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iltascabile

Byung-Chul Han, L’espulsione dell’Altro

di Matteo Moca*

Sono passati quasi quarant’anni dalla pubblicazione di La cultura del narcisismo di Christopher Lasch, un libro che si muoveva con uno sguardo sulla società così profondo e lungo da funzionare alla perfezione ancora oggi, e forse ancora di più oggi, come mezzo utile di lettura del mondo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive è il sottotitolo del libro di Lasch ed esplica in maniera assai precisa il movimento del pensiero del suo autore, che rintraccia in un individualismo esasperato e in un solipsismo irrefrenabile il motivo di fondo dei comportamenti umani. Contemporaneo all’altrettanto importante Il declino dell’uomo pubblico di Richard Sennett, le riflessioni di Lasch indussero il sociologo Touraine a parlare di “fine del sociale”, cioè di quel processo di disgregazione dei cardini su cui poggiava il vivere comune a favore dell’imposizione di criteri esclusivamente economici che non hanno potuto che portare al trionfo di un “individualismo disgregatore”.

Nel mezzo di tanta seriosa, ma giustificata, speculazione, sta poi un piccolo libro aureo, il divertente Il decennio dell’io di Tom Wolfe, capace di descrivere le mutazioni di un secolo che ha segnato il passaggio da “militanti in narcisi” e ha portato al culto esclusivo di sé, della propria immagine e, sopratutto, delle proprie ambizioni. L’ombra lunga di queste riflessioni nate durante la metà degli anni Settanta arriva fino alla nostra età contemporanea, vittima di un individualismo forte che non sembra, nella maniera più assoluta, scemare.

All’interno del dibattito contemporaneo, la figura del filosofo coreano Byung-Chul Han è quella che, con maggiore intelligenza e con spiccata capacità analitica, prosegue in maniera fruttuosa questo discorso immergendolo nelle pieghe della contemporaneità, cosa questa un po’ rara e che garantisce un interesse profondo nei confronti della sua opera. Han indaga i comportamenti sociali dell’uomo attraverso un’impostazione filosofica rigorosa, la cui padronanza permette un’ampiezza ed elasticità del discorso, e conseguente leggibilità. La casa editrice Nottetempo prosegue la traduzione della sua opera in Italia, praticamente in contemporanea con il tedesco, con L’espulsione dell’Altro. Società percezione e comunicazione oggi. Dopo La società della stanchezza del 2012 dove Han teorizzava l’individuo del nostro secolo come parte di una società di “prestazione”, un imprenditore di se stesso che quindi soffre di una competizione esagerata, e Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere dello scorso anno, dove il filosofo dimostrava come il controllo dell’uomo su se stesso minasse il vivere sociale a causa di un impegno esclusivo nella soddisfazione individuale, questo nuovo libro, tradotto e annotato con cura da Vittorio Tamaro, segna un ulteriore tassello in questa direzione e in parte un momento di non ritorno nel suo discorso filosofico.

Chi ha letto la sua opera individuerà in L’espulsione dell’Altro una sorta di summa dei diversi vettori del suo pensiero, come già il sottotitolo lascia intendere: sono qui riprese infatti le riflessioni che componevano il brillante e affilato Nello sciame. Visioni del digitale, dove venivano messi chiaramente in luce, al di fuori di qualsiasi nostalgico afflato, tutti i difetti del mondo digitale e trasparente (in La società della trasparenza invece è teorizzata l’esposizione completa delle informazioni nel mondo postcapitalista), mondo che finisce per annullare il soggetto in una folla anonima e isolata che rinuncia a ogni sua peculiarità. Le riflessioni, riprese ed ampliate in questo nuovo volume, sono molto dure quando vanno ad affrontare lo stordimento provocato dall’ipercomunicazione:

il frastuono della comunicazione non ci rende comunque meno soli. Anzi ci rende forse ancora più soli che in “Grata di linguaggio” [una poesia di Celan]. Dall’altra parte della grata c’è comunque sempre un tu, che custodisce ancora la vicinanza della lontananza. L’ipercomunicazione distrugge invece sia il tu sia la vicinanza, le relazioni sono sostituite dalle connessioni.

