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Italicum, il dietrofront che Renzi non può fare
di Leonardo Mazzei
Adesso alcuni si aspettano da Renzi una qualche novità, qualche aggiustamento tattico, qualche ripensamento. In molti credono che il piatto forte potrebbe essere la rimessa in discussione dell'Italicum, come preme alla sinistra Pd. Scordatevelo. Non solo perché tutto ciò non è nelle corde del personaggio, ma soprattutto perché è oramai troppo tardi. Essendosi spinto troppo avanti, Renzi non può fare oggi un dietrofront così smaccato senza perdere completamente la faccia.
Venerdì si terrà la direzione del Pd, un luogo assai pittoresco dove il ducetto provoca e sfida gli avversari interni. I quali solitamente non sanno far di meglio che mettere in mostra la vocina timorosa di un Cuperlo, alternata alla faccina insicura di uno Speranza. Della natura da avanspettacolo di questo organismo ha parlato ieri anche Massimo D'Alema, in un'intervista già brillantemente commentata da Piemme. In ogni caso non è dalla sinistra piddina che verranno cose importanti.
Domandiamoci piuttosto quale sarà la mossa del presidente del consiglio di fronte alla debacle dei ballottaggi di domenica scorsa. A rischio di una rapida smentita, avanzo una risposta assai semplice: Renzi dirà che ci "vuole più Renzi". Può sembrare una battuta, ma non lo è. Certo, da imbonitore consumato qual è, ammetterà (come ha fatto ieri) qualche problema, dirà che "il Pd si deve aprire di più", che "deve ascoltare maggiormente i cittadini".
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Un testo cinese: “Lettera a una professoressa”
di Elvio Fachinelli
Dalla silloge di scritti politici di Elvio Fachinelli Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989) curata da Dario Borso per Derive e Approdi pubblichiamo, ringraziando l’editore per la cortesia, la recensione di Fachinelli a Lettera a una professoressa, originariamente apparsa sui “Quaderni piacentini” del luglio 1967
Un testo cinese. L’autore del libro di cui parlo è collettivo, Scuola di Barbiana, il titolo Lettera a una professoressa. L’appellativo: cinese, è più provocatorio, e meno indeterminato, di quel che può parere a prima vista. Se il libro non mi fosse capitato tra le mani per caso, e non temessi la mia disinformazione, oserei persino scrivere: il primo testo cinese del nostro paese. Penso che i motivi della denominazione – diversi ma non in contrasto fra loro, e tutti presenti, qui e ora – si andranno chiarendo man mano.
In forma di brevi capitoletti, accompagnati e spesso commentati da sottotitoli, senza grande ordine apparente, e con molte note esplicative, il libro è opera dei ragazzi-scolari, dei ragazzi-maestri e del loro maestro comune, don Lorenzo Milani, della scuola di un paese toscano, Barbiana di Vicchio nel Mugello. Notare le numerose stranezze del fatto. Il punto di vista da cui partono, da cui esaminano il mondo, è altrettanto strano: il ragazzo contadino, e anche operaio, bocciato a scuola.
Entriamo il primo ottobre in una prima elementare. I ragazzi sono 32. A vederli sembrano eguali. In realtà c’è già dentro 5 ripetenti. [...] Prima di cominciare mancano già 3 ragazzi. La maestra non li conosce, ma sono già stati a scuola.
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Brexit, verso la de-globalizzazione
di Rodolfo Ricci
Ciò che era iniziato lo scorso anno in Grecia e che era stato stoppato col ricatto mafioso di Bruxelles e con l’ipocrisia dei governi di tutti gli altri paesi, si ripropone a distanza di un solo anno, in Gran Bretagna; stavolta non si tratta solo di dire no al memorandum della Troika, ma di uscire hic et nunc non dall’Euro, dove non era mai entrata, ma dall’Unione Europea; se si potesse fare rapidamente un referendum in ciascun paese è probabile che la maggioranza dei popoli europei si esprimerebbe nello stesso modo: fuori da questa Europa.
Che poi l’uscita dall’involucro neoliberista e mercantilista – imposto a suo tempo in una fase in cui le rispettive borghesie finanziarie e della rendita andavano d’accordo perché condividevano l’estorsione di valore praticata sul lavoro e sulla messa in concorrenza dei lavoratori – sia cavalcata dalle cosiddette destre populiste e xenofobe non è il centro della questione: ciò manifesta solo l’incapacità o la subalternità di prospettive alternative e “di sinistra” che hanno latitato qui come altrove.
Le socialdemocrazie europee sono state tra i primi e migliori artefici degli eventi che stiamo seguendo. La loro accondiscendenza alla chiamata alla fine della storia e all’offerta dei poteri multinazionali della globalizzazione di diventare classe dirigente privilegiata di questo processo è stata la variabile decisiva per lo scardinamento dell’idea di Europa come da tanti in più generazioni lo si era immaginato e ricorda non poco all’approccio interventista dei partiti socialisti nell’imminenza della prima guerra mondiale che distrusse l’idea di internazionalismo e le cui conseguenze sono note.
