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sinistra

La Rivoluzione d’Ottobre

di Paolo Giussani

1989 0 3401.

La Rivoluzione del 1917 sta all’ideologia rivoluzionaria del XX secolo all’incirca come la resurrezione di Lazzaro sta alla fede nella divinità del Cristo, è proprio una disdetta che nel seguito Lucifero si sia preso una bella rivincita.

La vecchia guardia bolscevica è stata eliminata; si è creato un regime politico autocratico retto in coabitazione da ex-menscevichi ed ex-burocrati dell’apparato zarista che ha disposto del controllo dei mezzi di produzione, distribuzione, comunicazione, di tutto quanto; l’economia e la società dell’ex-impero zarista si sono trovate ad essere quasi completamente isolate dal resto del mondo; i lavoratori hanno assunto un atteggiamento completamente passivo e apatico nella più atomizzata società che sia mai esistita nell’epoca moderna. Assieme alla patetica recita della guerra fredda, tutto questo è formidabilmente servito a dimostrare che il capitalismo e la società occidentale sono il migliore dei mondi possibili, anzi l’unico possibile, deviando dal quale si violano le leggi della natura generando mostri che non sono neppure in grado di riprodursi regolarmente. La prima (presunta) grande rivoluzione socialista si rivelava essersi convertita nel miglior sostegno politico e ideologico alla permanenza del capitalismo.

Il fatto è che la rivoluzione d’Ottobre non è definibile una rivoluzione se non in un senso abbastanza ristretto; in parte, allo stesso modo della rivoluzione francese e di tutte quelle del XIX secolo, e in parte in un senso nuovo. Tutte le rivoluzioni dal XVI secolo in poi sono soltanto una tappa, quella esteriormente più spettacolare, del processo di dissoluzione della società feudale e di sviluppo della società borghese. Matura dopo secoli di trasformazione economica su cui a sua volta reagisce favorendo e accelerando lo sviluppo successivo, ma non creandolo; tant’è che ci sono nazioni (ad es. il Giappone) presso le quali questo tipo di rivoluzione ha avuto luogo completamente dall’alto e addirittura nella forma nominale della restaurazione di regimi politici arcaici. La forma, gli slogan e le etichette non hanno però la minima importanza se il cambiamento, quale che sia, pone la legislazione civile e penale, l’apparato dello stato e il potere politico in armonia con le necessità dell’espansione del capitale, in una parola se l’essenza viene salvaguardata.

 

2.

Ora, la rivoluzione del 1917 non si è limitata a fare quanto sopra né a farlo nei modi delle rivoluzioni precedenti ma è andata oltre: ed è precisamente qui che nasce il problema. Reagendo con decisione e forza alla catastrofe generale che metteva in gioco la sopravvivenza della società, gli operai industriali e i soldati hanno innalzato al potere un nuovo governo composto dall’unico partito che si era opposto con vigore e coerenza alla guerra e che aveva un semplice ma efficace programma aderente alle necessità del momento; nella seconda fase, vinta la guerra civile contro i bianchi, dopo avere promosso un’agricoltura piccolo-mercantile (non si poteva fare nient’altro), si è trattato di ripristinare, se non proprio introdurre, la gestione capitalistica delle aziende industriali, l’unica compatibile con uno sviluppo relativamente veloce della produzione in quelle condizioni (nel 1920 la produzione di beni era circa la metà di quella del 1911). Fin qui niente di particolare, se si eccettua la circostanza che il governo era composto da un unico partito esplicitamente rivoluzionario, quindi poggiante su di una base certo piuttosto gagliarda ma sempre più ristretta.

 

3.

Le novità rispetto al passato vengono fuori con la terza fase. Una volta stabilizzatosi, il nuovo apparato politico-amministrativo reagisce sulla struttura economica cercando di trasformarla a propria immagine e somiglianza, processo che comporta naturalmente svariate condizioni. Tutto quello che rimaneva del controllo operaio viene tolto di mezzo assieme a ogni residuo di proprietà privata tradizionale nella grande industria; le singole unità produttive vengono poste in forma duplice sotto il controllo esclusivo della burocrazia, mediante i poteri assoluti di gestione del direttore unico e attraverso la sottomissione formale delle transazioni mercantili fra le aziende alle disposizioni degli organi della pianificazione.

