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micromega

Il sistema bancario internazionale dieci anni dopo la grande crisi

di Ugo Marani*

Il 15 settembre 2008 la banca d’investimento Lehman Brothers annuncia di volersi avvalere delle procedure del Bankrupty Code, dichiarando debiti bancari per 613 miliardi di dollari e debiti obbligazionari per 155 miliardi e dando inizio alla più vistosa bancarotta del capitalismo moderno e ai giorni che portarono, negli Stati Uniti dapprima e in tutto l’occidente successivamente, alla più grande operazione di salvataggio della storia.

Quegli avvenimenti, sia pure con notazioni critiche e accentuazioni diverse, sono stati ricostruiti nella loro drammatica completezza da una letteratura oramai sterminata che dell’accaduto ha approfondito responsabili, il sistema bancario e finanziario, espedienti, l’universo dei derivati finanziari, condotte, l’opacità e l’assenza di trasparenza nella gestione aziendale. A distanza di dieci anni, al sentimento di indignazione pubblica e alla minuziosità delle indagini rivelatrici pare subentrare un mesto ritorno dell’indagine economica a canoni tradizionali: sarebbe necessario, tuttavia, che le indagini che nell’ultimo decennio sono state condotte ci aiutino a capire quanto da quelle vicende è mutato e quanto, invece, ha mantenuto caratteri di continuità.

 

Qualche dato

Al centro dell’indagine va posto il fenomeno dell’integrazione finanziaria internazionale, nel nostro caso la propensione delle banche di investimento più rilevanti ad una gestione sovranazionale delle attività e delle passività, il cosiddetto cross-border banking, poiché la globalizzazione del sistema bancario aveva rappresentato una delle cause più evidenti della crisi manifestatasi nel 2008.

Da quella crisi i costi per i bilanci pubblici nazionali sotto forma di Financial Assistance alle banche, erogazioni varianti dal 5% del PIL statunitense al 40% di quello irlandese, hanno consentito una ripresa pressoché immediata delle attività “tradizionali”. Si è trattato, si badi bene, di una manovra di soccorso senza precedenti: misurata in miliardi di dollari e con un incidenza differente a seconda del volume dell’attivo, sono stati erogati, tra il 2008 e il 2013, finanziamenti pubblici diretti per 45 miliardi di dollari a Citigroup e Bank of America, 25 a JPMorgan Chase e Wells Fargo, 81.1 a Royal Bank of Scotland, 28.3 a Lloyds Banking, 21.4 a Allied Irish Banks, 18.2 a Commerzbank, 17 a Dexia, 15 a ING Bank,14 a Landesbank Baden-Wurttemberg, 10.8 a BNP Paribas e 10.8 a BNP Paribas Fortis.

Si intuisce come un simile sforzo delle finanze pubbliche, per una volta sottratte ai dettami dell’ortodossia finanziaria e dell’austerità, abbia consentito che i maggiori player internazionali, ad eccezione di Lehman Brother, siano rimasti sostanzialmente i medesimi del periodo pre-crisi, con una gestione del portafoglio diversificata tra Titoli, Azioni, Prestiti e Fusioni e Acquisizioni.

La costanza del ranking cela, tuttavia, profondi mutamenti riguardo le modalità con cui oggi si manifesta l’integrazione finanziaria internazionale, la profonda revisione delle quote tra paesi, l’ascesa di late comer nazionali, la propensione ad una differente gestione di portafoglio, le nuove vie di elusione della trasparenza.

Il fenomeno più rilevante da cui partire è costituito, di certo, dall’innegabile ridimensionamento relativo del global banking europeo dopo una fase di continuata crescita: dal 2000 al 2007 la consistenza dei loro asset sull’estero quadruplica quasi, rendendole le banche più globalizzate al mondo; dal 2007 al 2015, per converso, simili attività si contraggono del 45%.