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La Grassa e i dominati
Il meccanico del marxismo
Gianni Petrosillo
C’è un giudizio ingeneroso e sommario che, da troppo tempo, aleggia sul pensiero di Gianfranco La Grassa. Quello per cui la sua teoria negherebbe, in maniera eccessivamente sbrigativa e sprezzante, la possibilità ai dominati di essere protagonisti di una trasformazione sociale nel/del sistema capitalistico. Così è anche secondo Augusto Illuminati che riprende, nella postfazione al libro (che vi consiglio) di Piotr Zygulski “La Grassa: il meccanico del marxismo” (Petite Plaisance), un parere del filosofo torinese Costanzo Preve:
“Preve, – dice Illuminati – proprio grazie al suo essenzialismo, coglie però il limite principale del suo interlocutore, 'il totale disprezzo per le azioni dei dominati e il solo ossessivo interesse per le azioni «strategiche» dei dominanti', che in effetti definisce un punto di forza dell’analisi sociale ma anche una radicale estraneità ai movimenti rivoluzionari, privando i dominati di qualsiasi praticabile transmodalità e speranza di riscatto. Non vogliamo rimproverare a La Grassa un limite effettuale di schieramento e tanto meno (come Preve) una debolezza filosofica, ma proprio un difetto di analisi, per il suo escludere il conflitto di classe dalla scena primaria della storia, relegandolo alla combattiva negoziazione tradeunionistica del salario. Non gli imputiamo, alla Preve, una teoria “aleatoria” del socialismo (Althusser aveva ben diversamente declinato tale assunto in favore della rivoluzione e della forma-movimento rispetto ai partiti), ma proprio che, di fatto, il cambiamento del modo di produzione venga escluso nella forma di un rinvio sine die o di una prospettiva catastrofista”.
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Scusate, ma non c'è rimedio
Zoltan Zigedy
Lawrence Summers è una superstar tra gli economisti borghesi. Ha ricoperto posizioni direttive alla Banca Mondiale, al Dipartimento del Tesoro USA e più di recente nell'amministrazione Obama. Oltre all'insegnamento ed agli incarichi amministrativi, ha svolto consulenze e collaborato con istituti finanziari. La sua consulenza è ricercata da governi e multinazionali. E non si è mai fatto intimidire dalle posizioni contrarie.
Fin dal crack del 2008, gli economisti mainstream hanno nascosto i loro peggiori timori per arrivare oggi a definire l'evento come un rallentamento insolitamente brusco del ciclo economico. Naturalmente gli economisti si dovevano arrampicare sui vetri per spiegare il collasso virtuale del settore finanziario, il panico e l'andare in fumo di migliaia di miliardi di dollari.
All'epoca, dominava una disperazione generalizzata, una sensazione diffusa di incombente tragedia. Ma, con una memoria corta, gli economisti hanno ricostruito l'evento come un severo, ma gestibile (e gestito) aggiustamento periodico del normale corso del capitalismo.
All'alba della crisi, i commentatori ammettevano una lenta "guarigione", ma tuttavia concordavano sul fatto che l'economia globale fosse rientrata in rotta.
Summers dissentiva da questa visione, come avrebbe dovuto.
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Finanza, inquinamento e capitalismo. Quale futuro?
di Spohn
L’ultimo libro scritto da Luciano Gallino prima della sua scomparsa (L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, spiegata ai nostri nipoti, Einaudi, Torino, 2015) fa parte di quelle indagini economiche e sociali che non negano le contraddizioni capitalistiche, pur non utilizzando a pieno gli strumenti di comprensione del materialismo storico e della critica all’economia politica di Karl Marx. Tuttavia, la questione ecologica e soprattutto le colpe dell’attuale situazione ambientale nel mondo non vengono imputate, come in genere si suol fare, a un generico e impalpabile responsabile collettivo quanto, invece, vengono ascritte direttamente alla cerchia capitalista che governa il mondo dell’industria e della finanza mondiale.
Sia l’approfondimento sulla cosiddetta «finanza del carbonio», sia la lettura classista su cui Gallino struttura, sulla falsariga di movimenti come Occupy, la contrapposizione tra un’élite mondiale del 1% e un proletariato del 99%, comunque privo della necessaria coscienza di classe, offrono però un grosso numero di spiegazioni sintetiche sulle dinamiche del capitalismo, sul ruolo e le funzioni della finanza, sul perché della crescita del debito pubblico e sui meccanismi tipici dell’irrazionalità di questo modo di produzione attuale.
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Traiettorie globali nella tradizione politica dell’operaismo
Antonio Negri da «Quaderni Rossi» e «Classe Operaia» a Empire1
di Elia Zaru
1. Gli operaisti e l’operaismo
L’esperienza dell’operaismo italiano è tra le più significative della storia politica e intellettuale dell’Italia repubblicana. Il fatto che nasca all’interno delle turbolente vicende che hanno interessato il movimento operaio dalla fine degli anni ’50 alla fine degli anni ’70 evidenzia la particolarità di quella che è stata definita la differenza italiana2. Secondo Michael Hardt
in Marx’s time revolutionary thought seemed to rely on three axes: German philosophy, English economics and French politics. In our time the axes have shifted so that, if we remain within the same Euro-American framework, revolutionary thinking might be said to draw on French philosophy, U.S. economics and Italian politics3.
