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gliocchidellaguerra

“Trump come i sovietici e 1984”

Ma anche la Clinton non scherza

di Matteo Carnieletto

Alla fine, l’ennesimo libro di memorie di Hillary Clinton è uscito. Dopo Hard Choices, arriva in libreria What happened, un volume in cui l’ex candidata democratica spiega la debacle contro Donald Trump. Nel libro ci sono alcuni passaggi interessanti, soprattutto uno, che riguarda l’ormai arcinoto tema delle fake news, un’espressione che abbiamo imparato a conoscere durante l’ultima campagna elettorale americana. Fake news, ovvero notizie false, inventate, ma anche tendenziose, che avrebbero fatto vincere – almeno secondo alcuni media e la stessa Hillary – il candidato repubblicano.

In What happened, la Clinton scrive che “la guerra alla verità” di Trump è paragonabile a quanto accadeva in Unione Sovietica o in 1984 di George Orwell. Per chi non lo sapesse, “1984” è un romanzo distopico in cui si immagina un modo controllato completamente dal Grande Fratello e in cui la verità è osteggiata con ogni mezzo: “Sapere e non sapere; credere fermamente di dire verità sacrosante mentre si pronunciavano le menzogne più artefatte; ritenere contemporaneamente valide due opinioni che si annullano a vicenda; sapendole contraddittorie fra di loro e tuttavia credendo in entrambe, fare uso della logica contro la logica; rinnegare la morale propria nell’atto di rivendicarla; credere che la democrazia sia impossibile e nello stesso tempo vedere nel Partito l’unico suo garante”.

Per la Clinton, Trump sarebbe tutto questo. Trump e gli hacker russi, ovviamente. Il problema è che, secondo quanto ha fatto sapere Facebook, i fantomatici troll del Cremlino avrebbero speso “ben” centomila dollari, tra il 2015 e il 2016, per pubblicizzare 3300 annunci per “amplificare messaggi divisivi a livello sociale e politico attraverso l’intero spettro politico, su argomenti come le questioni Lgbt, gli immigranti e i diritti al porto d’armi”. Centomila euro per alterare i risultati delle elezioni e 470 troll. Un po’ poco per provare il Russiagate, lo scandalo del secolo (per approfondire: Per smontare il Russiagate bastano solo cinque punti).

Su una cosa la Clinton ha però ragione. Il tycoon è stato più bravo di lei durante tutta la campagna elettorale. Scrive Hillary: “Stavo conducendo una campagna presidenziale tradizionale mentre Trump conduceva un reality show televisivo che con esperienza e senza sosta aizzava la rabbia e il risentimento degli americani. Io tenevo discorsi in cui spiegavo come risolvere i problemi del Paese. Lui lanciava invettive su Twitter”. È vero: Trump ha condotto una sorta di reality: sui social era onnipresente, era lui a twittare (a volte pure un po’ a sproposito) e a parlare alla pancia degli americani. Ma perché lo faceva? Come mai il tycoon puntava così tanto sulle questioni legate all’immigrazione e alla dicotomia bianchi e neri? Perché la questione razziale sotto Obama era arrivata al suo apice. Sotto il primo presidente di colore della storia americana si verificavano alcuni tra i più eclatanti casi di razzismo, compiuti tra l’altro dalla polizia, ovvero da coloro che avrebbero dovuto vigilare affinché nessuno venisse discriminato.

Ma 1984 non è un libro adatto a Trump. O, almeno, non è adatto solamente a lui. La svolta americana in questo senso inizia con Colin Powell che sventola una fialetta piena di antracite. È la prova, o almeno così viene fatto credere, delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Gli americani invadono l’Iraq, ma non si trova nulla. Le armi non ci sono. È solo l’inizio.

Sotto l’amministrazione Obama la menzogna si fa ancora più forte e spudorata. Le primavere arabe vengono spacciate come un’occasione per portare libertà e democrazia in Nord Africa e Medio Oriente. Ma è l’ennesimo bluff. Il piano di Obama e la Clinton è quello di portare la Fratellanza Musulmana al potere. Si dice che Gheddafi stia sterminando i libici, e lo stesso stanno facendo Mubarak e Ben Ali. Ma non è vero. O, meglio, questa è solamente una parte del problema. Il vero obiettivo dell’amministrazione Obama è un cambio di regime. E la menzogna diventa fondamentale.

Chris Stevens è un nome che dice poco in Italia, ma che gli americani pronunciano con un certo orgoglio e con una punta di odio nei confronti di Hillary Clinton. Era l’ambasciatore americano a Bengasi, che è stato fatto fuori l’11 settembre del 2012 durante un attacco terroristico. Come mai si trovava lì? Aveva un compito, Chris. E gli era stato affidato dal segretario di Stato: dirottare le armi dei ribelli libici in Siria. La Clinton pianse per lui. Ma gli americani non le perdoneranno mai quella morte. Chi vi scrive nel 2016 era a New York, poco prima che la campagna elettorale entrasse nel vivo. Parlando con diversi elettori, anche democratici, mi sono spesso sentito dire questa frase: “Non posso votarla, è una guerrafondaia. E poi ha sulla coscienza Chris…”. Lo chiamavano così, senza cognome. Perché oramai era noto chi fosse.

Ma il ruolo della Clinton è stato fondamentale soprattutto con la cosiddetta primavera siriana. Da segretario di Stato (2009 – 2013), la Clinton ha vissuto i primi giorni di rivolta, fino allo scoppio della guerra civile. E la sua posizione è sempre stata al fianco dei ribelli – molti dei quali legati all’islam più radicale – e sempre contro Bashar Al Assad. Per avviare un’azione di guerra contro il presidente siriano si è ricorsi anche a vere e proprie fake news, quelle che tanto vanno oggi di moda. Pensiamo per esempio all’attacco chimico nella Ghouta. Millequattrocento persone uccise. Un massacro. Una delle pagine più brutte, se mai si può fare una classifica dell’orrore, del conflitto siriano. Tutti accusarono Assad di aver gasato il suo stesso popolo: “È stato lui. È il nuovo Hitler”, si leggeva. Il punto è che, molto probabilmente, a compiere quel crimine non è stato Assad. Lo ha ben spiegato il premio Pulitzer Seymour Hersh.

Trump è una reincarnazione del Grande Fratello di Orwell? No. Forse ne è una parte. A esser afflitto da questo morbo, attualmente, è l’America tutta, che vive uno dei momenti più difficili della sua storia. Hillary stessa ne fa parte, ma non se ne rende conto. E, questo, forse è il vero dramma americano.

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