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Proprietà pubblica e privata tra Costituzione e trattati europei

di Vladimiro Giacchè

Pubblichiamo l’intervento di Vladimiro Giacchè all’incontro “Unione Europea, Costituzione e diritti di proprietà” tenutosi a Roma il 23 febbraio 2019, promosso dalle associazioni Patria e Costituzione e Attuare la Costituzione

costituzione diritti1. Proprietà pubblica e privata: l’economia mista prevista dalla nostra Costituzione

La nostra Costituzione dedica alcuni dei suoi articoli più importanti alle diverse forme di proprietà: si tratta degli articoli 41-43, 45-47, centrali tra gli articoli dedicati ai “Rapporti economici” (artt. 35-47). Rileggiamoli:

Art. 41.

L’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

Art. 42.

La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.

La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.

Art. 43.

A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.

Le norme dell’Unione Bancaria europea che prevedono il sostanziale divieto di salvataggio pubblico delle banche in crisi sono in contraddizione con questo articolo.

Art. 45.

La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.

La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato.

Recentemente è stata posta in dubbio la compatibilità della Legge 49/2016, che ha imposto alle BCC la trasformazione in 2 Gruppi bancari cooperativi retti da altrettante holding (non più in forma di cooperativa ma di società per azioni), con questo articolo della Costituzione.

Art. 46.

Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.

Art. 47.

La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.

Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

La stessa regolamentazione europea già ricordata ha violato anche questo articolo, introducendo il principio che in caso di dissesto bancario a pagare siano non soltanto gli azionisti, ma anche gli obbligazionisti e addirittura gli stessi correntisti bancari (per la parte dei depositi eccedenti la soglia di 100 mila euro) – e quindi rendendo non più tutelato il risparmio impiegato in queste forme.

Questi articoli evidenziano il carattere di economia mista che secondo i padri costituenti doveva improntare di sé l’economia italiana, grazie alla compresenza di diverse forme di proprietà. A sua volta questa configurazione economica della società è parte integrante di quei “Rapporti economici” inseriti nella parte I della Costituzione, che hanno la finalità di realizzare i valori e i diritti indicati nei “Principi fondamentali” esposti nei primi 12 articoli della Costituzione.

Qui rilevano in particolare gli articoli 3 e 4, tra loro connessi:

Art. 3

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Art. 4

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto effettivo questo diritto.

Di “beni comuni” la Costituzione non parla. Negli artt. 41 e sgg. ricorrono però più volte formulazioni quali: “utilità sociale”, “fini sociali”, “interesse generale”, “utilità generale”.

I contenuti della Costituzione della Repubblica Italiana riguardo alla proprietà si inseriscono in un contesto storico in cui il disastro della crisi del 1929 e poi la guerra avevano ingenerato un motivato scetticismo nei confronti dei monopoli privati e del mercato senza regole caro ai liberisti – ma potremmo dire, più in generale, nei confronti dell’“anarchia della produzione” capitalistica.

Così troviamo la richiesta di nazionalizzazioni addirittura nel primo programma della CSU tedesca; e ancora nel 1948, a guerra fredda già iniziata, Albert Lauterbach, professore alla Columbia University di New York, nel suo Economic security and individual freedom, un testo che ebbe notevole circolazione e fu tradotto anche in lingua italiana, poteva scrivere: “se c’è una lezione da trarre dai disastrosi avvenimenti del decennio che va dal 1930 al 1940, è che il caos economico ha effetti letali sulla libertà e sulla pace… Fu l’insicurezza economica, più di ogni altra causa, a provocare dopo il 1929 il passaggio della Germania ad un regime di carattere totalitario, volto all’aggressione militare” (Lauterbach 1948: 18-19).

Le economie miste, non solo in Italia, furono una conseguenza di questa consapevolezza. In diversi paesi si introdusse una pianificazione indicativa (contrapposta alla pianificazione direttiva, o di comando, caratteristica dei paesi a economia pianificata). In Francia nel 1946 fu introdotto il Commissariato al piano e lanciato il primo piano (che indicava obiettivi di produzione in agricoltura, trasporti, energia, acciaio, macchine per l’agricoltura e materiali di costruzione, dal 1949 anche per alcuni prodotti chimici; seguirono più ampi piani quadriennali: 1954-7, 1958-61 ecc. [vedi Wilson 1964: 36]).