L’operaismo costituisce uno dei fondamenti teorici di queste «Italian politics». Il pensiero operaista non può però essere considerato un insieme organico, ma, piuttosto, una coalescenza di esperienze soggettive animate da un desiderio collettivo: partecipare teoreticamente e praticamente al conflitto sociale in atto in Italia tra gli anni ’60 e gli anni ‘70.
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L'ottava guerra del "nobel per la pace"
E lo scoglio Eritrea
di Fulvio Grimaldi
“La storia della specie e ogni esperienza individuale trasudano prove che non è difficile uccidere una verità e che una bugia ben raccontata è immortale”. (Mark Twain)
“La libertà è stata perseguitata su tutto il globo; la ragione è stata fatta passare per ribellione; la schiavitù della paura ha reso gli uomini timorosi di pensare. Ma tale è l’irresistibile natura della verità che tutto ciò che chiede, tutto ciò che vuole, è la libertà di apparire” (Thomas Paine, 1791)
“E’ mai concepibile che una democrazia che ha rovesciato il sistema feudale e ha sconfitto sovrani possa arretrare davanti a bottegai e capitalisti?” (Alexis de Tocqueville)
C’è una resistenza, addirittura un’avanguardia? Regime change!
Si parte con una campagna di demonizzazione del leader e del suo regime. Si attivano per la bisogna Amnesty International, Human Rights Watch, Reporters Sans Frontieres, Medicins Sans Frontieres, Soros, house organs coperti, come “il manifesto”, Ong del posto o, in mancanza, del circondario. Cotti ben bene i neuroni di un’ampia opinione pubblica trasversale, ci si prova con una rivoluzione colorata. Se localmente difettano le basi materiali, umane, come nel caso dell’Eritrea, se ne inventa una esterna, della dissidenza in esilio, possibilmente a Washington e in mancanza di massa critica si fa un fischio alle presstitute e i media sopperiscono. Se poi tutto questo non fa vacillare il reprobo, valutata l’ipotesi di un approccio da dietro col sorriso, alla cubana, vietnamita o iraniana, e trovatola impraticabile di fronte all’ostinazione dell’interlocutore, si passa alle maniere forti: sanzioni per ammorbidire ogni resistenza popolare, suscitare lacerazioni sociali e malumori nei confronti dei vertici che preparino il terreno all’intervento armato. Diretto, perchè condotto con istruttori, armamenti, finanziamenti e forze speciali proprie, ma occultato dall’impiego visibile e teletrasmesso di sicari surrogati, tipo Isis o nazisti di Kiev. Nel caso in esame, etiopici.
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Cristoforo Colombo forever?
Per la critica delle attuali teorie della colonizzazione nel contesto del "Collasso della modernizzazione"
di Roswitha Scholz
In quest'articolo, Roswhita Scholz discute le recenti teorie della colonizzazione nel contesto del "Collasso della modernizzazione". Tali teorie hanno guadagnato slancio nel dibattito interno alla sinistra, almeno a partire dal crollo del 2007/2008. Secondo Klaus Dörre, l'assunto di base, nonostante tutte le differenze di ciascun approccio, è quello per cui il capitalismo ha bisogno di un esterno per poter continuare ad esistere. Assai spesso, si presuppone una "accumulazione primitiva" che si ripete successivamente. Quest'accumulazione non viene considerata limitata ai primordi del capitalismo, ma viene bensì dichiarata essere la legge centrale eterna del capitalismo. Scholz, in questo saggio, contrappone al teorema della colonizzazione, e alle corrispondenti ipotesi di una "accumulazione primitiva" permanente, la dinamica essenziale del capitale come "contraddizione in processo". Per evidenziare le differenze relative alla critica della dissociazione-valore, Scholz si focalizza sui concetti di colonizzazione di Klaus Dörre e di Silvia Federici - preminenti in Germania e non solo - a partire dai quali si può attribuire a Dörre un orientamento più sindacale e a Silvia Federici un orientamento più operaista-femminista. In questo contesto, l'articolo prosegue affrontando anche la dimensione delle attuali guerre civili mondiali, trascurata da Dörre e da Federici.
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Brexit!!!
