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italiaeilmondo

La terra sotto i piedi

di Roberto Buffagni

Su Genova, in dialogo con Pierluigi Fagan e Alessandro Visalli[1]

E’ da un bel pezzo, non solo dal 14 agosto, che gli italiani si sentono mancare la terra sotto i piedi. Il crollo del ponte Morandi di Genova lo ha espresso con uno splendore metaforico accecante, perché è un correlativo oggettivo[2] perfetto.

Il crollo del ponte Morandi è il correlativo oggettivo di molte cose che finiscono, e finiscono male. Fine dell’Italia moderna di ieri, dell’Italia del miracolo economico, della giovinezza dei nostri padri o nonni, dell’abbondanza a portata di mano per tutti: il ponte Morandi, con il suo tracciato epico, il suo modernismo militante alla Le Corbusier, è figlio di quegli anni e di quelle ambizioni giovanili. Fine della modernità dell’Italia di ieri come ambizione sbagliata, come rincorsa tardiva, affannosa, volontaristica dei “paesi più avanzati”: l’Italia del miracolo economico non può permettersi i ponti in acciaio che paesi di più antica industrializzazione costruiscono da cent’anni, e parsimoniosamente getta il ponte Morandi nel deperibile cemento armato, ma senza rinunciare al tracciato avveniristico che ci fa fare bella figura, ci fa sembrare “un paese normale”.

Fine della promesse de bonheur  della postmodernità, del sogno elettrizzante dei muri che crollano e dei confini che svaniscono, di libertà come infinito transito da un orizzonte a un altro orizzonte, senza soste, radici, termine: emblema i cento ponti, gettati dal nulla al nulla e scavalcanti il nulla, che troviamo sulla cartamoneta in euro, l’unica moneta pura della Storia umana; moneta senza terra e senza principe, sacramento del nulla che si transustanzia in Nulla senza materia sacramentale, ex opere operato della Tecnica, vessillo dell’Unione senza Unità e dell’Europa senza Europa. Fine dell’illusione che la promesse de bonheur della libertà postmoderna valga per tutti: i deplorables, i carnali che restano legati al suolo e alla materia precipitano nel baratro, gli pneumatici che transustanziano materia e vita in denaro volano, illesi s’incielano nell’Empireo delle corti di giustizia internazionali, dei grandi studi legali americani, delle aziende di public relations, trasportati e razionalmente giustificati dagli psichici al loro servizio. Per concludere: fine dell’illusione che l’Italia possa mai diventare “un paese normale”, cioè un normale paese capitalistico avanzato, come i paesi protestanti.

L’Italia non è mai stato, né potrà diventare mai finché esisterà come realtà simbolica, un “paese normale”, perché l’ultima impronta che ha modellato in profondità la patria interiore degli italiani è un possente movimento spirituale di difesa contro la modernità, la Controriforma cattolica. Finita, e finita molto male, la grande speranza giovanile della Cristianità europea, sostituito al principio del bene comune il criterio regolativo del male minore, spezzata la comunicazione tra l’aldiquà e l’aldilà nelle rappresentazioni del sacro, l’Italia ha iniziato a diventare un paese anormale pittoresco e spregevole, romantico e cialtrone, perché di volta in volta più arretrato o più avanzato degli altri paesi europei: siamo più arretrati quando la modernità va bene, siamo più avanzati quando la modernità va male: di qui anche la nostra meritata fama di “laboratorio politico”.

La protezione minuziosa e tirannica, premurosa e soffocante della Controriforma cattolica ha preservato, come un fossile nell’ambra, le sopravvivenze delle tradizioni pagane italiche, romane, greche, e ha lungamente riparato sotto la volta di un tempio invisibile la civiltà contadina con i suoi antichissimi costumi, cristiani e precristiani. La Modernità e la Storia premevano alle mura, s’infiltravano nelle vite personali, nei pensieri e nei sogni, ma l’incantesimo difensivo ha retto per secoli, in una lunghissima ritirata lenta e ordinata che solo molto di recente si è trasformata in rotta. Racconta il trauma del contatto diretto con la modernità illuminista e liberale trionfante il più grande poeta, insieme a Torquato Tasso, della Controriforma italiana.