L’apparato dello Stato non crea una nuova forma economica -compito peraltro impossibile - ma tenta di sottomettere l’economia mercantile al proprio controllo. La caratteristica precipua dell’economia mercantile e capitalistica è che le unità produttive e distributive lavorano indipendentemente le une dalle altre e tra di esse non sussiste un legame organico e riproduttivo; l’interdipendenza è realizzata solo a posteriori in forma aleatoria attraverso gli scambi, che non possono svolgersi senza il denaro e costringono lo Stato a sovrapporsi dall’esterno ai rapporti fra le aziende tentando di preordinarli in qualche modo.

Il risultato più notevole di quest’azione da parte dello Stato non è la trasformazione dei lavori privati in sezioni del lavoro direttamente sociale ma l’impossibilità per le singole aziende di collegare direttamente la realizzazione dei redditi lordi con la produzione, che appaiono ora come due sfere indipendenti, circostanza che pone il sistema economico in uno stato permanente di sovraccumulazione di capitale fisso e di sottoaccumulazione di capitale circolante (compresi, anzi primi fra tutti, i beni di consumo). Nel sistema pianificato il denaro non solo sopravvive tranquillamente ma conserva tutte le funzioni che svolge nel capitalismo privato, fatto che pone in evidenza il carattere mercantile delle relazioni fra aziende produttrici e che contribuisce a spiegare il ruolo completamente subordinato dei valori d’uso, addirittura molto di più che non nel capitalismo occidentale.

Molti hanno preso sul serio la pianificazione, prosternandosi dinanzi al nome e ai suoi organi burocratici, anche se in gran parte si è trattata di una fictio juris. L’unica pianificazione esecutiva e obbligatoria era quella annuale, a sua volta il risultato di un processo continuo di contrattazione e ricontrattazione fra le aziende e gli organi amministrativi, e scarsamente rispettata nel caso medio. Né la pianificazione poteva avere molto a che fare con le caratteristiche fisiche e tecniche dei valori d’uso prodotti, al cui posto si trovavano degli indici fisici generici che non costituivano alcuna guida tecnica per la produzione, ma servivano soltanto da moltiplicatori dei prezzi unitari ostacolando fortemente la fabbricazione di beni con caratteristiche determinate e tali da essere utilizzabili in modo definito nella produzione e nel consumo.

Mancando lo stereotipo del padrone molti sono stati indotti a non riconoscere alla forza-lavoro sovietica lo status di merce, senza peraltro essere in grado di chiarire quale altro status potesse mai avere. Ora, se nella società sovietica i lavoratori industriali non avevano alcun controllo dei mezzi di produzione, quale appunto non avevano, doveva esserci qualcun altro a controllarli, qualsiasi fosse il sistema di questo controllo. A questo qualcun altro, non in quanto persona ma come agente del controllo dei mezzi di produzione (padrone o funzionario, permanente o transeunte) la forza-lavoro era ceduta in cambio di un salario. C’erano alternative?

 

4.

Tuttavia, è ovvio che l’ideologia corrente ossia il capitalismo preso come pensiero non può fare a meno di concepire come ordini sociali differenti e nemici tutti quelli in cui non ci sia più possibilità di esistenza e di azione per il capitalista e/o il manager privato. Vivendo dei profitti privatamente appropriati, non appena questi sembrano mancare anche per lui svanisce ogni vita immaginabile. Sentimento simmetricamente condiviso da buona parte della cosiddetta sinistra rivoluzionaria, che si è quasi sempre contentata dell’avversione personale verso i padroni privati senza assurgere alla coscienza della necessità del superamento del sistema capi-talistico-mercantile in quanto tale.

L’ideologia corrente non vede le persone come agenti e personificazioni delle categorie economiche bensì rovescia il processo facendo delle categorie economiche l’oggettivazione delle persone. Nella fattispecie, non esamina l’economia sorta dal processo innescato dalla rivoluzione d’Ottobre indipendentemente dagli attori del dramma ma giudica il dramma da come le stanno simpatici gli attori. Mancando lo stereotipo del padrone, la proprietà privata classica, la tipica libertà di azione a essa connessa e praticamente ogni nesso con l’economia mondiale, l’economia sovietica viene quasi unanimemente designata l’antagonista ufficiale del capitalismo.