Brexit e Lezioni di Democrazia
di Jacques Sapir
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"La Brexit può mettere a rischio anche l’euro”
L. Sappino intervista Emiliano Brancaccio
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Vittoria della destra nel referendum inglese e rimbecillimento della sinistra antieuropea
di Michele Nobile
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Brexit: rassegnatevi, il voto dei poveri e degli "ignoranti" conta quanto il vostro
Daniele Scalea
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Ma la Brexit è stata una sconfitta o una vittoria?
di Aldo Giannuli
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Heat or eat? Due appunti sul voto inglese
di Dodo
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Contorsioni logiche della sinistra europeista
di Militant
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Brexit: il vero smacco è che si riveli fruttuosa
di Alberto Bagnai
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Rilanciare l’economia europea? È possibile
Sergio Bruno
Thomas Fazi e Guido Iodice hanno avanzato una proposta per stimolare le economie europee attraverso investimenti pubblici finanziati in deficit. Ecco perchè potrebbe funzionare
Guido Iodice e Thomas Fazi (I&F), anticipando un articolo che comparirà sul Journal of Progressive Economy1 , hanno pubblicato una proposta molto interessante2 in merito alla possibilità di stimolare le economie europee attraverso investimenti pubblici finanziati in deficit.
Ciò che rende particolarmente interessante la proposta è che essa è organizzata in maniera tale da risultare “quasi fattibile” sul piano politico restando nello spirito delle regole stabilite dalla Commissione Europea e dalla Banca Centrale Europea (BCE). La proposta recupera in parte, e completa per altro verso, una simile fatta alla fine del 2011 da R.C.Koo, del Nomura Research Institute3 . I&F ritengono che se la BCE facesse sua la proposta in una delle sue possibili varianti ciò permetterebbe un notevole rilancio delle economie europee, limitando in tal modo il rischio di uscite dall’area Euro. Per essi c’è di più: tenuto conto dei vincoli politici, solo l’adozione di questo tipo di politiche “soft” potrebbe salvare l’Euro.
Fazi e Iodice partono dall’osservazione che le economie europee si trovano in una balance sheet recession (recessione da deterioramento dello stato patrimoniale).
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Perché tout le monde déteste le Parti Socialiste
di Jamila Mascat
Una lotta, per natura, non è un torneo amatoriale che possa concludersi per i contendenti con la soddisfazione di aver partecipato. Ancora meno nel caso della – tanto entusiasmante quanto estenuante – mobilitazione contro la Loi el Khomri che ha visto da quattro mesi a questa parte centinaia di migliaia di studenti, lavoratori, intermittenti e precari francesi dispiegare una quantità eccezionale di energie fisiche e morali per resistere alle pressioni, e soprattutto alla repressione, del governo Valls.
L’ultima grande giornata di sciopero nazionale interprofessionale, indetta dai sindacati tuttora contestatari lo scorso 14 giugno, è stata una sintesi paradigmatica, per quantità e qualità, dell’onda lunga di questo movimento. Un milione e 300mila persone in marcia in tutta la Francia secondo gli organizzatori, spezzoni compatti e rumorosi dei lavoratori che in queste settimane hanno riabitutato il paese al gusto un po’ retro della lotta di classe (uno per tutti quello dei portuali di Le Havre, a Parigi, che ha respinto le cariche dei celerini), centinaia di giovani fantasisti in testa alla parata parigina che dribblavano come potevano le granate scagliate dalla polizia, 1500 lacrimogeni lanciati solo nella capitale secondo Libération, centinaia di feriti da percosse e esplosioni (di cui uno molto grave la cui nuca bucata ha fatto tristemente il giro del web) stando alle stime di Streetmedics, le squadre mobili di volontari addetti al primo soccorso dei manifestanti.
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La storia terreno di scontro
Ottone Ovidi
Ci sono persone che con la loro vita incarnano lo spirito di un determinato tempo storico. Raccontare la vita di queste persone è oggi più che mai fondamentale. Per molto tempo i contemporanei hanno avuto l’abitudine di rivolgersi al passato, nel tentativo di cercare esempi di vita o ispirazione. Poteva avvenire sia per la costruzione di un immaginario legato al potere dominante, sia per la costruzione di immaginari “altri”, popolari e/o antagonisti. Negli ultimi decenni abbiamo però assistito al venir meno della capacità dei movimenti di classe o più genericamente di protesta di creare, attraverso battaglie culturali e/o politiche, un immaginario conflittuale in cui i singoli individui potessero riconoscersi, al di là dello specifico vissuto personale.
Allo stesso tempo la società neoliberista, sulla spinta della vittoria ottenuta contro i movimenti rivoluzionari e della pacificazione armata che è seguita in Europa, ha dimostrato ancora una volta la capacità della società del capitale di sussumere i modelli di vita delle sottoculture, in diversi modi a seconda del livello di resistenza di cui i diversi segmenti di popolazione erano portatori, di appropriarsene e metterli a valore, evitando così anche la possibilità che una loro politicizzazione potesse farli diventare pericolosi.
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Quanto è lungo un secolo?
Invito alla lettura di Giovanni Arrighi
di Vincenzo Marineo
Il lungo XX secolo di Giovanni Arrighi è, per il lettore non specialista, una occasione per allontanarsi dai nostri tempi, dalla loro supposta insistente novità, dalla crisi che sembra condizione permanente, per tornarvi avendo saputo che quello che sembra nuovo (e incomprensibile) non è poi davvero tale. Certo, bisogna avere una buona dose di curiosità per affrontare le sue 500 pagine; ma la constatazione della complessità delle cose che sono fuori dal libro, nel mondo, e la paura e l’insicurezza che quindi percepiamo, dovrebbero essere motivi sufficienti per provare a seguire chi ambiziosamente tenta discorsi all’altezza di quella complessità.
