donna, sganciata dal contesto collettivo [10]. Siamo davvero lontani dalla capacità di riconoscerci, reciprocamente, bisognosi di cura e dall’essere in grado di curarci gli uni degli altri all’interno di un ecosistema desideroso di risignificare il rapporto con il vivente, disegnando una società differente [11].

Questi elementi erano già presenti nella nostra esperienza reale, dunque non si tratta di nuovi ordini, sconosciuti al capitalismo biocognitivo e all’economia dell’interiorità che si nutre in modo più preciso della sostanza dell’esistenza e delle differenze soggettive. Sono stati potenziati e liberati dalle sperimentazioni di questi mesi terribili, mentre ci attende un lunghissimo inverno.

Concretamente, tra scuole a part-time o chiuse, quarantene da organizzare, ambulatori svaniti, medici di base sopraffatti e introvabili, spazi di aggregazione proibiti è veramente tornato a essere di spaventosa attualità il tema della responsabilità dei carichi di cura connessi alla possibilità di rimanere in vita. La sicurezza collettiva, che ha funzionato come scenario nel fordismo, è al collasso, facciamo appello alla responsabilità individuale. Dunque viene ancora una volta responsabilizzata la singola, impresa unipersonale a tutti gli effetti, già da sempre obbligata alla ricerca del miglior livello di rendimento, del miglior rapporto qualità-prezzo che punta a ridurre al massimo gli oneri sociali.

Questo elemento diventa il perno della cura, in questa fase particolare: mentre si perde per strada ogni idea di diritto universale alla salute, tutto è lasciato all’iniziativa individuale. Del resto, tua la colpa, tuo l’impegno, tua la cura.

Come ha scritto Judith Butler con potenza, facendo riferimento a una situazione che è norma negli Stati Uniti, indipendentemente dal virus: «Chi ha un reddito insufficiente, o un lavoro precario, non merita di essere coperto dall’assistenza sanitaria […] e nessuno di noi è responsabile per queste persone. Ciò implica, chiaramente che quanti non sono in grado di trovarsi un’occupazione capace di garantire un’assicurazione sanitaria, appartengono a una popolazione che merita di morire e che della propria morte è il principiare responsabile» [12].

Questo quadro è sufficientemente preoccupante da far capire come una battaglia per il reddito incondizionato di autodeterminazione e per servizi di Welfare adeguati sia snodo centrale. Mai come oggi, letteralmente, vitale. La responsabilizzazione individuale e il furto del tempo generano il collasso delle forme di solidarietà. Il cuore collettivo va riavviato. Questo deve essere ben chiaro a quella parte dove il cuore sta, cioè a «sinistra». Altrimenti avremo la vittoria del realismo capitalista: «rassegnazione, disfattismo, depressione» [13]. Per contrastare l’affondo del capitale ci vogliono alleanze e unità di intenti, corpi che stanno insieme per opporsi alla decimazione dei servizi pubblici, «forme di azione che chiedono le condizioni per agire e per vivere» [14].

È certo necessario politicizzare il tema della cura, delle relazioni, degli affetti, delle reti di prossimità, della città, degli spazi urbani, la richiesta di un ambiente a misura di esseri umani, che sottolinei la responsabilità collettiva. Va rifiutato un effetto di «genderizzazione delle politiche» con uno sforzo di immaginazione e di innovazione in termini di qualità della vita per tutte le componenti sociali coinvolte. Tuttavia rivendicare un reddito di cura rischia di generare un equivoco e di trasmettere l’idea che la richiesta possa essere facilmente tradotta e risolta, dai referenti istituzionali, nel riconoscimento (piccolo) per una attività (immensa) che non viene assunta dalla società ma accollata al singolo (meglio, alla singola). Faccia ciò che è necessario alla società e taccia per sempre la «mammina» che vuole la scuola aperta.

Bisogna perciò parlare di autodeterminazione per contrastare le determinazioni dello Stato e dell’economia che sovrastano la soggettività, indicando con imperio compiti e ruoli, separazioni tra lavori «socialmente utili» e attività «non essenziali». Come può un reddito dirsi incondizionato e contemporaneamente essere limitato a una mansione? Con questa operazione si smonta, ancora una volta, una idea fondante che è quella dell’incondizionalità del reddito, non si osa il salto culturale necessario: il reddito resta ancorato a un’idea di assistenza, di sostegno temporaneo al servizio del lavoro, si dà ai poveri ed è sempre soggetto a mille prove e condizioni. Ancora una volta, ci troviamo ricondotti a condotte.

Nel momento in cui il ruolo della mediazione salariale è, come abbiamo visto, in buona parte saltato e la produzione per la produzione occupa il nostro tempo incurante dei nostri bisogni, la vera e unica differenza, il potenziale liberatorio e conflittuale del reddito di base, sta soprattutto nella possibilità di scelta, non nominando definizioni e limiti. Le esistenze sono tante e diverse e possono, evidentemente, comprendere il desiderio (o magari, per una fase, la necessità) di compiere un lavoro di cura. Ma non si può rischiare di offrire l’occasione di collegare gli elementi a nostro svantaggio.

