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pianoinclinato

L’economia è una scienza?

di Beneath Surface

keynes 2Che l’economia non sia un scienza sperimentale in senso stretto è noto da oltre 200 anni. Non è possibile fare esperimenti “in vitro” tanto per vedere come reagirebbe l’economia se si variassero certi parametri invece di altri, e l’alternativa sarebbe tentare di farlo nella realtà, a rischio di un po’ di macelleria sociale.

È questo il motivo fondamentale che ha condotto i primi economisti a riflettere sui metodi aperti al teorico per studiare questa scienza sociale. Tanto che la prima riflessione economica tocca argomenti importanti per la filosofia della scienza, e in particolare l’epistemologia, la sua branca dedicata all’analisi della conoscibilità dei fenomeni e ai metodi per farne efficace ricerca.

John Stuart Mill delineò un approccio speculativo che continua a influenzare (malgrado i suoi quasi 200 anni e i progressi di statistica e matematica) il modo in cui il pensiero economico viene elaborato e prende forma. Mill partì dalla considerazione che vi sono molteplici correlazioni e influenze reciproche fra fattori transeunti che rendono difficile capire le relazioni che governano l’economia, rendendo arduo l’approccio tipico delle scienze empiriche: raccogliere una gran mole di dati dalle osservazioni e poi dedurne una teoria.

Il confronto che Mill aveva in testa era con le grandi scienze della fisica e della astronomia, costruite su leggi universali e eterne, mentre è chiaro che quelle che governano i nostri sistemi socio-economici siano alla meglio transitorie, per cui secondo la sua opinione l’economia è destinata ad essere una scienza inesatta.

Mill risolse questo dilemma dell’economista aprendo ad un criterio metodologico che è tutt’ora utilizzato: gli economisti possono accedere direttamente alle cause dei fenomeni che stanno analizzando attraverso l’introspezione, cioè mettersi nei panni di un soggetto economico reale e chiedersi come e  perchè agirebbe in un determinato modo per raggiungere un certo obiettivo.

L’introspezione diventa un surrogato dell’esperimento controllato, e gli effetti ottenuti con tale “esperimento mentale” saranno poi confrontati con i dati reali. Da questo approccio discendono due considerazioni importanti.
La prima è che, secondo Mill, le assunzioni fatte sono corrette per il semplice fatto di essere prodotti dell’introspezione; lo step di verifica serve solo a capire se si sia trascurato un qualche ulteriore particolare. Poco è detto sulla verifica ex post della congruità delle assunzioni iniziali e la loro eventuale modifica.

E questo mi ricorda molto una vecchia battuta:

“se una idea funziona nella pratica, l’economista si chiede se funziona anche in teoria”

In secondo luogo, la metodologia milliana prevede di studiare le possibili cause suddividendole in categorie, analizzandole separatamente,e alla fine sommarne i risultati. Si ritiene cioè che, individuate le molteplici e anche differenti cause di un fenomeno economico (domanda/offerta, fattori geopolitici, andamento dei tassi di un’asset alternativo, etc..), si possa “sviscerare” una specie di “effetto puro” che ciascuna ha sul fenomeno studiato, tenendo ferme le altre (regola del ceteris paribus).

Non è allora un caso che la prevalenza dei modelli economici sia del tipo additivo sopra descritto, cioè ipotizzano relazioni lineari fra le variabili in gioco, del tipo: Y= aX +bZ -cR

L’additività ha il pregio di semplificarci la vita, ma siamo sicuri che le basi su cui è assunta siano così realistiche? C’è chi afferma che l’ipotesi sia meno restrittiva di quanto si pensi, io un pò di scetticismo lo conservo.

Soffermiamoci ora al primo punto. Mill non entra nel merito della verifica ex post della fondatezza delle assunzioni fatte, lasciando l’impressione che non sia fondamentale: importante è che il modello interpreti adeguatamente la realtà.

Non deve allora sorprenderci se gli economisti classici (quelli c.d. Marginalisti), della Sintesi neoclassica, neowalrasiani e monetaristi ci presentino modelli basati su assunzioni e ipotesi che non esiteremmo a definire irreali: concorrenza perfetta, agenti perfettamente razionali, onniscenti, massimizzatori dell’utilità individuale in barba a altruismo, incertezza, avversione al rischio e asimmetrie informative, ciliegina sulla torta prezzi flessibilissimi.

Ma quanta semplificazione e astrazione è lecita per rispettare il mandato epistemologico che la teoria sia un efficace e coerente strumento conoscitivo della realtà? Questa è la domanda cardine di questo primo articolo.

