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Fake news, come la politica cerca di piegare i social network

di Claudio Messora

Ieri a Roma il senatore Nicola Morra (M5S) ha organizzato un convegno sulle Fake News, dal titolo “Ricerca della verità tra social media e strumenti educativi“. Tra i relatori, Laura Bononcini, responsabile per Facebook delle relazioni istituzionali (qui il suo intervento), Gianluigi Paragone, Gianluigi Nuzzi, Enrico Mentana, Sergio Rizzo, Gherardo Colombo ed altri.

Il convegno si inserisce in un momento storico determinante, che vede i social network dibattersi tra due fuochi: da una parte l’esigenza di non far fuggire i creatori di contenuti, ovvero gli utenti, che rappresentano la loro ricchezza, e dall’altra la necessità di rispondere alle pressioni della politica, che non riuscendo più a controllare il flusso delle informazioni attraverso il mero controllo delle televisioni, aggredisce la rete cercando di costringere i grossi player a rispondere alle sue richieste di rimozione di post e video, saltando una magistratura i cui tempi di intervento (insieme alle limitazioni giurisdizionali che portano le rogatorie internazionali ad infrangersi contro la normativa degli Stati Uniti d’America) non sembrano stare al passo con i tempi della tecnologia.

Ad aprire le danze era stata Hillary Clinton, reduce dalla cocente sconfitta contro Donald Trump: “le elezioni USA sono state taroccate dalla rete e bisogna fare qualcosa“. Specialmente dopo il successo inaspettato (per loro) della Brexit.

 Hillary chiama e il Parlamento Europeo a Bruxelles, e Laura Boldrini in Italia, rispondono, dando il via alla campagna che conia un neologismo (Fake News, appunto “notizie false”) per descrivere un fenomeno vecchio come il mondo. La rete passa da essere un prezioso e insostituibile strumento di libertà, quando permette a Obama di vincere, a una giungla di farneticazioni da reprimere, quando permette a Trump di vincere.

Gli argomenti che la politica usa contro i social network del resto sono più che persuasivi. Come preannunciato dalla Commissione Europea, dopo una risoluzione del Parlamento di Bruxelles che autorizzava l’utilizzo di mezzi e fondi per contrastare la “disinformazione in rete”, se Google e Facebook non si fossero adeguati, ne avrebbero “pagato” le conseguenze. Pagato nel vero senso della parola, vediamo perchè. 

È noto che i colossi del digitale made in Usa dichiarano di avere sedi di sola rappresentanza nei vari stati membri Ue. Questo escamotage fa sì che possano pagare pochissime tasse, di solito versate nei paradisi fiscali. Nel 2016, ad esempio, in Italia Facebook ha fatturato 9,3 milioni di euro ma ha pagato solo lo 0,26% di imposte. Amazon 146 milioni di euro, a fronte del 3,2% di tasse. Google 152 milioni, con il 47% di tasse (ma solo per via del patteggiamento con Agenzia delle Entrate sugli anni precedenti). Apple 44 milioni e l’8% di tasse. Twitter 5,1 milioni e ben lo 0,17% di tasse. Airbnb (the winner) 1,97 milioni con ben lo 0,06%. Bene: la promessa della Commissione Europea era che se i social network non si fossero adeguati alle richieste di controllo della politica, le tasse avrebbero iniziato a pagarle fino all’ultima lira.

Ad aprire le danze ci aveva pensato la Germania, con le elezioni politiche alle porte, il cui Parlamento (per tutelare le poltrone dopo il casino di Trump) ha approvato una legge che condanna Facebook al pagamento di 50 milioni di euro se non rimuove un post su segnalazione delle istituzioni entro 24 ore. Avete capito bene. Il Governo alza il telefono, e se Zuckerberg non censura subito deve pagare 50 milioni. La magistratura? Non pervenuta. Ma per i soloni della democrazia (quelli dei partiti democratici) va tutto bene. Nessuno ha protestato. Così possono alzare il telefono anche loro e far levare i “profili sgraditi“, per dirla con un espressione del Ministro della Giustizia Orlando (che poi ha voluto replicare personalmente a un mio live su Facebook che se ne occupava).

Con Google invece hanno usato una tecnica diversa. Un gruppo di multinazionali che investono abitualmente negli spot sulla piattaforma Youtube, la scorsa primavera ha ritirato i loro investimenti pubblicitari finchè Google non trovasse un sistema per penalizzare i video sgraditi, causando una perdita dell’8% circa del fatturato, ma soprattutto un danno di capitalizzazione in borsa che in dieci giorni, dal 17 al 27 marzo, è costata a Mountain View ben 22,6 miliardi.

Siccome 22,6  miliardi non sono noccioline neanche per Alphabet-Google, il giorno dopo Google, che evidentemente preferisce leggere le liste nere di Butac piuttosto che verificare di persona, toglie la monetizzazione mediante banner pubblicitari a questo blog. Il motivo ufficiale è un po’ imbarazzante e ve lo risparmio, anche perché qualunque violazione del contratto rivendicasse, si trattava di una presunta violazione che andava avanti indisturbata da dieci anni, e sarebbe proprio stata una curiosa coincidenza che venisse impugnata l’esatto giorno dopo in cui Google dichiara che per venire incontro ai suoi investitori toglierà la pubblicità ai siti sgraditi.