In Giappone fu istituita un’Agenzia per la pianificazione economica, lo stesso avvenne in Olanda e Norvegia. In Italia, come pure in Belgio, Regno Unito e Danimarca, ciò avvenne più tardi: da noi, come noto, nella forma della “programmazione economica” tentata (ma con limitati risultati) dai governi di centrosinistra (Archibugi 2009: 27).

 

2. Il Trattato di Roma e le forme di proprietà: un’indifferenza solo apparente

Qual è la posizione dei Trattati Europei riguardo alle forme di proprietà? Inizialmente indifferente: così il Trattato di Roma (1957). In realtà, dietro questa indifferenza, è facile scorgere nelle discussioni di quegli anni posizioni diverse e in conflitto: da un lato la posizione della Francia (pianificazione indicativa), dall’altro quella della Germania (ordoliberismo). Un dibattito svoltosi nel 1963 presso la List Gesellschaft di Francoforte, trascritto e pubblicato nel volume Planung ohne Planwirtschaft, dà conto di questo scontro (Plitzko 1964). All’origine di questo dibattito, il memorandum pubblicato il 24 ottobre 1962 Commissione della Comunità Economica Europea (come si chiamava allora l’attuale Commissione Europea), che conteneva tra l’altro previsioni economiche a lungo termine e una sorta di “programmazione” indicativa dello sviluppo economico nei paesi della Comunità. Questa sola proposta suscitò grande scandalo in Germania: non mancarono le accuse di “dirigismo”, e lo stesso Ludwig Erhard, ministro dell’economia e poi cancelliere, vergò un articolo, pubblicato il 21 dicembre 1962 dallo “Handelsblatt”, in cui stigmatizzò questa “tendenza verso idee di economia pianificata” (cit. in Plitzko 1964: V).

Al dibattito presso la List Gesellschaft presero parte figure di spicco della Commissione, a cominciare dal suo primo presidente, il tedesco Walter Hallstein, autore di un intervento di notevole rilievo. Lo Hallstein del 1963 è proprio lo stesso giurista che, da membro di spicco dell’associazione dei giuristi nazisti, in un discorso tenuto a Rostock il 23 gennaio 1939 aveva manifestato la propria adesione entusiastica alla politica di conquista di Hitler.

A distanza di quasi un quarto di secolo, il ragionamento di Hallstein è ora meno diretto e a tratti involuto, ma assolutamente conseguente. Il suo tema è il rapporto tra i compiti della Commissione e quelli degli Stati. Questa la giustificazione dell’operato della Commissione offerta da Hallstein: “La comunità [europea] si è confrontata e si confronta in diversi modi – nel suo compito, ritengo non controverso, di difendere le nuove libertà che apporta eliminando la vecchia angustia nazionale della politica economica – con la presenza dello Stato e con il suo intervento” nella vita economica (Plitzko 1964: 11-12).

Il “filo conduttore” di questo confronto, osserva Hallstein, è “lo scopo strategico della comunità economica europea”, ossia “l’unificazione (Zusammenfügung) delle economie nazionali; non soltanto la creazione di un mercato comune, ma nientemeno che la fusione (Fusion) di queste economie nazionali. Il nostro compito pertanto deve essere quello di rendere compatibili tra loro gli interventi [sull’economia] che troviamo a livello nazionale, di coordinarli tra loro, forse di fonderli (verschmelzen) tra loro, così da far sì che l’isolamento (Isolierung) di partenza delle economie nazionali ceda il passo quantomeno alla possibilità, alla chance di una economia unica (Gesamtwirtschaft).

Questo significa più precisamente – dal momento che la nostra comunità economica europea è in sostanza, come ognuno sa, un’unione doganale – che dobbiamo impedire che la costruzione di questa unione doganale sia vanificata e aggirata dall’innalzamento… di altre barriere, finalizzate a rendere reversibili gli effetti dell’eliminazione delle barriere ai commerci rappresentate dai dazi.” (Plitzko 1964: 12).