Le ripercussioni della crisi sono intuibili: ad esempio le banche olandesi, francesi e tedesche erano profondamente coinvolte nella bolla immobiliare spagnola, mentre le banche austriache si erano espanse oltre misura nell’Europa dell’Est e in Asia Centrale e le italiane erano coinvolte anche in Turchia.

Tali andamenti in Europa non implicano, tuttavia, che l’era della globalizzazione finanziaria si stia ridimensionando. Anzi, lo stock di investimenti esteri, rapportato al PIL, è rimasto sostanzialmente immutato dal 2007. Ciò che si modifica sono gli strumenti e gli attori, in presenza di un fenomeno di continuità.

La continuità è costituita dalla dominanza delle grandi banche di affari statunitensi in un universo in cui, con il ridimensionamento di Barclays, Credit Suisse, Deutsche Bank e UBS, restringe alle cinque banche americane, Goldman Sachs, Morgan Stanley, JP Morgan, Citigroup e Bank of America Merril Lynch il ristretto ambito delle “bulge-bracket banks” [1].

Nel decennio 2005-2015 la quota di mercato delle banche europee diminuisce di oltre otto punti (dal 54.7% al 46%) con un guadagno percentuale pressoché eguale (dal 37.2% al 44.6%9 di quelle statunitensi. L’incremento della quota delle prime, sul mercato europeo, è avvenuto anche grazie all’applicazione del modello “hub and spoke”, ovvero a raggiera, secondo il quale Londra continua a funzionare come centro con raggi che si irradiano verso i principali paesi europei, con Francoforte e Dublino in primo luogo.

L’elemento di cesura sulla ribalta dell’international banking è costituito dalla comparsa di banche provenienti da Canada, Giappone Russia e Cina che incrementano vistosamente il proprio portafoglio di attività sull’estero.

Il mutamento degli attori è stato concomitante al mutamento degli attivi acquisiti sui mercati esteri: ai titoli di debito e ai prestiti in senso stretto sono andati sostituendosi, progressivamente, azioni e investi diretti, secondo una strategia che tende a privilegiare gli investimenti forse meno volatili ma, di certo, meno dipendenti, dal potenziale rischio di default del soggetto e/o del paese “scalato”.

 

Qualche commento

Dieci anni dopo il crollo del sistema finanziario è difficile, e forse prematuro, valutare quanto da allora l’architettura delle grandi banche internazionali sia mutata e quanto la lezione di allora di allora abbia influito sui comportamenti di oggi. Elementi di cesura e di continuità si sovrappongono e, probabilmente, una risposta più articolata potrà essere data con il passare del tempo.

Taluni elementi paiono, tuttavia, indiscutibili; un paio di essi addirittura paradossali. Il primo: proprio le grandi banche di investimento che avevano contribuito in maniera significativa al crollo del 2008, rimangono al centro dell’international banking; anzi esse, inconfutabilmente, paiono rafforzate nei flussi internazionali di capitali. Ancora: gli Stati Uniti, che avevano costituito il baricentro della crisi e che avevano attuato, con il Troubled Asset Relief Programme, il più grande programma di risanamento dai titoli tossici delle banche di investimento, si ripropone come il centro mondiale dei processi di collocamento, di fusioni e di acquisizioni, di investimenti diretti all’estero. Per converso, nella gerarchia internazionale, il ruolo delle banche europee è parzialmente insidiato da nuovi paesi, in primo luogo dalla Cina: esse, in ragione di un processo di consolidamento che ne accorcia l’orizzonte strategico al loro continente, paiono meno in grado di seguire il modello di rischio e di internazionalizzazione che, con apparente grande abilità, avevano imparato dalle consorelle americane nel primo decennio del secolo.

Ovviamente queste affermazioni vanno relativizzate nella loro apoditticità: la presenza delle banche europee sui mercati trans-continentali è ancora di tutto riguardo; alcuni paesi, come la Francia con il “dinamismo” di BNP Paribas, di Crédit Agricole Group e della Societe Generale Group, esprimono strategie e pretese che valicano i confini nazionali, banche di indubbia fragilità, come la Deutsche Bank, si ostinano, grazie al ruolo della Germania nell’Eurozona, a mantenere rischiosissime composizioni dell’attivo.