Giacomo Leopardi[3] canta il confine del natìo borgo selvaggio, che da tanta parte/ Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude e dal quale cercò di evadere per tutta la vita, come trampolino verso l’assoluto (L’infinito); la speranza nel domani come illusione, creatrice di struggente bellezza e commovente, precaria gioia (Il sabato del villaggio); l’ incanto della civiltà popolare italiana come una fanciulla che la morte precoce rende eternamente giovane, bella e perduta come la patria, “membranza sì dolce e fatal”, sospirata in Va’ pensiero (A Silvia); il disorientamento di fronte alla Storia che incalza minacciosa come domanda infantile, smarrita, fiduciosamente rivolta alla vergine Luna, giovinetta immortal (Canto notturno di un pastore errante dell’Asia); e sbriga il giudizio sul secol superbo e sciocco col sarcasmo delle magnifiche sorti e progressive (La ginestra).

Racconta la sconfitta dell’Italia controriformata, e la rotta disordinata degli italiani sul campo di battaglia della modernità “l’usignolo della Chiesa cattolica”, Pier Paolo Pasolini.

Ecco, ora la modernità è finita, e finita male; la postmodernità crolla, trascinando nel baratro molti italiani. S’inaugura in Italia – non a caso in Italia – quel che gli studiosi chiamano “il momento Polanyi”[4], che si manifesta anche con il sorprendente ircocervo del governo gialloverde. Se sia giusto o sbagliato, e come andrà a finire, non lo so. Per quel che mi riguarda: right or wrong, my country.


Note
[1] [1] http://italiaeilmondo.com/2018/08/18/jaccuse-di-augusto-sinagra-e-uno-sguardo-dal-ponte-di-pierluigi-fagan/ ; https://tempofertile.blogspot.com/2018/08/della-parola-dordine-onesta.html ; https://tempofertile.blogspot.com/2018/08/della-parola-dordine-integrita.html ; https://tempofertile.blogspot.com/2018/08/della-parola-dordine-sicurezza.html
[2] Il “correlativo oggettivo” è un concetto centrale nella teoria letteraria elaborata da Thomas Stearns Eliot, elaborato in più saggi raccolti nel volume The Sacred Wood (1920). In sintesi: un’opera d’arte ben riuscita non descrive i sentimenti e le emozioni dei personaggi, ma li mostra per mezzo di un’immagine o un’azione che ne sia il correlativo oggettivoThe artistic ‘inevitability’ lies in this complete adequacy of the external to the emotion….” (“Hamlet and His Problems”). Un esempio di correlativo oggettivo ben riuscito è la scena in cui Lady Macbeth, dopo l’assassinio del re, si lava compulsivamente le mani.
[3] Giacomo Leopardi, naturalmente, non era credente, e anzi si è parecchio complicato la vita perché non volendo accettare incarichi nel governo pontificio e non disponendo di una rendita personale sufficiente, è sempre stato a corto di soldi. E’ un grande, grandissimo poeta della Controriforma perché lo spirito della Controriforma si oppone allo spirito del mondo moderno, e difende come può quel che resta del mondo antico. Che altro fa Leopardi? Che non sia cattolico e detesti i preti conta molto poco, direi nulla.
[4] V qui: http://tempofertile.blogspot.com/2016/08/karl-polanyi-la-grande-trasformazione.html