In quest’ottica, la Comunità ha un compito difensivo, reattivo: non interviene nella vita economica, ma reagisce all’intervento degli Stati in essa. Ma a fianco di questo compito difensivo della Comunità, prosegue Hallstein, c’è quello “positivo, costruttivo. Esso è rappresentato dalla creazione di un ordine economico della comunità stessa – naturalmente un ordine basato sulla concorrenza; perché anche questo può essere dato per scontato: la filosofia… del trattato di Roma è in tutto e per tutto quella dell’economia di mercato” (Plitzko 1964: 13). È precisamente su questa base che si sviluppa il confronto della Commissione con gli interventi degli Stati membri nell’economia: “il nostro aiuto all’economia consiste nel favorire la concorrenza” (Plitzko 1964: 16).

In queste parole emerge con chiarezza come l’indifferenza dei Trattati di Roma nei confronti delle forme di proprietà sia soltanto apparente, e come già su quella base fosse inevitabile pervenire a un approccio inequivocabilmente a favore della centralità del mercato e della concorrenza tra società private e contro ogni orientamento pubblico dell’attività economica.

 

3. Le evoluzioni successive dei Trattati europei e lo smantellamento dell’industria pubblica in Italia

Il pieno dispiegamento di questi presupposti ovviamente richiese molto tempo. Il quadro normativo conobbe una significativa evoluzione nel corso degli anni, accompagnando le tappe di sviluppo dalla Comunità Economica Europea a quella che dopo Maastricht chiamiamo Unione Europea. Queste tappe sono in sintesi: l’unione doganale, il mercato comune, il mercato unico, la moneta unica e infine l’unione bancaria.

I due passaggi chiave sono rappresentati dall’Atto Unico Europeo (1986) con il completamento del mercato unico, e poi dal Trattato di Maastricht (1992) con la moneta unica.

Questi due passaggi si collocano nel pieno del trionfo del neoliberismo: quando l’Atto Unico Europeo viene stipulato, Margaret Thatcher e Ronald Reagan sono al potere, in Francia un Mitterrand indebolito è costretto alla coabitazione con Chirac, in Germania è saldamente al potere Helmut Kohl, mentre il blocco sovietico è già entrato nella sua crisi terminale.

Quando si firma il Trattato di Maastricht la bandiera rossa è stata ammainata dal Cremlino da meno di due mesi, e l’ondata neoliberista sta vivendo il suo momento di più incontrastata egemonia. Quell’“economia sociale di mercato” che ai tempi del Trattato di Roma era nulla più che l’etichetta appiccicata, per motivi di marketing politico interno, al solo ordoliberismo tedesco, è ora inserita esplicitamente nei Trattati; non solo: quasi a voler stemperare ulteriormente il significato dell’aggettivo “sociale”, il legislatore europeo ravvisa la necessità di aggiungere a quest’espressione la caratterizzazione di “fortemente competitiva” (vedi Trattato sull’Unione Europea, art. 3).

Viene meno, insomma, la cautela che ancora negli anni Sessanta caratterizzava la CEE, e che Alfred Müller-Armack caratterizzava con queste parole: “nella stesura del Trattato di Roma abbiamo consapevolmente evitato di mettere per iscritto una specifica concezione dell’ordine economico” (Plitzko 1964: 40). Anche Müller-Armack, come Hallstein, era stato membro del partito nazista, nonché autore nel 1933 di un libro in lode della politica economica di Hitler, cosa che non gli impedì di diventare nel dopoguerra prima stretto collaboratore di Ludwig Erhard nel ministero dell’economia tedesco occidentale, poi sottosegretario per gli affari europei. In questa sede però non ci interessano principalmente questi aspetti della sua biografia, bensì le conseguenze della cautela da lui ora teorizzata. Precisamente tale cautela consentì all’olandese Jan Tinbergen, nell’ambito dello stesso colloquio francofortese, di formulare un elogio dell’economia mista, da lui considerata “il sistema migliore” (ivi: 238).