Fa crescere la curiosità la lettura della biografia di Arrighi, raccontata in una lunga intervista del 2009 (poco prima della sua scomparsa) con un interlocutore d’eccezione, David Harvey. Arrighi, a differenza di tanti altri scienziati sociali, ha lavorato: prima nell’azienda paterna, una piccola industria che produceva macchine (per il settore tessile, in seguito per riscaldamento e condizionamento); nello stesso settore operava l’azienda del nonno, presso la quale Arrighi ha raccolto i dati per la tesi in economia; infine ha lavorato presso una multinazionale, la Unilever. Queste esperienze, afferma, gli sono state utili per valutare criticamente la validità delle teorie economiche (“l’elegante equilibrio generale dei modelli neo-classici”, come osserva non senza ironia nell’intervista), e per comprendere la multiformità, la “plasticità”, del capitalismo. E anche, c’è da supporre, per districarsi tra i vari tipi di lavoro – utile, astratto, vivo, necessario, immediatamente sociale, immediatamente socializzato ecc. – che affollano le pagine del marxismo.
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Italian Theory?
di Lorenzo Chiesa
Che cos’è la cosiddetta “Italian Theory”? Per quali ragioni è diventata di recente così centrale in una serie di dibattiti ontologici e politici, soprattutto nel mondo anglofono, dibattiti che coinvolgono non soltanto la filosofia ma anche le scienze sociali? E anche: da dove proviene la sua spesso elusiva prossimità alla biopolitica, una politica per la quale, seguendo la definizione di Giorgio Agamben, “il potere non ha di fronte a sé che la pura vita biologica senza alcuna mediazione”?
In questo intervento intendo sondare criticamente il successo, ma anche i limiti, di tale fenomeno teorico e sociologico (significativamente denominato “Italian Theory” anche in italiano). Da un lato l’espressione “Italian Theory” rimane altamente problematica nonostante una serie di recenti tentativi di chiarimento (penso in primis al lavoro ammirevole di Roberto Esposito): è sia troppo generica, cercando di raggruppare sotto questa etichetta un’ampia gamma di posizioni che rimangono per lo più incompatibili, che troppo specifica, dato il connesso rischio di essere associata al tentativo di far risorgere un’idea, francamente datata, di filosofia “nazionale”. Dall’altro lato, è fuori dubbio che nel corso degli ultimi due decenni un numero crescente di pensatori italiani provenienti sia dalla filosofia che dalle scienze sociali sono diventati a ragione molto popolari all’estero.
Come spiegare questa inaspettata notorietà su scala globale? Si tratta forse di una specifica capacità nostrana di sperimentare nella pratica politica le filosofie della differenza originate in Francia nella seconda metà del ventesimo secolo?
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Il ruolo della Russia
di Spartaco A. Puttini
Negli ultimi anni è aumentata la tensione tra Usa e Russia e parallelamente si è sviluppata un'intensa campagna mediatica volta a dipingere un pericolo russo e, più in particolare, un “pericolo Putin”. Con varie sfumature i media occidentali di quasi ogni colore politico si sono fatti docile veicolo di input russofobi, la cui ricaduta principale, ne siano o meno coscienti, è quella di fare il coro ai tamburi di guerra che minacciano l'umanità. In realtà, per comprendere la politica estera di Mosca all’inizio del nuovo secolo occorre anzitutto tenere presente il contesto nel quale questa si inserisce.
Quale sfida abbiamo di fronte?
Con la fine della Guerra Fredda e la dissoluzione del blocco sovietico gli Stati Uniti sono rimasti l’unica vera superpotenza. Il mondo, privo di contrappesi, pareva ai loro piedi. In quel contesto, sotto l’Amministrazione di Bush senior, Washington formulò l’ambizioso progetto di costruire un “Nuovo Ordine Mondiale” unipolare. Da allora gli Usa hanno perseguito con lucida determinazione l’obiettivo di imporre al resto del mondo la loro indiscutibile egemonia. Le scelte strategiche compiute dagli Stati Uniti nel corso degli ultimi 20 anni, qualsiasi siano state le motivazioni ufficiali addotte, sono state dettate dal tentativo di garantire a Washington un dominio a pieno spettro sulle altre civiltà del pianeta.
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Alea iacta est. La capitolazione della sinistra di fronte alla storia
di Militant
Quello che è successo ieri in Inghilterra è un fatto politico enorme, che porta con sé una carica oggettiva, difficile da interpretare a caldo, ma che ci dice senz’altro una cosa incontrovertibile: si è aperta una grande falla sul Titanic della Ue. Una falla difficile da arginare anche per il suo carattere immediatamente simbolico. La Brexit assume un valore emblematico decisivo: è possibile rompere le maglie di questa gabbia del governo oligarchico-tecnocratico, espressione diretta degli interessi del capitale transnazionale, causa della tragedia collettiva che le masse popolari europee stanno vivendo da almeno quindici anni.