Abbiamo di fronte una ennesima crisi, questa volta davvero terribile e significativa dei mostruosi concatenamenti che il capitalismo ha prodotto nel tempo per approfondire l’alienazione e l’appropriazione del vivente. Bisogna ritrovare una memoria, ricostruire le genealogie, riappropriarsi delle parole e del loro significato, rivendicare gli intrecci, ma anche osservare le trasformazioni e mantenersi all’altezza delle nuove sfide proposte dalla fervida e perversa immaginazione dell’ideologia neoliberista. Hic Rodhus, hic salta.


Note

[1] K. Marx, Il Capitale: Libro I. Capitolo VI inedito, La nuova Italia, Firenze 1969, p. 50.
[2] Voce Lavoro, Dizionario Treccani online.
[3] K. Marx, op. cit., p. 71-72
[4] S. Brotto, Etica della cura, Orthotes Editrice, Palermo 2013, p. 8.
[5] C. Morini, Economia dell’interiorità e capitale antropomorfo. Produzione sociale, lavoro emozionale e reddito di base, in A. del Re, C. Morini, B. Mura, L. Perini, Lo sciopero delle donne. Lavoro, trasformazioni del capitale, lotte, Manifestolibri, Roma 2019.
[6] P. Di Vittorio, Salute pubblica in AA.VV. Lessico di biopolitica, Manifestolibri, Roma 2006, p. 11.
[7] Ibidem, p. 13.
[8] M. Fisher, Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici, Edizioni minimum fax, Roma 2020, p. 342.
[9] D. Graeber, Of Flying Cars and Declining Rate od Profit, «Baffler», n. 19, marzo 2012, citato in M. Fisher, op. cit., p. 328.
[10] L. K. C. Manzo, A. Minello, Mothers, childcare duties, and remote working under COVID-19 lockdown in Italy, Sage Journal, June 2020.
[11] M. Puig de la Bellacasa, Matters of Care. Speculative Ethics in More Than Human Worlds, University of Minesota Press, Minneapolis 2017.
[12] J. Butler, L’alleanza dei corpi, Edizioni Nottetempo, Milano 2017, p. 24.
[13] M. Fisher, op.cit., p. 177.
[14] J. Butler, op.cit., p. 30.

Comments

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Enza
Sunday, 15 November 2020 20:51
Alfonso, non sono una esperta di sociologia del lavoro.
Ho apprezzato la problematica analisi della Morini perchè la regressione dei rapporti sociali e relazionali nonchè la " solitudine" del lavoratore con il cosiddetto lavoro agile, con nuove forme di sfruttamento, sono una realtà a cui ci stanno piegando per il nostro " bene". Da donna, ho sentito una maggiore immedesimazione per le più impegnative e acrobatiche tessiture a cui l'inedita situazione ci ha costretto. L'autrice lo evidenzia.
Passata la pandemia che sarebbe più giusto definire sindemia ( ho letto anche una sintesi di un articolo al riguardo di Lancet) non so se riprenderemo il filo là dove lo avevamo lasciato, pur con i suoi nodi. Temo di no.
Grazie a te per la sottigliezza e una buona serata.
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Alfonso
Sunday, 15 November 2020 16:14
Ottimo, d'accordo. Vorrei approfittarne [sic!] per tirare un ponte a Enza. Nell'articolo viene riportata una citazione da Marx :
Il fine di questo percorso «è che ogni prodotto contenga il più possibile lavoro non pagato, cosa che si può ottenere solo con la produzione per la produzione»
Quando però il singolo capitalista, per primo supponiamo, decide di acquistare una macchina per sostituire lavoro vivo, tiene come parametro di riferimento non quanto lavoro vivo venga risparmiato, ma solo la parte di lavoro pagato, di lavoro necessario. La macchina deve risparmiare capitale variabile; se poi aumenta la produzione di chi rimane alla catena, tanto di guadagnato sempre che tale produzione trovi sbocco. Questo rappresenta un enorme limite allo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale, fino al punto che il capitale sociale totale attua nell'interesse [sic!] di capitale collettivo. Grazie
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Enza
Sunday, 15 November 2020 06:57
I miei complimenti e la mia gratitudine a Cristina Morini.
Ci sono articoli che ti prendono per mano e ti fanno riflettere su quanto tu avevi in mente ma non riuscivi ad esprimere con un'analisi articolata e complessa. Articoli che sono utilissimi per diradare nebbiosi interrogativi. E che , a mio parere, vanno condivisi e diffusi.
Concludo citando Mill.

“Tutti gli errori che può commettere (l’uomo) ignorando consigli e ammonimenti saranno un male infinitamente inferiore a quello di lasciarsi costringere da altri a fare ciò che essi ritengono il suo bene“.( John Stuart Mill)
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Renato
Monday, 09 November 2020 12:19
Ottimo lavoro, complimenti, era da tanto tempo che non leggevo diagnosi e proposte finalmente al di là dell'ottocentesco modo di rappresentare il presente secondo le vecchie liturgie . Forse c'è ancora speranza per far capire a tutti i soloni delle lotte degli anni 70 che il capitalismo non è piu' quella roba là, ma è andato ben oltre ed è dentro il defunto tempo libero e in quasi ogni attività , prima sconnessa dalla contabilità o dal valore di scambio, ovvero oggi mercificata e quasi resa ostile a noi oggi consumatori lavoratori salariati .(con sempre meno salario e servizi sociali).
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