Nei primi anni Novanta il contesto storico è completamente diverso, e caratterizzato dal rollback della proprietà pubblica – sia pure con differenze rimarchevoli da Stato a Stato, e con il nostro in prima fila.

Nello stesso colloquio già più volte citato, benché il leitmotiv sia rappresentato dalla dialettica tra pianificazione indicativa alla francese e ordoliberismo tedesco (o economia sociale di mercato che dir si voglia), a un certo punto si accenna alla particolarità della situazione italiana. Ne fa menzione Erwin von Beckerath, presidente del Comitato di consulenza scientifica del Consiglio economico presso il Ministero dell’economia tedesco federale, buon conoscitore dell’Italia e già grande ammiratore del fascismo: egli osserva infatti che in Italia le nazionalizzazioni di parte importante dell’industria e dell’intero sistema bancario fanno sì che “gli italiani in questo modo abbiano possibilità del tutto straordinarie di intervenire nell’economia, che è quanto noi non vogliamo fare” (von Plitzko 1964: 229).

Lo smantellamento di queste imprese pubbliche, e delle conseguenti “possibilità del tutto straordinarie di intervenire nell’economia”, sarà disposta nel 1993 proprio dalla Commissione Europea, utilizzando come grimaldello la categoria degli “aiuti di Stato”, codificata nel diritto comunitario in modo sempre più restrittivo col passare degli anni.

Più in particolare, come ricorda Pierluigi Ciocca, con l’accordo Van Miert-Andreatta del 1993 fu precluso “ogni ulteriore afflusso di pubblico danaro” all’Iri, la holding pubblica delle imprese di Stato. “Indistintamente, gli apporti statali al fondo di dotazione vennero equiparati ad aiuti di Stato. Si previde l’impegno italiano di ridurre entro il 1996 l’indebitamento in essere di Iri, Enel, Enel a un livello comparabile con quelli ‘accettabili per un investitore operante in condizioni di economia di mercato’. Il livello di indebitamento, secondo la formulazione adottata senza specificazione,” – e, giova aggiungere, senza alcuna base empirica di riferimento – “venne fissato nel 60% del capitale investito, notevolmente inferiore al 100% accusato dall’Iri nel 1992. L’abbattimento del debito Iri, per circa 30 mila miliardi di lire, poteva quindi realizzarsi solo attraverso massicce dismissioni” (Ciocca 2015: 278-9).

Risultato: tra il 1985 e il 2009 l’Italia privatizzò beni di proprietà pubblica per 160 miliardi di euro (il 18% del PIL italiano del 1994), ma ben la metà di queste privatizzazioni avvennero tra il 1996 e il 2000 (Ciocca 2015: 277). La privatizzazione è pressoché totale in campo bancario dove, se a inizio decennio Novanta il 73% delle banche era in mano pubblica, alla fine del decennio non ne restava praticamente più nessuna.

Di fatto, come ha osservato Roberto Artoni, l’accordo Andreatta-Van Miert “costituì il viatico per un processo di dismissione delle imprese pubbliche facenti capo all’IRI al di fuori di ogni disegno complessivo di ragionata tutela di settori industriali potenzialmente determinanti per lo sviluppo economico del paese (…). L’unico imperativo sembra essere stato quello di vendere al fine di soddisfare l’obiettivo, molto ravvicinato nel tempo, di ridurre la consistenza del debito lordo” (Artoni 2013: 15).

Quella scelta (o meglio quella imposizione) ha contribuito in misura importante al declino economico italiano dell’ultimo ventennio. Si è rotto di fatto il delicato equilibrio tra proprietà pubblica e privata che contraddistingueva l’economia italiana e che ne aveva accompagnato i decenni di maggiore espansione, sia pure tra luci e ombre. E assieme è venuto meno il nesso, ben chiaro ai costituenti, tra proprietà pubblica ed esigibilità di diritti costituzionalmente riconosciuti, e quello, non meno importante, tra proprietà pubblica e governo dell’economia.