Tuttavia, mentre le rivoluzioni canoniche nella storia moderna hanno riguardato essenzialmente la circoscritta sfera del potere politico, le rivoluzioni che sorgono dalle premesse del capitalismo sono tutt’altra cosa o non sono. Il sostantivo dovrebbe riacquistare il suo pieno significato e indicare il processo di trasformazione dei rapporti mercantili e capitalistici in relazioni superiori, evoluzione nella quale l’instaurazione di un governo rivoluzionario non è neppure il primo stadio ma soltanto la premessa dell’assunzione del controllo e della gestione dell’apparato produttivo e distributivo da parte dei produttori, che è la fase iniziale della loro riorganizzazione associata, il vero Hic Rodhus, hic salta! della faccenda.

A mano a mano che questo processo progredisce la funzione dei lavoratori si allarga e si approfondisce; più si procede e più essi devono abbandonare il ruolo di lavoratori per agire come produttori. Nella rivoluzione d’Ottobre avvenne l’esatto contrario. In pratica tutta l’azione e il peso dei lavoratori salariati sono concentrati all’inizio, cioè nel periodo di conquista e stabilizzazione del potere politico del partito bolscevico; ottenuto quest’obiettivo e sgombrato il campo dalla classe dei proprietari del capitale industriale, i lavoratori escono dalla scena per ritornare a essere l’usuale carne da lavoro; nel processo di rivoluzionamento della struttura economica operato dalla burocrazia fuoriuscita dalla rivoluzione, essi sono un puro e semplice strumento. Come la plebe cittadina nella grande rivoluzione francese, con il terrore e il governo di salute pubblica, costituì una leva assai potente per sbarazzare il campo dalla nobiltà per essere infine sgomberata essa stessa; così gli operai e i soldati della Russia rivoluzionaria sono stati uno strumento ancor più poderoso per levare di mezzo la classe dei proprietari delle aziende industriali e commerciali, e creare così un bel vuoto che i funzionari e gli amministratori statali, in massima parte antirivoluzionari all’inizio del processo, hanno potuto occupare in modo quasi automatico. Questo è il risultato storico principale della rivoluzione del 1917.

Se qualcuno per caso fosse preoccupato, non c’è difficoltà nel giudicare che la rivoluzione russa è stata (anche) una rivoluzione proletaria, ma la circostanza non è solo priva di importanza ma pure pericolosa, per così dire. La partecipazione dei lavoratori nel ruolo del protagonista ha occupato solo la prima fase, la più spettacolare e meno importante, e in questo si può apparentare, in parte o in tutto, a molti altri movimenti storici, in cui la classe dei lavoratori salariati ha sempre gentilmente lavorato per conto terzi.

 

5.

La teoria che asserisce: (i) che la rivoluzione d’Ottobre costituisce comunque un inizio, che senz’altro non poteva svilupparsi oltre ma serve comunque da primo esempio storico di conquista del potere da parte del proletariato, assieme alla variante (ii) secondo cui essa fece il massimo e che quello che mancò fu l’estendersi della rivoluzione al resto del mondo (o dell’Europa), aggiungendo magari la “sconfitta della rivoluzione” del 1919 in Germania e qualche altra cosa del genere, sono un buon esempio di wishful thinking. La rivoluzione del 1917 è la dimostrazione che il processo in corso durante e dopo la IGM non era né poteva diventare una rivoluzione in senso proprio. Nessuna rivoluzione era in preparazione in Europa alla fine della IGM; invece di suscitare un movimento rivoluzionario la rivoluzione in Russia produsse l’opposizione da parte della maggioranza dei lavoratori salariati, che contribuì al loro distacco da qualsiasi prospettiva rivoluzionaria. Nulla che sia meno sorprendente: le società delle nazioni europee (Francia, Germania, Regno Unito, etc.) e quella dell’impero zarista erano separate da un abisso; pensare che le nazioni più sviluppate potessero prendere a modello quanto accadeva presso un popolo ancora quasi completamente immerso nella barbarie era ed è semplicemente ridicolo e contrario a ogni possibile raziocinio storico. Chi poteva figurarsi una cosa del genere? Soltanto quei personaggi e ceti che nella società erano interessati alla pura sfera del potere politico e dell’amministrazione statale e/o quelli che in casa propria erano in condizioni peggiori della media della popolazione russa.

