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“Il lavoro del futuro” di Luca De Biase

di Luca Picotti

Recensione a: Luca De Biase, Il lavoro del futuro, Codice Edizioni, Torino 2018, pp. 178, 15 euro, (scheda libro)

Le grandi trasformazioni tecnologiche ed economiche che stiamo vivendo pongono problemi, sfide e punti interrogativi del tutto inediti. Dinanzi a questa realtà in continuo divenire, la ricerca di nuovi linguaggi e schemi concettuali risulta necessaria se si vuole comprendere il presente e immaginare il futuro.

Il lavoro, inteso come identità sociale, espressione di sé e percorso di realizzazione delle proprie aspirazioni, rappresenta un campo di indagine particolarmente soggetto alle trasformazioni tecnologiche e sul quale si addensano, volgendo lo sguardo all’orizzonte dei prossimi decenni, numerose incognite. Quali mestieri verranno spazzati via dalle nuove tecnologie? E quali altri compariranno sulla scena? Verso quali studi converrà indirizzare le generazioni a venire? Quali competenze saranno necessarie?

Luca De Biase, giornalista e saggista, nel libro Il lavoro del futuro, edito da Codice Edizioni, rilancia e approfondisce un’inchiesta sviluppata per Il Sole 24 ore sul mondo del lavoro. Attraverso dati, interviste, testimonianze e lucide osservazioni, De Biase indaga attorno agli sviluppi dell’automazione, della gig economy e più in generale di un mercato del lavoro in costante mutamento.

L’analisi cerca di mettere a fuoco le possibili prospettive che verranno a crearsi, nonché le auspicabili risposte politiche, in un contesto caratterizzato dall’incertezza e dalla sfiducia, determinate dalla velocità dell’innovazione, dall’evoluzione demografica e dalla globalizzazione.

 

Verso un’economia della conoscenza

Un ragazzo che entra a scuola nel 2019 uscirà dalle scuole secondarie nel 2032. Considerati i profondi cambiamenti degli ultimi quindici anni, non possiamo che guardare con incertezza a quella data. Serve però, sostiene De Biase, costruire una visione prospettica per tentare di interpretare le trasformazioni che stiamo vivendo; anche perché, scrive il giornalista, la mancanza di una narrazione chiara e semplice ha delle conseguenze, inevitabilmente negative sul lungo periodo.

La scomparsa o il radicale mutamento di alcune professioni è un fenomeno storico che sicuramente non nasce con la recente rivoluzione tecnologica e digitale. Per fare un esempio non troppo lontano, nei vent’anni del miracolo economico, in Italia, gli occupati nell’agricoltura sono passati dal 60% al 10%; quei posti perduti venivano però presto sostituiti da quelli creati dall’industria – e anche, in misura minore ma crescente nel tempo, dai servizi – secondo una logica prevedibile che portava il contadino dai campi alla città. Oggi invece come possiamo immaginare il passaggio verso l’economia della conoscenza?

De Biase riporta i risultati di alcuni degli studi più rilevanti sul futuro dell’occupazione. L’Ocse, grazie ad un lavoro di Stefano Scarpetta e del suo team, mostra come la scomparsa dei posti di lavoro potrebbe raggiungere il 14% degli impieghi attuali, mentre numerose mansioni esisteranno ancora ma con un volto profondamente diverso: «In altre parole, almeno il 30 per cento dei lavori svolti da queste persone saranno probabilmente affidati all’automazione, oppure subiranno cambiamenti radicali in seguito all’organizzazione digitale del lavoro» (p.4). Interessante è anche il rapporto Tomorrow’s Jobs di Microsoft[1], secondo il quale il 65% degli studenti di oggi farà lavori che ancora non esistono.

Il primo problema che emerge è la sempre più marcata discrasia tra la domanda di lavoro delle aziende e l’offerta. Sono numerose le professioni sviluppatesi negli ultimi anni e altamente richieste nel mondo del lavoro: community manager, web analyst, web designer, cloud architect, app developer, social care expert, cyber security expert, social media analyst, data scientist, digital PR, solo per elencarne alcune. Secondo Unioncamere, nel 2016 il 33 per cento delle imprese ha avuto difficoltà nel reperire lavoratori preparati, a riprova del fatto che gli studenti di oggi (in questo caso di ieri) non sono pronti per i lavori del domani (in questo caso di oggi). La struttura commerciale di un’azienda è radicalmente cambiata, scrive De Biase riportando la testimonianza di Raffaele Vitale di EY, dal momento che consumatori e clienti si informano online portando così la figura del venditore a diramarsi in una pluralità di funzioni; inoltre, l’attività strategica dell’azienda si focalizza sempre di più sull’analisi dei dati, vero e proprio campo professionale delle nuove figure di data scientist, customer experience designer, customer manager, bot developer e ovviamente dei responsabili SEO e social media.