Un anno prima, con il Trattato di Maastricht, era entrato in vigore il più formidabile dispositivo istituzionale neoliberale del mondo: con esso era tra l’altro codificata direttamente la stabilità dei prezzi come obiettivo principale della politica economica (cui tutti gli altri devono essere subordinati) e addirittura come unico obiettivo della banca centrale (a differenza di quanto previsto per le maggiori altre banche centrali, a cominciare da quella statunitense); coerentemente, dumping fiscale e (soprattutto) dumping sociale venivano eretti a principali strumenti per il recupero della competitività tra gli Stati dell’Unione (sulla contraddizione così prodottasi tra i Trattati europei e la nostra Costituzione rinvio a Giacché 2015).

Le tappe successive a Maastricht nella costruzione istituzionale dell’Unione Europea possono essere così sintetizzate in breve. Dapprima il tentativo di elevare i Trattati al rango di una vera e propria Costituzione europea (drammaticamente regressiva rispetto alla Costituzione della Repubblica italiana), tentativo fallito a seguito della sonora bocciatura del relativo referendum svoltosi negli unici 2 paesi europei (Francia e Olanda) il cui ordinamento ne imponeva lo svolgimento. Poi, il travaso della quasi totalità dei suoi contenuti nel cosiddetto Trattato di Lisbona del 2005.

 

4. La crisi e il revival dello Stato. Tornare alla Costituzione

Appena 2 anni dopo, a partire dagli Stati Uniti, scoppia la crisi che in pochi mesi finirà per investire in pieno anche l’Unione Europea. La crisi determina una riscoperta “pratica” del ruolo dell’intervento pubblico nell’economia, ad almeno tre livelli:

  • la stabilizzazione dell’economia a opera dello Stato gioca un ruolo fondamentale, alla luce dell’evidente incapacità del mercato di svolgere tale ruolo (Pauly 2015 passim);
  • l’implosione della finanza mondiale viene impedita con una socializzazione delle perdite che non conosce precedenti storici per dimensione. E qui succede una cosa interessante: la disciplina europea sugli aiuti di Stato viene di fatto sospesa (cioè ignorata), per consentire salvataggi la cui entità nel 2013 era stata stimata in 1.600 miliardi di euro – un record mondiale (cfr. Frühauf 2013);
  • infine, politiche monetarie espansive delle banche centrali anch’esse senza precedenti per entità: tassi a zero (ma negativi in termini reali) e ampliamento dei bilanci delle banche centrali con acquisto di azioni e obbligazioni (pubbliche e private) per far ripartire i mercati.

Insomma, dopo la crisi scopriamo quello che qualcuno in verità aveva già dimostrato prima del suo scoppio: la globalizzazione richiede non meno, ma più Stato (Epifani/Gancia 2007). Questa (ri)scoperta avviene ora per due vie: da una parte le manovre di contenimento della crisi che abbiamo visto sopra, dall’altra il fatto che il successo economico di molti paesi non occidentali negli ultimi decenni è legato, secondo un’opinione che si va diffondendo anche in sedi insospettabili, a un redivivo “capitalismo di Stato” (Wooldridge 2012, Kurlantzick 2016).

Recentemente anche Paul Krugman ha rilanciato l’economia mista con queste parole: “continuano a esserci ragioni molto valide per sostenere l’opportunità di un’economia mista, e la proprietà e il controllo pubblico potrebbero essere una componente importante, anche se non maggioritaria, di questa miscela” (Krugman 2019). Krugman pensa a un’economia mista in cui un terzo dell’economia sia controllata dallo Stato, e per altri due terzi sia “capitalista” (ossia composta da imprese private). In questo quadro, la parte statale dell’economia riguarderebbe beni pubblici quali istruzione, sanità, assistenza sociale, servizi pubblici, assicurazioni sanitarie.

Forse Krugman non lo sa, ma un pensatore vicino alla socialdemocrazia austriaca, Rudolf Goldscheid, già nella primavera del 1917 (quindi prima della Rivoluzione d’Ottobre) definì il “capitalismo di Stato” – da lui ritenuto necessario in una prospettiva postbellica – proprio in base al criterio del possesso di più di un terzo dei mezzi di produzione da parte dello Stato (Goldscheid 1917: 34 sgg.); e la definizione di “Paesi a capitalismo di Stato” data recentemente da Kurlantzick si basa sul medesimo criterio (Kurlantzick 2016: 9).