Per ricordare un evento così significativo bisogna tornare indietro a quel 5 luglio di un anno fa, quando il popolo greco bocciò il memorandum imposto dalla Troika, un referendum voluto dal governo Tsipras appena insediatosi, e che nemmeno una settimana dopo fu tradito dalla vergognosa capitolazione da parte dello stesso governo “riformista”. Quella sconfitta si era fatta sentire e aveva chiuso una finestra di possibilità difficilmente riproducibile nel breve periodo. La storia, come evidente, va però avanti lo stesso.
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Torino 2016, l'invincibile armata, gli "utili idioti", il cretinismo extraparlamentare e la zavorra sindacale
di Cesare Allara
La botta presa dal PD domenica scorsa è di quelle storiche. Il risultato di Roma era abbastanza scontato dopo decine d’anni di amministrazioni corrotte, dopo Mafia Capitale e la defenestrazione voluta da Renzi dello spaesato Marino.
Il risultato più sorprendente da analizzare è però quello di Torino.
Dove dal 2011, anno dell’esordio in Consiglio Comunale con due consiglieri, il M5S ha costruito meticolosamente giorno dopo giorno la vittoria cercando soprattutto di dividere, erodere quel consolidato blocco sociale che per decenni ha consentito alla “sinistra” torinese e alle sue clientele di dominare la città. Blocco sociale, meglio ricordarlo, che riusciva a tenere assieme gli interessi di FIAT, di Banca San Paolo, del Collegio Costruttori, fino all’operaio iscritto al PCI-PDS-DS-PD, al pensionato inquadrato nelle truppe cammellate di quella vera e propria setta chiamata SPI-CGIL, e agli “utili idioti” che pensano ancora al PD come partito della classe operaia: una invincibile armata, fino a qualche giorno fa.
Le giunte di “sinistra” che si sono succedute (Castellani, Chiamparino, Fassino) si sono solo e sempre occupate ovviamente di compiacere gli anelli forti di quel blocco sociale: Marchionne, e colui che è stato il vero dominus di Torino, Enrico Salza ex presidente di Intesa-San Paolo che qualche giorno prima del ballottaggio ha dichiarato: “Fassino non può non vincere, altrimenti finiscono Torino e il Piemonte” (La Stampa, 9 giugno).
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Meno crescita e più disuguaglianza
Effetti (straordinari) delle politiche neoliberiste secondo il FMI
Maurizio Franzini
Maurizio Franzini riflette su una recente pubblicazione del Fondo Monetario Internazionale che ha avuto grande risonanza per il suo giudizio negativo su alcune politiche neoliberisti sostenute in passato dallo stesso FMI. Franzini richiama l’attenzione sull’importanza delle tesi presentate e le collega a precedenti lavori dello stesso FMI sostenendo che, al di là dei problemi di coerenza di quest’ultimo, si viene componendo un quadro di conoscenze potenzialmente molto utile per andare oltre gli errori del passato
Jonathan Ostry – vicedirettore del Dipartimento economico del Fondo Monetario Internazionale formatosi a Oxford, alla London School of Economics e alla Università di Chicago – dopo avere prodotto, con diversi coautori, importanti studi empirici sul rapporto tra disuguaglianza e crescita, poche settimane fa ha pubblicato sulla rivista trimestrale del FMI, Finance and Development, un breve paper scritto con Prakash Loungani e Davide Ferceri, dal titolo Neoliberalism: Oversold? la cui principale conclusione è che alcune politiche distintive del neoliberismo – fortemente sostenute in passato dal FMI – hanno sortito effetti opposti a quelli che ci si attendeva.
Non sorprendentemente, il paper ha catturato l’attenzione dei media mondiali che lo hanno largamente interpretato come una smentita di se stesso da parte del FMI. Maurice Obstfeld, il capo economista del FMI, ha replicato a queste interpretazioni, parlando di evoluzione e non di rivoluzione del Fondo. Ciascuno potrà valutare quanto convincenti siano i suoi argomenti. Queste note non sono dedicate alla coerenza del FMI – che naturalmente non è questione di cui ci si possa disinteressare – ma ai contenuti del paper e al loro legame con precedenti analisi condotte dallo stesso Ostry con altri coautori.