Secondo l’Ocse, la distanza tra domanda e offerta di lavoro è soprattutto culturale: come scrive Vincenzo Spiezia «le tecnologie digitali colpiscono l’occupazione in tempi brevi ma fanno emergere nuove opportunità di lavoro lentamente. Serve tempo, perché occorre creare nuovi mercati, trasferire risorse da un settore all’altro, sviluppare know-how[2]». Il punto cruciale, in un contesto come questo, è la continua ricerca: come abbiamo visto, alcuni lavori scompaiono ma se ne vengono a creare altri, mentre molti mestieri si limitano a cambiare volto. Non è la tecnologia che porta via il lavoro, sottolinea il giornalista, ma la mancanza di innovazione tecnologica – anche se, a parere di chi scrive, questo discorso tende a minimizzare la questione dell’effettiva scomparsa di lavori manuali e poco qualificati: non tutti i lavoratori possono permettersi le competenze richieste dall’innovazione tecnologica.

Innovazione, ricerca, formazione e istruzione: su questi campi verrà giocata la partita sul lavoro del futuro. Non sono solo le competenze informatiche e le materie più strettamente scientifiche a risultare necessarie per le prossime generazioni, ma anche e soprattutto le cosiddette social skills, le capacità cognitive e le “process skills”: come scrive l’Ocse, saranno fondamentali la capacità di persuasione, l’intelligenza emotiva, l’abilità nell’insegnamento, la creatività, il ragionamento critico, la capacità di ascolto e critical thinking. Più sinteticamente, autonomia, pensiero critico e problem-solving dovranno accompagnare le abilità più squisitamente tecniche e informatiche.

 

Innovazione e competenze: prospettive per il futuro secondo De Biase

Nelle pagine finali De Biase riassume i punti cruciali evidenziati dal volume e cerca di proporre una prospettiva, un progetto che possa fungere da bussola per il viaggio nei sentieri delle trasformazioni tecnologiche.

Chi non innova, scrive il giornalista, perde occupazione, mentre chi innova può crearne; inoltre, l’intelligenza artificiale non sembra ridurre più lavoro di quanto potenzialmente può generarne, però vi è un divario tra la velocità con cui le tecnologie eliminano i posti di lavoro e la lentezza con cui trovano nuovi mercati occupazionali – lentezza dovuta anche e soprattutto, sostiene l’Autore, a fattori di tipo culturale.

Un altro aspetto importante, rinvenibile nel caso in cui non ci si focalizzi sulla costante formazione dei lavoratori, è la tendenza alla polarizzazione: da un lato persone con elevate conoscenze e ottimi risultati economici, dall’altro lavoratori poco qualificati e con redditi limitati, spesso inseriti nell’economia delle piattaforme digitali caratterizzata dalla parcellizzazione del lavoro in microattività sottopagate.

Inevitabile, per far fonte ad un contesto come questo – reso fragile soprattutto dalla discrasia tra la velocità dell’innovazione tecnologica e l’ingessatura degli assetti sociali e culturali – è l’insieme di politiche volte ad accompagnare i soggetti più deboli nei periodi di transizione: come scrive De Biase, risulterà necessaria una collaborazione tra soggetti pubblici e privati nella definizione di strategie territoriali, un’assicurazione sui salari, una formazione permanente e delle robuste politiche attive di compensazione del reddito. Non basteranno però le misure economiche: di fondamentale importanza sarà l’adeguamento dei sistemi educativi.

«Quale immagine ci si può costruire del lavoro del futuro dopo la grande trasformazione che attualmente rende tanto difficile costruirsi una prospettiva? Si intravedono tre ambiti molto diversi per lo sviluppo di mestieri adatti allo scenario economico emergente, basati su altrettanti punti di forza umani» (p.163). Il primo riguarda l’economia della conoscenza, focalizzata sulla componente immateriale dei prodotti e dei servizi; il secondo riguarda l’empatia, e si riferisce ai lavori di gestione delle relazioni sociali e di cura delle persone; l’ultimo concerne l’adattabilità, in particolare la capacità di svolgere i lavoretti utili al funzionamento delle piattaforme – questa dovrebbe però rappresentare una situazione transitoria da accompagnarsi alla formazione e la riqualificazione, dato che non può da sola consentire un percorso di crescita personale significativo.

Il volume di De Biase aiuta a capire il presente e consente di pensare, o quantomeno immaginare, il futuro. La prospettiva dell’Autore si allontana da una letteratura più pessimistica sul tema e si concentra sulle potenzialità dell’innovazione: in poche parole, guarda più alle opportunità che ai rischi insiti ad ogni trasformazione radicale delle strutture esistenti. In sintesi, quale progetto dovremmo seguire? Quali strategie sono auspicabili secondo l’Autore?

«Le conoscenze specialistiche e le competenze umanistiche dovranno dunque svilupparsi di pari passo, in contesti organizzativi capaci di unire le funzioni produttive e le esperienze formative, ispirandosi alle strutture culturali essenziali per la creazione di valore nell’epoca della conoscenza, le quali si rifanno all’artigianalità di chi vuole e sa fare bene il proprio lavoro, all’agilità tecnica di chi è capace di adattarsi al cambiamento, all’abilità narrativa di chi sa comunicare il senso di ciò che fa» (p.166).

Un quadro forse in parte ottimista rispetto alle numerose criticità che l’automazione sta già oggi mostrando, ma sicuramente interessante e, per certi versi, auspicabile.

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