L’importanza dello stesso dibattito sui beni comuni risiede precisamente nel fatto che anch’esso contesta il fondamentalismo di mercato. È dubbio, per contro, che tale concetto individui sic et simpliciter una sorta di “soluzione intermedia” tra Stato e mercato, come ritengono alcuni suoi sostenitori (così Termini 2016: 39).

Comunque la si pensi su questo punto, una cosa è certa: anche in relazione ai diritti di proprietà e alle forme di proprietà possiamo constatare una contraddizione insanabile tra Costituzione e Trattati europei e il progressivo allontanarsi della legislazione del nostro paese dal percorso tracciato dalla Costituzione.

È tempo di affrontare entrambi i problemi, sapendo che sono due facce della stessa medaglia.


Bibliografia:
Archibugi, F., Planning Theory. From the political Debate to the Methodological Reconstruction, Springer-Verlag Italia, Milano, 2008
Artoni, R. (a cura di), Storia dell’IRI. 4. Crisi e privatizzazione, Roma-Bari, Laterza, 2013
Ciocca, P. (a cura di), Storia dell’IRI. 6. L’IRI nella economia italiana, Roma-Bari, Laterza, 2015
Epifani, P. e G. Gancia, “On Globalization and the Growth of Governments”, CEPR DIscussion Paper No.6065, gennaio 2007
Frühauf, M., “Teuer für den Steuerzahler: Milliardengrab Bankenrettung”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 16 agosto 2013
Giacché, V., Costituzione italiana contro trattati europei. Il conflitto inevitabile, Reggio Emilia, Imprimatur, 2015
Goldscheid, R. Staatssozialismus oder Staatskapitasmus. Ein finanzsoziologischer Beitrag zur Lösung des Staasschulden-Problems, Wien-Leipzig, Anzengruber-Verlag Brüder Suschitzky, Vierte und Fünfte Auflage, 1917
Krugman, P., “Economia mista per migliorare il capitalismo”, Il Sole 24 ore, 3 gennaio 2019
Kurlantzick, J., State Capitalism: How the Return of Statism is Transforming the World, Oxford, Oxford University Press, 2016
A. Lauterbach, A. Economic security and individual freedom (1948), tr. it. Libertà e pianificazione, Rocca S. Casciano, Cappelli, 1957
Pauly R., Ökonomische Instabilität und staatliche Stabilisierung. Auf dem Weg der Krisen zum Staatskapitalismus, Wiesbaden, Springer Gabler, 2015
Termini, V. “Beni comuni, beni pubblici. Oltre la dicotomia Stato-mercato”, in P. Ciocca, I. Musu (a cura di), Il sistema imperfetto. Difetti del mercato, risposte dello Stato, Roma, Luiss University Press, 2016, pp. 17-45
von Plitzko, A., Planung ohne Planwirtschaft. Frankfurter Gespräch der List Gesellschaft, 7.-9. Juni 1963, hrsg. von A. Plitzko, Basel – Tübingen, Kyklos-Verlag – J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 1964
Wilson T., Planning and Growth, London, Macmillan, 1964
Wooldridge, A., “The Visible Hand”, The Economist, Special Report, 21 gennaio 2012

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Vincesko
Monday, 25 March 2019 10:06
Citazione: "Un anno prima, con il Trattato di Maastricht, era entrato in vigore il più formidabile dispositivo istituzionale neoliberale del mondo: con esso era tra l’altro codificata direttamente la stabilità dei prezzi come obiettivo principale della politica economica (cui tutti gli altri devono essere subordinati) e addirittura come unico obiettivo della banca centrale (a differenza di quanto previsto per le maggiori altre banche centrali, a cominciare da quella statunitense);".

