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idiavoli

Big Data: l’alfabeto del capitalismo

di I Diavoli

È in atto una nuova rivoluzione industriale che ci sta riportando indietro, dall’età della borghesia al sistema feudale. La mutazione di paradigma dell’alfabeto del capitalismo estrattivo è impressionante. Quella che per Lacan era la struttura dell’inconscio, unità di produzione del desiderio, è oggi trasformata in valore dalle Big Tech, che prosperano monetizzando l’inconscio e i suoi desideri. Il dominio nella raccolta pubblicitaria – Facebook 9,3 miliardi di dollari nel primo trimestre 2017, +45% sullo scorso anno, Alphabet 26 miliardi, + 21% – è solo la cornice di quest’opera seriale alla Damien Hirst.

The only thing worse than “fake news” is “fake consensus” to be algorithmically enforced by a bunch of tech platforms, foundations, and NGOs

L’unica cosa peggiore delle “false notizie” è il “falso consenso” imposto tramite algoritmi da un manipolo di piattaforme tecnologiche, fondazioni e organizzazioni non governative.

Evgeny Morozov

Un giovanissimo David Lynch, nell’anno dell’assalto al cielo, gira il suo secondo cortometraggio. Lo fa dopo avere assistito agli incubi notturni della nipote. Alphabet (1968) è un video allucinato, dove si alternano grafica e stop motion, in cui le lettere dell’alfabeto urlate dalla bambina nella notte si trasformano in una spettrale catena di produzione messa al lavoro contro l’umano.

Mezzo secolo dopo Alphabet Inc., holding cui fanno capo Google Inc. e altre società controllate, fondata nel 2015 da Larry Page e Sergey Brin, è l’azienda di maggior valore al mondo: con 570 miliardi di dollari di capitalizzazione ha superato Apple, ferma a 535.

La mutazione di paradigma dell’alfabeto del capitalismo estrattivo è impressionante. Se dieci anni fa le Big Tech erano ExxonMobil, General Electric, Microsoft, CitiGroup, BP e Shell, oggi Alphabet, Amazon, Apple, Facebook e Microsoft dominano il mondo. Valgono da sole più del Pil della Gran Bretagna.

Quello che David Lynch aveva preconizzato con quarant’anni di anticipo – lungi dal voler rappresentare un’ipotetica età dell’oro di un linguaggio libero fantastico contrapposto a quello coercitivo della macchina – è esattamente questo: il linguaggio sarebbe presto diventato il sangue del lavoro vivo succhiato dal Dracula del capitale.

Quella che per Lacan era la struttura dell’inconscio, unità di produzione del desiderio, è oggi trasformata in valore dalle Big Tech, che prosperano monetizzando l’inconscio e i suoi desideri. Il dominio nella raccolta pubblicitaria – Facebook 9,3 miliardi di dollari nel primo trimestre 2017, +45% sullo scorso anno, Alphabet 26 miliardi, + 21% – è solo la cornice di quest’opera seriale alla Damien Hirst.

È il linguaggio di un nuovo capitalismo etico e compassionevole. O questa almeno è l’immagine che l’alfabeto vuole dare di sé. Quando invece è in atto una nuova rivoluzione industriale che ci sta riportando indietro, dall’età della borghesia al sistema feudale. Con buona pace di ogni visione teleologica della Storia.

Da una parte i social network sono presentati come la scintilla che fa detonare le arabe primavere e connette i focolai di rivolta, dall’altra, “inavvertitamente”, censurano le lotte contro gli oleodotti in Dakota. O le proteste del movimento Black Live Matters.

E se una volta le Big Tech erano solite sovvenzionare imprese caritatevoli, oggi sono tra i maggiori lobbysti politici, a Washington e non solo. Finanziano università, fondazioni, think tank, organizzazioni non governative. E chi all’interno di queste non si allinea, alza la testa, magari scrivendo che è giusta la multa per dumping fiscale, è “inavvertitamente” licenziato in tronco, come nel famoso caso della New America Foundation.