Se da questo breve estratto si carpisce in maniera immediata la posatezza e semplicità del linguaggio di Han, nello stesso tempo non si deve correre il rischio di etichettare il suo discorso come eccessivamente semplificato: tutto il pensiero di Han posa le sue basi sulla grande tradizione filosofica europea novecentesca, con riferimenti puntuali e precisi a Heidegger, Barthes, Baudrillard e Lévinas, per fare qualche esempio. Attraverso questi filosofi Han edifica un discorso che vede proprio negli eccessi di visibilità, nelle efflorescenze vuote e nella povertà di pensiero il modello anestetico che sta segnando la nostra contemporaneità. È da questo punto di vista che una ricostruzione storica del pensiero sul narcisismo trova in Han un’importante sponda per quanto concerne l’era digitale, un’era che anziché allargare la condivisione, paradossalmente, restringe gli orizzonti e divora le fondamenta del vivere comune. Ciò che però è il soggetto privilegiato del nuovo libro di Han, quello che come un filo rosso ne attraversa i vari capitoli, è la riflessione sull’Uguale:

Il terrore dell’Uguale investe oggi ogni ambito vitale. Si va dovunque senza mai fare esperienza. Si prende atto di tutto senza mai giungere a una conoscenza. Si ammassano informazioni e dati senza mai giungere a un sapere. Si bramano esperienze vissute ed emozioni eccitanti in cui però si resta sempre uguali. Si accumulano amici e follower senza mai incontrare veramente l’Altro.

L’Altro è stato soppiantato dall’Uguale, mezzo fondamentale per il dominio e l’annullamento, soprattutto se questo Uguale fa credere all’Io di essere autonomo e lo porta a una sovraesposizione irreale. Secondo Han l’intervento decisivo, in negativo, è quello della Rete che privilegia un arido sé e trasforma ogni uomo nell’imprenditore di se stesso, come ben messo in luce in Psicopolitica, permettendogli di ignorare la falsità di questi presupposti.

Le ricadute di un simile ragionamento non sono difficili da rintracciare anche nella nostra quotidianità: la rete non facilita l’incontro con gli altri, a favore di una comunicazione che si fa quasi totalmente digitale e trasforma le modalità di incontro in momenti sempre identici che portano a trovare l’Uguale, chi ha la stessa opinione, lasciando da parte i diversi e gli altri, costruendo quindi un orizzonte di esperienza sempre più stretto ed angusto. Diventa impossibile mettere a fuoco ciò che è vicino e ciò che è lontano perché tutto è ugualmente vicino e ugualmente lontano. Riprendendo le definizione di traccia e aura di Benjamin (“La traccia è l’apparizione di una vicinanza, per quanto possa essere lontano ciò che essa ha lasciato dietro di sé. L’aura è l’apparizione di una lontananza, per quanto possa essere vicino ciò che suscita”), Han scrive di come l’ipervicinanza e l’iperesposizione distruggono ogni lontananza “auratica”, privando la comunicazione della sua più radicale natura.

L’espulsione dell’Altro è dunque una preoccupata meditazione sul dilagare di quella che Han definisce “violenza dell’identico”. Il filosofo coreano indica con la sua ormai classica asciuttezza e precisione, e con un andamento aforistico che ricorda la struttura di Minima moralia di Adorno, uno dei suoi maestri, i sintomi di un male di cui l’individuo non si accorge, perché offuscato dall’inflazione di un Io onnipotente, sempre capace di riuscire e con nessuna possibilità di non raggiungere i suoi obiettivi. La posizione di Han non è però cattedratica, né una leziosa quanto innocua visione del futuro: L’espulsione dell’Altro, così come i suoi testi precedenti, è una prova di forza, il tentativo di costruire un itinerario filosofico che permetta di alleviare l’angoscia per un futuro altrimenti incapace di scartare dai binari odierni. Quella di Byung-Chul Han è dunque una metafisica che va ad investire l’interiorità di ognuno attraverso la presa in carico di un materiale filosofico che davvero può essere un viatico d’eccezione. “Il tempo in cui c’era l’Altro è passato” non è una semplice e provocatoria dichiarazione d’intenti, quanto uno spartiacque che segna la nostra contemporaneità e dalla cui spaccatura è necessario ripartire per riempire “l’adiposo vuoto di pienezza” di cui Han parla, colmare “la povertà dei mondi” dell’uomo, per dirla con Heidegger, e riavvicinarsi al mondo edenico e collettivo che vedeva nell’Altro l’unica possibile via ad una esistenza autentica.


 * Matteo Moca si è laureato in Italianistica all’Università di Bologna con una tesi su Landolfi e Beckett. Attualmente è dottorando in letteratura italiana e studia il surrealismo tra Bologna e Parigi. Collabora, tra gli altri, con Gli Asini, Blow Up, Alfabeta2, minimaetmoralia.

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