Il prof. Giacché non conosce bene né i Trattati, né lo statuto BCE.
1. La stabilità dei prezzi non è “codificata come obiettivo principale della politica economica”, ma della politica monetaria, attribuita in via esclusiva alla BCE.
2. La stabilità dei prezzi non è l’unico obiettivo della BCE, come si seduce facilissimamente fin dal titolo dell’art. 2 Statuto BCE, di cui – vista l’ignoranza quasi universale - ho fatto un esame accurato nel mio libro “Le violazione statutarie della BCE”.
3. La stabilità dei prezzi entra a far parte dei obiettivi dell'UE soltanto col Trattato di Lisbona, ma certamente non è obiettivo principale, ma un mero sub-obiettivo, finalizzato alla missione dell’UE statuita dal fondamentale art. 3 del TUE: piena occupazione e progresso sociale.

Statuto BCE
L
e regole statutarie della BCE sono mutuate dai Trattati UE (ad esempio gli obiettivi, art. 2, dagli artt. 127 e 282 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, acronimo TFUE), perciò hanno valore cogente sia per la BCE che per tutti gli altri membri e organi dell’UE. Quindi inscrivere altri obiettivi nel mandato della BCE esige la modifica dei Trattati e perciò l’unanimità. Lo Statuto BCE, protocollo 4, infatti, include le modifiche ai Trattati intervenute col trattato di Lisbona.
Ma è difficilissimo cambiarle, sia perché è necessaria l’unanimità tra Paesi con interessi divergenti, sia perché le regole statutarie della BCE sono, storicamente, il frutto di un compromesso sull’adozione della moneta unica, prima politico tra la Francia e la Germania, e poi tecnico, impostato abilmente dalla Commissione europea Delors, gestito dal comitato dei governatori delle banche centrali, che suggerirono di adottare le regole più severe, quelle della Bundesbank, la banca centrale della Germania (vedi l’interessante ricostruzione fatta dal politico ed economista Giorgio La Malfa «Deficit – Il punto sull’Europa tra sogno e realtà» - Seconda parte) [Attenzione: il video comincia a 52’51”, portare il cursore all’inizio del video].
L’obliterazione dell’obiettivo subordinato risale a quel peccato originale. Bisogna, però, anche dire che per fortuna non riuscirono del tutto a copiare il testo dello statuto della Bundesbank e a incollarlo su quello della BCE.
Ancor meno ciò avvenne nei Trattati se la stabilità dei prezzi – con buona pace di Draghi e degli altri esponenti della BCE, in primis il potente presidente della Bundesbank, Jens Weidmann - vi entra soltanto con il Trattato di Lisbona,[14] finalizzato grazie al forte impegno e sotto la presidenza tedesca del Consiglio Europeo (2007, con decorrenza dicembre 2009), che gli impresse una forte impronta e riuscì a introdurvi anche il principio ordoliberista – invero lessicalmente ambiguo e fuorviante - della «economia sociale di mercato» (cfr. l’art. 3 del Trattato dell’Unione Europea, acronimo TUE). […]
1.1 Obiettivi
«Articolo 2-Obiettivi Conformemente agli articoli 127, paragrafo 1 e 282, paragrafo 2, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, l’obiettivo principale del SEBC è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, esso sostiene le politiche economiche generali dell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell’articolo 3 del trattato sull’Unione europea. Il SEBC agisce in conformità del principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza, favorendo un’efficace allocazione delle risorse, e rispettando i principi di cui all’articolo 119 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.»[15]
L
o statuto della Bce, come si deduce già dal titolo dell’articolo 2, stabilisce due obiettivi, non uno soltanto, come si crede, ma, a differenza della FED, essi sono in rapporto duale-gerarchico tra loro (tale clausola fu imposta dalla Germania come condizione per aderire all’Euro, si veda la nota 17), però, secondo alcuni studiosi, tale rapporto non andrebbe applicato meccanicamente, ma distinguendo tra target inflazionistico nel breve o nel lungo periodo.
Il primo obiettivo è la stabilità dei prezzi, «sotto, ma vicino, al 2%». Il secondo obiettivo è stabilito nel medesimo articolo 2 dello statuto: «Fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi», la Bce «sostiene le politiche economiche generali dell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell’articolo 3 del Trattato sull’Unione europea». Tra questi, i principali sono una «crescita economica equilibrata», la «piena occupazione» e il «progresso sociale»:
«Art. 3. […] L’Unione instaura un mercato interno. Si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente.»[14]
Ne discende che, in deflazione o con tasso d’inflazione sensibilmente inferiore al target (poco sotto il 2%), la condizione sospensiva («fatto salvo» - «without prejudice», nella versione inglese -), costituita dal raggiungimento dell’obiettivo principale, è (più che) soddisfatta, quindi il rapporto duale-gerarchico tra i due obiettivi si modifica e diventa, come per la FED, paritario: pertanto, la BCE è obbligata dal suo statuto (art. 2) a sostenere il raggiungimento del secondo obiettivo - «crescita economica» e «piena occupazione» -, il quale – poiché l’inflazione dell’Eurozona è stata per cinque anni sotto zero (deflazione) o prossima allo zero o molto sotto il target, che rende necessaria una politica monetaria espansiva – è del tutto concordante, convergente e complementare con l’obiettivo principale, che è quello di riportare l’inflazione, da sotto zero o quasi zero o molto inferiore, a poco sotto il 2%.