Neppure i Cinque Stelle Europa ci stanno, e chiedono lumi alla Commissione Europea, inviando un’interrogazione scritta a firma Tamburrano, Evi, Adinolfi, cui la commissione risponde con inusuale ritardo (oltre le canoniche 3 settimane) e con una supercazzola come se fosse antani, in cui ammettono che i social network si sono impegnati nei confronti della UE ad adottare un codice di condotta comune.

Youtube si spinge più in là, e oltre alla demonetizzazione istantanea di qualunque cosa respiri e appaia un pelino sotto agli standard del Mulino Bianco (l’hanno chiamata Adpocalypse), realizza un sistema di censura certosino: la modalità con restrizioni. Intere strutture aziendali, ministeri, scuole e milioni di famiglie possono preimpostare i loro pc in maniera che Youtube oscuri dai risultati delle ricerche – e neppure permetta di vedere – qualunque video che Youtube stessa decida non essere in linea con quello che loro intendono per “contenuto gradito agli investitori”. E nessuno può sbloccare il browser a meno che non intervenga un amministratore di sistema. Da quel momento, a meno che non si tratti di una video ricetta o di un tutorial sugli ultimi tipi di ombretti, ci sono potenzialmente milioni di persone che entrano su Youtube convinte di avere la libertà di vedere quello che vogliono, e non sanno di essere dentro una nuova Matrix.

Ma il bello deve ancora venire, perché la politica non è ancora soddisfatta. Pochi giorni fa Italia (per noi Padoan), Spagna, Germania e Francia siglano un accordo per un’iniziativa politica comune di tassazione dei colossi del web, la cosiddetta Web Tax (ci aveva provato Renzi ma poi aveva abbandonato). Londra e Commissione europea seguono a ruota. Ovviamente viene raccontata come una cosa buona e giusta, che sottrae ai social network e alle altre multinazionali del web guadagni illeciti. E potremmo anche essere d’accordo, se non fosse che non abbiamo l’anello al naso e lo scopo estorsivo di questa manovra di accerchiamento – stanti le premesse – appare del tutto chiaro.

E se ancora qualcuno coltivasse qualche dubbio residuo, ad estirparlo ci pensa Salvatore Sica, professore di Salerno e socio fondatore dell’Accademia Italiana del Codice di Internet, che ispira forse l’Internet Bill of Rights, la bozza di regolamentazione della rete in lavorazione alla Camera dei Deputati. Sica si spinge perfino, consapevole del rischio, ad auspicare che su internet si applichi il modello cinese, ovvero l’intervento definitivo del sistema che ha costretto Facebook a realizzare una versione del suo sito ad hoc, su misura per l’establishment cinese (notoriamente uno dei più liberali).

Ecco come finisce l’intervento di Salvatore Sica sul Mattino di Avellino del 12 settembre scorso, dal titolo “Perché regolare la rete è un dovere ineludibile“.

Considero la proposta di Web Tax recentemente avanzata da quattro paesi europei il primo passo per «stanare» gli Over the Top della Rete: importante, ma non sufficiente. Le mani vanno messe ancor più in profondità nelle loro tasche: è l’unico linguaggio che conoscono e l’unica via per averli compartecipi della prevenzione e della repressione dell’uso distorto del Web.

Forse, al termine di questa guerra avremo social network senza parolacce, volgarità, diffamazioni e senza notizie false. Così, gli unici che potranno continuare a diffondere mezze verità e talvolta vere e proprie bufale saranno i giornali e i telegiornali, con i soldi, le veline e le poltrone garantiti dalla politica. O forse sarà questa politica a non vivere abbastanza da riuscire a piegare la rete alle circolari ministeriali, e verrà spazzata via da una gigantesca ondata di indignazione popolare.

Come che sia, non cambierà molto: “la vita troverà un modo“, come disse il matematico Ian Malcolm nel primo Jurassic Park. Neppure il coprifuoco e la corte marziale impedirono che Radio Londra trasmettesse il suo segnale, e che in tanti rischiassero la vita per ascoltarlo, nascosti nelle cantine o dentro a stanze segrete. Figuriamoci se oggi el pueblo si fermerà per così poco.

La strada maestra per combattere la disinformazione non è dotarsi di leggi speciali, non è disseminare il web di semafori rossi e non è la compilazione di liste di proscrizione sempre più lunghe, ma è la cultura, è lo sviluppo della consapevolezza e della capacità critica che dovrebbe essere lo scopo dell’istruzione pubblica. Sfortunatamente, un popolo con gli strumenti per distinguere il vero dal falso si rivolgerebbe immediatamente contro questa classe politica e darebbe inizio a una implacabile rivendicazione dei suoi diritti. Ed è per questo che si continua a cianciare di “haters” e di “fake news“, ma non si fa niente per nobilitare l’animo umano ed innalzarne la capacità di analisi. Meglio avere eserciti di ignoranti da lasciare nella loro condizione di misera inferiorità, che dare loro gli strumenti per capire che sono servi e dire addio alle brioches che la buvette del Palazzo serve calde ogni mattina, sotto allo sfarzo dei soffitti e dei lampadari ottocenteschi.

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