Tuttavia le tendenze parlano, ove mai la gerarchia fosse stata in dubbio, di un ruolo ancillare delle grandi banche continentali. La globalizzazione finanziaria internazionale vive ed è vegeta, si direbbe, evolve e si adegua, in un rapporto dialettico con le pallide forme di governance, ai vincoli ed ai paletti che la stabilità finanziaria impone. E chi pensasse che oggi i pericoli di “rischio sistemico” siano, pur se parzialmente, desueti commetterebbe un ingannevole errore di sottostima: natura non facit saltus, specie a rileggere le valutazioni dei Chief Executive Officer delle grandi banche di investimento. Qualche esemplificazione. I contratti derivati in essere non costituiscono un pallido ricordo nell’ Asset Management delle grandi banche: al 2015 JPMorgan Chase ne possedeva oltre 46 miliardi di dollari (il 18.6% dell’attivo), Citigroup 44 (il 21.1%), Deutsche Bank 41.9 (il 59.1%), Barclays 40.5 (il 39.1%), BNP Paribas 28.6 (il 47.7%). Ed è intuibile che la rischiosità di simili attività più che compensa l’allontanamento dalle attività sull’estero a maggior rischio.

È indubbio che, secondo gli studi più accurati ma non di certo I più diffusi, le grandi banche, e anche quelle statunitensi, non siano divenute più “sicure” all’indomani della crisi; è possibile dedurre, anzi, da qualche analisi approfondita che esse siano divenute, paradossalmente, più rischiose. Dunque, dopo il manifestarsi della crisi del 2008, quando pareva che la finanza mondiale fosse entrata in un stallo definitivo, il sistema bancario internazionale ha reagito con caratteri di resilienza che, un decennio addietro, parevano impensabili.

Un simile capacità di reagire ad un evento tanto traumatico deve essere fatta probabilmente risalire al sostegno finanziario pubblico, diretto e indiretto, di cui il mondo della finanza ha goduto nel settennio successivo. Ma, che esso sia stato più trasparente come negli Stati Uniti o più fariseo come nel caso dell’Europa dell’austerità fiscale, la resilienza ha una motivazione definita: la governance del mondo della finanza non ha mutato alcuna regola del gioco.

E’ vero che le banche europee sono divenute più parochial, con un bias a favore delle attività continentali e, preferibilmente, di concentrazione e di rafforzamento sui mercati nazionali, che al loro posto si candida un peculiare sistema finanziario come quello cinese, che le Big Banks statunitensi modificano la composizione del portafoglio estero privilegiando le attività meno rischiose (e meno remunerative). Nulla, tuttavia, porta a credere che la vocazione della grande banca tenda per un allungamento delle scadenze dei profitti, per comportamenti meno speculativi, per minori eccessi sul mercato dei titoli derivati.

E tutto ciò avviene in maggiore misura al crescere della dimensione degli operatori. Paradossalmente l’incertezza che contraddistingue i mercati all’indomani della crisi è un elemento ulteriore di beating: forse il regolatore, al momento del risanamento, del bail-out, dell’acquisizione del capitale azionario delle banche in default, avrebbe dovuto scontare che quanto più il futuro è incerto, maggiore è la spinta a scommettere non sulla donna più bella ma su quella che il mercato, domani, considererà la più bella. Ma la realtà (o meglio il paradosso) è che le sedimentate relazioni tra incertezza, aspettative e speculazione sono ben note ai nostri regolatori.


* Questo testo è una versione sintetica e priva di conforto statistica di una versione più ampia in corso di pubblicazione.

Note
1) “Bulge bracket” è un termine gergale del mondo finanziario che descrive le più grandi e profittevoli banche di investimento, derivante dalla circostanza che esse sono le prime ad essere contattate per la gestione e il collocamento dei titoli di stato statunitensi.

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