La filosofia della scienza chiama Strumentalismo le posizioni intellettuali di questo genere, in contrapposizione a quelle del Realismo. Per i primi non è importante che le ipotesi e le assunzioni del modello possano essere irreali, l’importante è l’utilizzabilità del modello e il suo potere predittivo del fenomeno studiato.

La storia ci fornisce diversi esempi di strumentalisti e realisti. Osiander, vescovo imprestato alla scienza, scrisse nel 1543 una famosa prefazione alla celeberrima opera di Copernico sui moti delle orbite celesti. Il prelato però cavalcò la nuova scienza celeste ma tenendo i piedi ben saldi su due staffe, presentandola come un utile e semplice strumento di calcolo (per la determinazione precisa delle date per la Pasqua e anche per la semina), ma sottolinenando che essa non avesse nulla a che fare con la vera struttura del sistema solare, che era e rimaneva geocentrica e tolemaica come i testi sacri sancivano. Forse fu solo più furbo del realista Galileo, perchè non deve essere stato facile essere scienziati nel Medioevo e pure nel Rinascimento, stretti fra il fuoco per la ricerca della verità e i fuochi della Verità, nel senso di quelli appiccati dall’Inquisizione.

Qualche secolo dopo, Einstein era realista per quanto riguardava la teoria della relatività, riteneva che veramente il suo modello imitasse il reale comportamento dell’universo. Eppure non riusciva a spiegarne alcuni misteri. Vi riusciva invece una teoria che a lui non garbava granchè, la meccanica quantistica, teoria che Einstein accettava/usava come utile strumento per capire certi fenomeni, benchè fosse in cuor suo restio a credere che l’universo fosse veramente così. Famosa fu la sua obiezione rivolta a Niels Bohr: “Dio non gioca a dadi”.

Anche in economia esiste la distinzione, e il relativo dibattito, accidenti! eccome che esiste (e qui anche un altro).

Friedman è il più classico degli esempi di teorico strumentalista, contrapposto a Keynes per esempio, che avrebbe scommesso la testa sulla vera verità del suo modello. In un saggio sulla metodologia della ricerca in economia il futuro nobel della scuola di Chicago presentò numerosi argomenti in sostegno della teoria secondo la quale la validità di un modello economico è tanto migliore quanto più è buono il suo potere predittivo, limitatamente al fenomeno studiato, ed è ininfluente quanto siano realistiche le assunzioni fatte.

E se guardiamo a certe assunzioni dei modelli classici e monetaristi non facciamo fatica a credergli. Eppure i modelli monetaristi funzionarono eccome, addirittura soppiantarono quelli keynesiani. Un economista classico sarebbe probabilmente pronto ad ammettere l’irrealtà di queste assunzioni, ma ritiene altresì che un modello economico troppo realistico sia anche troppo complicato e, paradossalmente, inutile a spiegare la realtà. La posizione di Friedman è sulla linea di quella analoga assunta 120 anni prima da Mill.

Cosa è possibile dire sulla diatriba “realismo/complessità vs strumentalismo/semplicità”? Molti modelli diventano arditi nel cercare relazioni complesse, realistiche e robuste con diverse variabili, ma come temeva Friedman diventano spesso poco maneggevoli e paradossalmente si “amortizzano presto”: dopo un pò non sembrano più in grado di prevedere nulla, suffragando la tesi popolare che gli economisti, secondo la definizione di M.Twain siano "coloro che domani ti sapranno dire perchè la loro previsione di ieri oggi non si sia avverata".

Pur senza venir espressamente menzionato, recentissimamente questo argomento è stato toccato nel dibattito che ha diviso O.Blanchard, P.Krugman, B.DeLong e altri sulla efficacia e utilizzabilità dei modelli econometrici DSGE. Senza approfondire, si tratta di modelli basati su una serie di forti, realistiche assunzioni circa il comportamento microeconomico degli agenti. Peccato che dopo venti anni di tentativi di sviluppo, alcuni ricercatori ne stiano svelando i limiti, che sono proprio quelli sopra accennati: la semplicità, l’utilizzabilità e il potere predittivo.

D’altro cantosi può anche essere strumentalisti ma non “ingenuamente”. Una storiella scritta dall’econometrista Haveelmo ci può aiutare a capire perchè: se sedessimo in macchina al posto del passegero, presto dedurremo una teoria che lega la velocità con la pressione che il piede dell’autista esercita sull’acceleratore. Questa nostra teoria ci permetterà di capire e prevedere molti fenomeni che accadranno durante il viaggio. Tuttavia non è un modello efficace: appena il motore, di cui ignoriamo tutto, si ingrippa, la relazione pedale-velocità sparisce, malgrado il conducente continui a premerlo a fondo… Insomma, pensate di stare in macchina con Draghi, Kuroda e la Yellen al volante.