Alphabet è un alfabeto che non ammette lettere spurie.

In risposta, dato che è il linguaggio a creare il desiderio, e i padroni del linguaggio a decidere le aspirazioni, abbiamo tutta una serie di politici della nouvelle vague – facilmente identificabili in Francia, Italia, Canada – che cercano disperatamente di somigliare, nei modi e nei topoi linguistici, ai manager di Palo Alto. Nei loro discorsi, lo stato-azienda liberale è diventato una start up.

Fosse solo questo però, staremmo assistendo a un inevitabile mutamento di paradigma, determinato dal progresso e da nuovi modi di produzione. Nulla da temere.

Il passo indietro, che non prevede però i lungimiranti due passi avanti a seguire, è invece dato da una serie di Big Data che restituiscono la struttura feudale di queste aziende tecnologiche in termini di depauperamento del lavoro, costo e utilizzo della manodopera, sperequazione del profitto, sorveglianza, discriminazioni di genere.

Uno sfruttamento di classe che è accompagnato dalle riforme in ugual senso della politica – d’altronde lo Stato si sta oggi strutturando come un loft aziendale californiano – e che investe la nuda vita dell’intera popolazione.

Se nove lavoratori su dieci a Palo Alto sono assunti più o meno come i nostri collaboratori esterni a partita Iva e quindi privi di ogni diritto faticosamente conquistato, perché non devono esserlo tutti i dipendenti dello stato azienda? E così, concetti quali flessibilità, competizione, libertà (dalle tutele e dal welfare), eccedenza, diventano il mantra del nuovo riformismo.

E se è oramai assodato che un manager guadagna in un mese quanto i suoi dipendenti messi insieme non raggiungono in molteplici vite, sarebbe anche ora di cominciare a comprendere come queste Big Tech non producano posti di lavoro. Anzi.

Qualunque sia il tipo di contratto, gli assunti sono sempre meno. Solo le diseguaglianze aumentano.

Diseguaglianze che nella vita minima e sacrificabile del lavoratore assumono i  contorni di discriminazioni economiche, di genere, di condizioni di vita al limite dell’impossibile,

La stessa questione della web tax, una volta che il dumping fiscale e salariale è entrato nel diritto privato che regola gli interessi degli Stati, è la classica foglia di fico per nascondere le profonde distorsioni del capitalismo attuale.

Per tacere dell’altra enorme questione del contemporaneo, la sorveglianza, dove gli interessi delle Big Tech, delle aziende private e degli Stati coincidono in una folle corsa al panottico definitivo in cui geolocalizzazione, pubblicità ad hoc e intervento militare accadono nello stesso istante.

Per tornare a Morozov, uno dei più lucidi analisti dei guasti di questo tardo capitalismo estrattivo, “è oramai evidente che il più grande segreto di Silicon Valley – ovvero che i dati prodotti dagli utenti delle piattaforme tecnologiche hanno un valore economico di gran lunga superiore a quello dei servizi che si ricevono in cambio – è oramai svelato agli occhi di tutti”. L’alfabeto raccontato da Lynch ha creato una nuova élite di stampo feudale – visibile anche nel suo modo di occupare lo spazio fisico e abitare le città – che non solo minaccia la democrazia, ma il capitalismo stesso per come lo abbiamo conosciuto e immaginato.

“La ragione è molto semplice – chiosa ancora Morozov –, come possiamo aspettarci che un manipolo di aziende che estraggono capitale seguendo modelli reminiscenti dell’epoca feudale possano resuscitare il capitalismo globale e mettere all’opera un New Deal che calmieri l’avidità dei vecchi capitalisti, i quali non sono altro che gli investitori principali dietro queste compagnie?”.

A questa inversione a U della Storia, non si può rispondere rimpiangendo secoli passati di conflitti e concertazioni in ambito lavorista. Se il nuovo alfabeto è quello medievale delle cittadelle fortificate, a noi toccherà organizzarci costruendo nuove catapulte.

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