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La roulette della storia*
di Giorgio Gattei e Roberto Sidoli
1. Critica delle critiche.
Contro la teoria dell’“effetto di sdoppiamento” si potrebbe però muovere l’obiezione che quell’effetto potrebbe esistere da sempre – e quindi durare per sempre. Non è vero. L’“effetto di sdoppiamento” ha preso ad agire nella storia solo dopo il 9000 a.C. quando, a seguito della “rivoluzione agricola” da un lato e della domesticazione degli animali dall’altro, ci si è assicurati la produzione sistematica e costante di un surplus accumulabile anche in forma privata, e non soltanto comunitaria, ed esso scomparirà in quella fase superiore della produzione sociale, da Marx denominata “comunismo”, in cui «con lo sviluppo omnilaterale degli individui saranno cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorreranno in tutta la loro pienezza... e la società potrà scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!»1. Questo risultato ultimativo, consentendo la piena soddisfazione dei bisogni sociali del genere umano (consumi, tempo libero, cultura e attività ludiche), disseccherà, almeno a livello di massa, la principale fonte d’alimentazione della “linea nera”, ossia la pretesa di gruppo di un’appropriazione “elitaria” di mezzi di produzione, beni di consumo e tempo libero (a meno che il genere umano non si autodistrugga in precedenza per l’impiego delle mostruose armi di sterminio attualmente a disposizione).
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L’economia neoclassica? Una pseudoscienza
conversazione con Francesco Sylos Labini
L’economia è una scienza? I modelli elaborati dagli attuali economisti neoclassici hanno lo stesso potere predittivo delle teorie fisiche? Sono domande importanti perché come i modelli dei fisici sono usati per costruire razzi che mandano in orbita satelliti che ci permettono di usare i nostri smartphones e internet, così i modelli degli economisti neoclassici sono usati dai politici per prendere decisioni che hanno conseguenze sui servizi pubblici, sull’economia reale e sulle nostre scelte di vita. A quanto emerge da una recente disamina l’economia neoclassica può essere classificata come pseudoscienza e comporta una serie di conseguenze negative a vari livelli: in politica, nella società, nella cultura e nella ricerca scientifica. Di questo si discute nell’intervista con il fisico Francesco Sylos Labini.
Un modello teorico che ambisca a diventare una spiegazione scientifica della realtà dovrebbe produrre predizioni su fatti nuovi che permettano di controllarne l’affidabilità ed eventualmente confutarlo. Il successo empirico è un buon indicatore, non certo infallibile, dell’alta probabilità che una teoria possa aver colto una qualche regolarità della realtà, e possa conseguentemente divenire utile per pianificare azioni sulla stessa realtà. Un modello ipotetico che abbia ambizioni esplicative ma che fallisca il controllo empirico dovrebbe essere abbandonato dai ricercatori, e questo solitamente avviene nelle scienze sperimentali. Talvolta è possibile aggiungere ipotesi ausiliarie, ad hoc, che temporaneamente coprano le falle della teoria, ma un eccessivo accumulo di queste anomalie è segno di scarsa salute della teoria stessa, che andrebbe sostituita con una più aggiornata. Capita tuttavia che una comunità scientifica si affezioni particolarmente a un modello esplicativo e si dimostri talvolta restia ad abbandonarlo, nonostante i suoi ripetuti fallimenti predittivi. Se le resistenze sono dovute a convinzioni arbitrarie derivanti da una determinata visione del mondo (Weltanschauung), e non da ragioni veramente scientifiche, la teoria difesa strenuamente assume i caratteri della pseudoscienza.
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«Una teoria generale del conflitto sociale»
Lotte di classe, marxismo e relazioni internazionali
Matteo Gargani intervista Domenico Losurdo
Rivolgeremo qui alcune domande a Domenico Losurdo, professore emerito presso l’Università degli Studi di Urbino, a partire dalle sue due più recenti pubblicazioni La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma–Bari 2013 (abbreviato “LC” e seguito dal numero di pagina dopo la virgola) e La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma 2014 (abbreviato “SA” e seguito dal numero di pagina dopo la virgola)
Gargani: Nel marxismo italiano, dal secondo dopoguerra, si possono – con le dovute cautele storiografiche – rintracciare tre filoni fondamentali. Il primo è quello storicista, ossia il canone interpretativo del PCI, impostato nelle sue linee essenziali da Togliatti e ispirato a una lettura di Gramsci quale culmine di un’ideale linea De Sanctis-Labriola-Croce. Il secondo è quello operaista, la cui simbolica data d’inizio può esser fatta risalire alla fondazione nel 1961 della rivista «Quaderni Rossi» e che ha annoverato tra le sue fila personalità differenti per formazione e provenienza politica come Tronti, Panzieri, Asor Rosa, Negri e Cacciari. Il terzo è quello del cosiddetto “dellavolpismo” che, attraverso soprattutto la produzione di della Volpe e Colletti, ha cercato di dare una lettura in chiave scientifica della Critica dell’economia politica di Marx, marginalizzandone la produzione giovanile e accentuandone allo stesso tempo la distanza da Hegel. In che modo ha letto Marx negli anni della sua formazione? Come colloca la sua interpretazione di Marx rispetto a questi tre filoni?
Losurdo: Non metterei sullo stesso piano i tre filoni. Il richiamo a Labriola e ancor prima al Risorgimento non impedisce a Togliatti di mettere l’accento sulla questione coloniale (ignorata da Labriola, che celebra l’espansione italiana in Libia) e di denunciare (con Lenin) la «barbara discriminazione tra le creature umane», propria del capitalismo e dello stesso liberalismo.