Comments

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Eros Barone
Sunday, 02 September 2018 23:07
Il crollo del viadotto di Genova assurge per Roberto Buffagni a paradigma e metafora della fine della modernità e della postmodernità, quali sono state vissute nell’esperienza storica e recente del nostro paese. Sennonché l’elevazione di quel tragico evento a paradigma e metafora a me sembra, oltre che una “trascendenza mal posta”, un abuso, misto di retorica e di sofistica, nei confronti di coloro che in quel crollo hanno perso la vita, la casa, il futuro. Buffagni distingue, sulle orme paoline, tre categorie di persone: i “carnali”, che vivevano del proprio lavoro e, diretti alle loro umili, terrene destinazioni mentre infuriava la bufera, hanno visto all’improvviso, attraversando quel maledetto ponte, aprirsi il vuoto sotto i loro piedi e le loro macchine, e sono precipitati sul torrente e sulle case sottostanti, travolti e seppelliti da quelle colossali macerie; gli “pneumatici”, che vivono col denaro e per il denaro, e gli “psichici” al loro servizio, specializzati nello spacciare falsità. La verità è che le vittime predestinate di quel crollo erano tutte persone appartenenti alle classi subalterne, principalmente al proletariato. Quello che non deve sfuggire ad un'ottica di classe è allora il carattere eminentemente proletario delle vittime di questa immane tragedia, carattere che fa di essa una strage di classe e di Stato nell'accezione più rigorosa del termine. Il crollo si configura infatti come un episodio sanguinoso della lotta di classe che viene condotta dal ceto capitalistico e dallo Stato al suo servizio contro un soggetto sociale privato della sua coscienza di classe, che ai funerali applaude in modo grottesco la lettura dei nomi dei morti, come se essere vittime del blocco capitalistico-clientelare-mafioso tra la Società Autostrade e gli organi di (non) controllo dello Stato sull'altare del profitto capitalistico sia un titolo di merito anziché il tragico destino di persone a cui è stata tolta la vita con una duplice violenza, sia reale che simbolica. Sennonché la deriva che ha portato al crollo di Genova è il frutto di un processo che trae origine dalle vicende secolari di un regime di classe. Per dirla con Amadeo Bordiga, cui dobbiamo ricognizioni magistrali di questo genere di eventi, rientra perfettamente nei “drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale”. Ormai il capitale non è in grado di assolvere la funzione primaria di trasmettere il lavoro dell’attuale generazione alle future e di utilizzare per questa il lavoro delle passate. Esso non ricerca appalti di ordinaria manutenzione, ma solo giganteschi affari legati alla costruzione di opere pubbliche: da qui, per dirla con il padre Dante, "la bufera infernal che mai non resta". Dopodiché Buffagni, ripercorrendo alcune vicende assiali della storia italiana, sottolinea giustamente la funzione cruciale della Controriforma, che ha profondamente plasmato non solo la religione cattolica, ma altresì la società, lo Stato e la stessa antropologia del nostro paese. In questo senso, sono d’accordo con la sua interpretazione e arrivo ad affermare che l’attuale maggiore problema di filosofia politica che si pone in Italia non è, come molti credono, uscire dal Novecento, bensì è uscire dal Seicento. Luigi Russo, cui dobbiamo un commento dei “Promessi Sposi” semplicemente impareggiabile per acume e profondità, ha coniato, a questo proposito, la definizione di “secentismo trascendentale”, insostituibile chiave di lettura della fenomenologia contemporanea. Non sono invece d’accordo sul riferimento a Leopardi e a Pasolini, due esponenti, per dirla con Marx, del “socialismo feudale”, molto utili sul piano dell’analisi ma del tutto inefficaci sul piano di una nuova lotta per l’egemonia culturale che sia capace di fondarsi su una visione del mondo e della vita veramente alternativa a questo mondo e a questa vita. (Alessandro Manzoni è invece una straordinaria risorsa strategica per una lotta di questo tipo). Concludo: ancora una volta è chiaro come il sole che l’unica soluzione dei problemi or ora evocati è una rivoluzione che strappi gli artigli alle classi possidenti e ai detentori attuali dei mezzi di produzione, e che la sola via di uscita dal disfacimento della società borghese sta nella collettivizzazione. Diversamente, caro Buffagni, continueremo a vivere in una società dove nessuno muore, ma tutti veniamo, in un modo o nell'altro, assassinati.
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