Quando si pensa alla famosa “conquista del potere politico”, quasi tutti attribuiscono all’espressione un contenuto scontato, ma non lo è in alcun modo. Nell’accezione del senso comune il potere politico è una nozione del tutto metafisica. Non esiste un potere politico come se fosse una fortificazione militare da prendere; i suoi scopi e il suo utilizzo in relazione alla struttura economica determinano la sua forma e il modo di funzionamento. Se la rivoluzione consiste nel processo di trasformazione delle relazioni mercantili in rapporti superiori, occorrerà un tipo di potere politico corrispondente a questo processo; e la sua conquista da parte dei lavoratori dovrà avvenire attraverso l’elaborazione di forme che siano almeno in parte già predisposte allo scopo. Nella rivoluzione del ‘17 non c’è proprio niente che possa essere catalogato in questa rubrica, nulla che si possa considerare l’inizio, l’embrione, l’accenno di una forma di organizzazione politica adatta al processo di rivoluzionamento dei rapporti capitalistici.

Taluni, si sa, tirano fuori i soviet come organizzazione politica di tipo nuovo rispetto al potere legislativo ed esecutivo dello stato borghese ma si tratta di un’idea fasulla. Una struttura politica di tipo superiore deve essere adatta all’uso come strumento per introdurre rapporti associati fra le unità produttive al posto dei rapporti mercantili, e i soviet, che hanno fatto la propria comparsa anche in altre rivoluzioni, non avevano niente a che fare con questo scopo. Strumenti di lotta e sistemi di riferimento per la massa dei lavoratori, erano del tutto estranei al funzionamento dell’economia, e del tutto corrispondenti ai compiti del luogo e del tempo che non potevano prevedere niente di più di un rivoluzionamento politico. Conquistare il potere politico è relativamente facile; assumere la gestione delle unità produttive è pure abbastanza agevole; creare rapporti diretti fra le produzioni e rendere interdipendenti le sezioni del lavoro sociale è cosa molto più complicata, per la quale è necessaria un’organizzazione del tutto particolare e inedita dei produttori, la cui costruzione in nessun modo è stata finora all’ordine del giorno della storia, meno che meno nei dintorni della Prima Guerra mondiale. Sotto quest’aspetto è del tutto inutile amareggiarsi e abbandonarsi a sensi di disperazione dinanzi alla visione delle tragicomiche miserie della “situazione attuale”. Pensare che “si sia stati sconfitti”, che “la storia ci abbia respinto”, etc. è solo il frutto di una ragguardevole illusione ottica.


* Tratto da: Autori vari, Sviluppo e declino dell'economia sovietica, a cura della redazione di Countdown. Studi sulla crisi, Asterios editore, 2016, € 35,00