Perciò avere una teoria che preveda il futuro non è sufficiente a garantire che io possa efficacemente intervenire nell’economia: devo avere comunque una profonda conoscenza dei fenomeni causali, basata su relazioni statisticamente robuste.

In conclusione, la complessità e il realismo delle assunzioni vanno bene, sono apprezzabili logicamente e esteticamente, ma poco maneggiabili dalla nostra matematica e dalla nostra capacità di gestire fenomeni intricatissimi e addirittura mutevoli nel tempo, quindi alimentano i dubbi. Tanto che il povero economista si trova a dover spesso “mettere le mani avanti” e frenare gli entusiasmi sulle sue capacità oracolari.

Il presidente USA H.Truman, per quanto digiuno di economia, se ne rendeva conto e per celia usava dire che gli sarebbe tanto piaciuto conoscere un economista con un braccio solo in modo da non sentirsi dire tutte le sante volte: “da un lato…..ma dall’altro”.

Anche a W.Churchill viene attribuita una battuta ai danni del buon John Maynard Keynes:

Se metti due economisti in una stanza avrai due opinioni, a meno che uno dei due sia Lord Keynes, nel qual caso ne avrai tre.

Dall’altro lato la semplicità delle assunzioni è gradevole per il suo vantaggio divulgativo, di poter arrivare a molti e non solo a specialisti. Eppure anch’essa presenta da questo punto di vista dei rischi: benchè potenzialmente possa donarci modelli chiari e predittivi, rischia di alimentare le faziosità. Se ricapitoliamo quanto visto finora, diventa chiaro: se l’introspezione è la metodologia alla base della sperimentabilità della scienza economica, e la verifica ex post delle assunzioni così fatte è tanto più ininfluente quanto maggiore è la capacità predittiva del modello, allora è intuitivo capire che le assunzioni da cui si parte possono essere, e spesso sono, dedotte da pregiudizi del teorico (qui va inteso come pre-giudizio, fuori da ogni connotazione morale negativa).

Noi sappiamo quale è la fede che muove un economista classico: la fiducia che i mercati funzionino bene, che esista cioè una “mano invisibile” che pareggia le differenze, e che la proprietà privata e la libera iniziativa lavorino per essa, se lasciate fare. Il fatto, invece, che tali sciagurate differenze e attriti esistano, e addirittura persistano, sembra non significare per nulla che i mercati siano naturalmente non concorrenziali, bensì che esistano frizioni da eliminare che ne impediscono il naturale comportamento. Alla faccia della fede.

Ma anche un keynesiano della Sintesi è mosso da una incrollabile fede: che le relazioni che legano mercati purtroppo imperfetti e inefficenti siano tuttavia stabili, robuste e determinabili. Se così non fosse le sue ricette di demand management rischierebbero di essere a volte oculate altre volte arbitrarie.

Mi cadono frequentemente le braccia nel vedere con quale foga certi fan dell’economia brandiscono come armi di distruzione (dell’interlocutore) i modelli che par loro di aver capito, quando invece ne ignorano le assunzioni e le ipotesi. Ecco perchè faccio tanta attenzione e sono così tacchente nell’evidenziarle. Ma le estreme conclusioni di questo ragionamento le vedremo nel terzo articolo, la prossima volta faremo una chiaccherata con Karl Popper per sapere da lui se noi economisti siamo o no veri scienziati.

Comments

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Claudio
Sunday, 02 October 2016 08:58
Ottimo ed assai erudito scritto, speriamo che serva a quelli che con tanta enfasi sostengono la tesi secondo la quale tutti i mali italiani deriverebbero dall'euro, mentre viceversa la crisi e del sistema, ed infatti essa checché ne dicano continua ad essere mondiale.
La sua preziosa disamina delle varie teorie economiche e dei loro invalicabili limiti di scienza inesatta, mi fa venire a mente una non banale intuizione di un grande scienziato sociale, che in questo suo primo articolo per varie ragioni non ha menzionato, e cioè che "troppi filosofi (in questo caso economisti) hanno interpretato il mondo, è ora di cambiarlo". Speriamo che soprattutto nella pretesa sinistra, qualcuno finalmente lo capisca e la smetta di tediarci con le solite fregnacce sull'euro, che non hanno ne capo ne coda.
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