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Eros Barone
Sunday, 24 March 2019 21:55
Per mostrare la distanza esistente tra il marxismo rivoluzionario e il riformismo socialdemocratico di Vladimiro Giacché basta considerare un classico 'topos' del secondo, cioè il tema della programmazione democratica dello sviluppo economico. Tale 'topos' include un elemento politico estremamente pericoloso, perché tende a sostenere che la classe operaia deve abbandonare la lotta per la conquista rivoluzionaria del potere e deve fare sua l’esigenza di tornare a quel modello di 'Welfare State' che la borghesia ha utilizzato per decenni come meccanismo di accumulazione e di sviluppo
capitalistico, nonché come espediente per far fronte al
socialismo in ascesa. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il socialismo scientifico. Il "socialismo" di cui parla Giacché è semplicemente capitalismo controllato e democratizzato, che assicura la sopravvivenza
delle basi capitalistiche e lascia campo libero agli
elementi capitalisti, alla concorrenza, al plusvalore
e al profitto. Giacché, da buon revisionista e riformista, non punta ad abbattere il capitalismo, non vuole la rivoluzione proletaria e la dittatura del proletariato, non
aspira all’abolizione delle classi sociali, ma solo
a porre qualche rimedio alle ingiustizie sociali per
garantire la sopravvivenza del modo di produzione
capitalistico e dello sfruttamento della classe operaia.
In realtà, abbiamo a che fare con un'utopia piccolo-borghese, tipica di tutti i rappresentanti dell’opportunismo che concepiscono la democrazia al di sopra delle classi.
In questo senso, la "mitologia" della Costituzione è funzionale all'opzione revisionista e riformista. Nulla di nuovo, dunque, se non la solita, stantia ripetizione dei luoghi comuni del revisionismo togliattiano, con il richiamo canonico al significato (miracolistico!) dell'articolo 3 della Costituzione. Sennonché come è pensabile che la liberazione del proletariato dalle catene dello sfruttamento capitalistico possa realizzarsi attraverso una carta costituzionale borghese, che sancisce e tutela la proprietà
privata dei mezzi di produzione, il mercato capitalistico, la compravendita della forza-lavoro, lo sfruttamento del lavoro salariato e l’apparato statale borghese di coercizione? L'ombra di Bernstein e di Kautsky si stende pertanto sulle classiche posizioni già battute in breccia da Lenin in scritti di importanza basilare come "Stato e rivoluzione" e "La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky". Del resto, è quanto mai significativo che le “illusioni costituzionali” e la via “pacifica” al socialismo vengano riproposte proprio oggi, mentre infuria la crisi del sistema imperialista, il periodo di evoluzione pacifica del capitalismo sta volgendo al termine e l’attuale società borghese si presenta gravida di rivoluzione. Ecco perché chiarire la reale sostanza delle posizioni espresse in questo articolo e imparare a distinguere i fiori profumati dalle erbe velenose è oggi indispensabile soprattutto per le giovani e giovanissime generazioni che, attraverso le loro esperienze di lotta, cominciano ad avvicinarsi a posizioni rivoluzionarie.
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