Comments

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Luciano Pietropaolo
Sunday, 18 March 2018 22:44
@ Mario Galati : certamente non mi illudo di riportare il Giussani o chi la pensa come lui con i piedi per terra sul piano della realtà e della verità storica, però è doveroso contrastare sempre e comunque queste oniriche narrazioni per impedire che prendano piede e diventino parte del comune sentire.
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Mario Galati
Sunday, 18 March 2018 19:52
Veramente encomiabile tentare di spiegare, come fa egregiamente Luciano Pietropaolo, certe cose a gente che non le capirà mai. Gente intrinsecamente reazionaria. Gente che ciancia di capitalismo senza capitalisti. Che pretende magari di rifarsi a Marx senza averne capito un'acca, né della teoria economica, né di quella politica, tanto meno di quella filosofica, indissolubilmente intrecciate. Gente che non sa nulla e non capisce nulla di storia. Gente che crede che una casta di burocrati sospesa nel cielo possa dominare una società.
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Luciano Pietropaolo
Sunday, 18 March 2018 14:43
Articolo veramente allucinante: l’autore si erge su un piedistallo che lo pone a una distanza infinita dai fatti sui quali pretende di ragionare. La sua critica alla Rivoluzione d’Ottobre potrebbe essere quella di un qualunque pensatore liberale borghese, per il quale la proprietà privata, i rapporti capitalistici, il mercato sono orizzonti assoluti, sacri e insuperabili. Lui però cerca in qualche modo di distinguersi dall’ottica liberale, troppo volgare a suo modo di vedere e tenta di porsi accademicamente super partes per esempio affermando “ che a causa della sua inevitabile degenerazione la prima (presunta) grande rivoluzione socialista si rivelava essersi convertita nel miglior sostegno politico e ideologico alla permanenza del capitalismo”
Nulla di nuovo sotto il sole: le tesi esposte sono una riproposizione di argomenti vecchi di circa 80 anni.
Si rammentino i seguaci americani di Trotzky (i cui epigoni oggi pullulano nella confraternita dei neocon) o preferibilmente l’italiano che prima ancora di loro tracciò le coordinate della critica “marxista” all’esperimento sovietico (Bruno Rizzi: “la burocratizzazione del mondo”) o infine Kautzky del quale sposa il disprezzo per la Russia “completamente immersa nella barbarie”
Rizzi sosteneva nel 1938 che a causa della immensa arretratezza della Russia (o barbarie, secondo Giussani!) la classe operaia protagonista della rivoluzione finì sopraffatta dalla nuova classe dei burocrati e funzionari dello Stato-Partito i quali, pur non essendo titolari dei mezzi di produzione, sfruttavano di fatto la classe operaia in modo ancor più spietato dei capitalisti borghesi d’Occidente.
In realtà la “nuova classe” immaginata da Rizzi e poi da Gilas sarebbe cresciuta in Urss, ma molto tempo dopo l’era di Stalin e non a causa dello “stalinismo” ma del revisionismo strisciante che prese piede in Urss dopo la morte di Stalin. Gli elementi di questa nuova classe, stimolati dall’Occidente, a un certo punto decisero di cambiare il proprio ruolo da quello di manager a quello di azionisti, ma per far questo dovettero spezzare con la forza e l’inganno l’assetto politico e statuale dell’Unione Sovietica: le conseguenze di questa controrivoluzione le sta ancora pagando oggi la classe operaia russa ex sovietica.
Contestare parola per parola l’articolo (non c’è proprio nulla che si salva!) sarebbe troppo lungo, trattandosi di una lunga catena di asserzioni apodittiche, utopiche, avulse dal contesto storico o deliberatamente false, come quando afferma che “ nel sistema pianificato il denaro non solo sopravvive tranquillamente ma conserva tutte le funzioni che svolge nel capitalismo privato” . Questo invece è proprio un esempio nel quale il sistema “burocratico” “accentrato” “autoritario” ecc (cioè il socialismo!) differisce radicalmente dal sistema capitalistico perché nel primo il denaro è semplicemente un mezzo di scambio, nel secondo è una merce che serve anche e soprattutto per il suo autoaccrescimento: al contrario nell’Urss non si poteva fare denaro tramite il denaro e il rublo non era scambiabile sulle piazze finanziarie.
“ I lavoratori hanno assunto un atteggiamento completamente passivo e apatico nella più atomizzata società che sia mai esistita nell’epoca moderna” Ma in che film l’ha visto? Negli anni ’30, gli anni di Stalin, la classe operaia fu protagonista consapevole del processo di modernizzazione e di industrializzazione della Russia, l’entusiasmo per l’edificazione socialista era alle stelle, come testimoniato anche da osservatori stranieri: mai sentito parlare dei fabiani coniugi Webb? Gli operai nelle fabbriche e nelle miniere studiavano per acquisire un’istruzione tecnica e con questa si impegnavano spontaneamente per cercare di migliorare gli indici della produzione: mai sentito parlare di Stakanov? Ma va’, tutta propaganda e lavaggio del cervello da parte del “regime autocratico e totalitario”!
Infine, il mito immarcescibile del “controllo operaio” o quello della trasformazione (mai avvenuta… )delle relazioni mercantili in rapporti superiori (sic) . Artifici retorici, creazioni ontologiche sempre evocate ma mai definite in modo empirico e operativo, che però servono a condannare senza appello un’esperienza storica che non è riuscita a farle subito esistere. Chi decide cosa, quanto come e per chi una fabbrica deve produrre i suoi manufatti? E cosa vuol dire praticamente “controllo operaio” ? Se si intende “autogestione” della fabbrica da parte degli operai di quella fabbrica, beh, diciamo più semplicemente che vogliamo ristabilire i rapporti di produzione capitalistici con nuovi azionisti al posto di quelli che sono stati espropriati (e così dicasi per le terre); tutt’altra cosa è il controllo operaio esercitato a livello di classe tramite gli organi centrali dello stato operaio, costruito dopo lo smantellamento dello stato borghese. A sua volta il denaro, come lo stato, non può sparire di punto in bianco dalla circolazione, ma cambia la sua funzione. Queste cose sono così ovvie che gli operai allora come oggi le capiscono e vi si adattano perfettamente. Se poi uno è allergico allo stato in quanto tale, si accomodi pure nel regno incantato dell’utopia e dell’anarchia.
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