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[Francia] Rivoltare l’irreversibile
Una riflessione sugli scioperi francesi e sui nostri compiti
di Clash City Workers
#PARIGI: Siamo più di un milione!
“Siamo più di un milione, e precisamente un milione e trecentomila”. Questo il messaggio che i lavoratori francesi hanno saputo lanciare a chi – Governo, opinionisti, giornalisti – voleva rappresentare in esaurimento un movimento che da tre mesi blocca settori nevralgici a ripetizione, occupa regolarmente le prime pagine dei giornali e contribuisce al calo vertiginoso dei consensi dell’esecutivo socialista. Altri momenti di mobilitazione nazionale sono previsti per il 23 ed il 28 giugno, mentre chi prima era a bloccare le raffinerie continua ad impedire il “normale” funzionamento dell’economia, andando a coadiuvare gli operai dei centri di trattamento rifiuti, in sciopero anch’essi. Insomma, nessun ritorno alla pace sociale per la Francia, almeno finché il Governo non ritirerà legge, ora in discussione al Senato.
Poiché il movimento non si è affatto esaurito – come invece fu nel 2010, dopo l’approvazione della legge sulle pensioni di Sarkozy – il blocco dominante non può semplicemente puntare sul suo sfinimento, né solo sulle norme costituzionali di stampo gaullista, che permettono al Governo di bypassare l’Assemblea Costituzionale qualora lo ritenesse opportuno.
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Tecnologie, capitalismo e vie di fuga
di Giorgio Griziotti
Incontro-dibattito sul libro di Giorgio Griziotti Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga, (Mimesis, 2016), presso il Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa (Milano), 4 maggio 2016
Innanzitutto mi preme sottolineare che questo libro non è nato con l’intenzione di sviluppare un’elucubrazione teorica sulle tecnologie, o sul rapporto tra tecnologie e sociopolitica, ma quasi da un bisogno, scaturito da due inclinazioni personali: la passione per le tecnologie – ho studiato e lavorato tutta la vita in questo campo, soprattutto nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione – e quella politica. Facendo parte del lungo ‘68 italiano, termine che preferisco a quello degli ‘anni di piombo’ che viene propinato dai media mainstream, mi sono infatti trovato a riflettere e a cercare di capire qual è il nesso fra queste tecnologie e il contesto politico in cui viviamo.
Quando ho cominciato a interessarmi di politica erano gli anni in cui Berkeley, l’università e città californiana, era un doppio simbolo: da un lato la culla dei movimenti che negli Stati Uniti si battevano contro la guerra in Vietnam, dall’altro il luogo in cui nasceva quello che sarebbe poi divenuto il free software. È lì infatti che vengono create le prime versioni di Unix ‘open source’, precursore di Linux e del free software, ed è lì che sono state inventate le funzioni essenziali per connettere i computer a internet. Anche se la commessa veniva dal ministero della Difesa americano, che negli anni della guerra fredda era interessato a costruire una rete che potesse ricomporsi in caso di un evento atomico, la nascita di internet corrispondeva anche a un bisogno di quella generazione, che voleva comunicare e che lottava contro le forme d’imperialismo allora dominanti.
L’esperienza e il vissuto dei decenni che ho passato professionalmente nel campo di queste tecnologie mi hanno portato a riflettere sul ruolo della tecnica, che è da sempre una forma di mediazione con il mondo, con tutte le sue contraddizioni e biforcazioni.
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Capitale, tecnica e ideologia
Fabrizio Marchi
Il mio intervento al seminario “La ragione e la forza” promosso dalla Rete dei Comunisti e svoltosi a Roma sabato 18 giugno 2016
La relazione introduttiva ha un merito fondamentale, e cioè conferma un approccio analitico e un punto di vista di classe rispetto al contesto storico in cui ci troviamo. Questo può apparire scontato, specie per dei marxisti ma, a mio parere, oggi, in una fase di grande confusione ideologica come questa, dove la concezione (e relativa coscienza) di classe hanno subito un attacco massiccio fino ad essere state messe in discussione, ad essere concepite come dei relitti, dei reperti archeologici da consegnare ai musei e agli archivi della storia, non lo è affatto. E questo è un punto fermo, un discrimine che a mio parere è determinante per fare chiarezza. Pensiamo ad esempio ai cantori del presunto superamento del conflitto di classe (per lo più dell’area neoliberale e neoliberista ma non solo) e ai sostenitori (in parte gli stessi ma non solo, anche in questo caso) del presunto superamento delle categorie di “destra e di sinistra”. Ora, questo è un punto assai delicato perché non c’è alcun dubbio che allo stato delle cose le attuali declinazioni e determinazioni storiche e politiche della destra e della sinistra siano due facce dello stesso sistema capitalista che utilizza ora l’una e ora l’altra a seconda delle necessità. Anzi, la “sinistra” è oggi considerata per tante ragioni addirittura più funzionale per garantire la famosa “governance” tanto cara ai padroni del vapore, cioè al grande capitale trans e multinazionale che governa sul mondo.
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