Print Friendly, PDF & Email

chefare

Per non diventare sudditi del Re digitale dobbiamo sviluppare algoritmi di libertà

di Michele Mezza

La scala del calore che fino a oggi ha governato le economie del mondo, con vapore prima e petrolio poi, come fonti di energia che determinavano le gerarchie degli Stati, ora è gradualmente sostituita dalla scala del calcolo, in cui sono le agenzie globali, come appunto google e Ibm, che partecipano alla corsa quantica, a determinare le relazioni di comando nel pianeta. In questa spirale irrompono ora i nuovi algoritmi quantici che per potenza di calcolo promettono di sbriciolare già l’insuperabile complessità della blockchain.

Sembra un gioco di società, in realtà è una terribile e permanente prova di forza, che si sottrae a ogni controllo sociale e democratico, rinchiudendo in ambiti elitari le fasi di un potere che si vuole supremo.

Più calcolo, più automazione, più autonomia dei sistemi digitali, meno esseri umani che possono incidere sul futuro.

L’automatizzazione della documentazione, come la blockchain delle criptomonete ci indica, porta all’automatizzazione della governance finanziaria, come le banche centrali stanno studiando, che alla fine ci proietterà come soluzione inevitabile, anzi auspicata, a quella democrazia automatica di cui parlava Virilio già a metà degli anni novanta, e che Parag Khanna già vede realizzata a Singapore.

Più calcolo, più automazione, più autonomia dei sistemi digitali, meno esseri umani che possono incidere sul futuro, per usare il titolo del citato saggio, pubblicato da Wired nel 2000, con cui l’allora vicepresidente di Sun Microsystem, Bill Joy, già ci ammoniva a gestire e controllare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale.

Due sono i concetti oggi in discussione: singolarità e blockchain. Il primo riguarda quella scuola di pensiero che studia l’ineluttabilità della crescita dell’intelligenza artificiale, fino alla soglia della sua esclusiva autonomia da ogni controllo umano. È un intreccio, come spesso accade, fra eccentricità visionarie e pragmatismo pianificatorio.

L’idea è che l’accelerazione dello sviluppo tecnologico, fino a traguardare la soglia della separazione fra tecnica e agente umano, inevitabilmente impone un comando centralizzato del processo, a cui, spontaneamente, si affideranno le comunità, chiedendo a pochi centri tecnologici di gestire e controllare la potenza di calcolo. Siamo non distanti dall’idea kantiana di un governo universale del sapere, in cui però è la proprietà e non la qualità dei sistemi cognitivi a decidere chi e perché debba esercitare questo tremendo potere.

Luogo e contenuto di questo processo di automatizzazione della discrezionalità sociale è oggi quel controverso fenomeno delle criptomonete, il bit coin e le sue consorelle, gestite da una tecnologia sociale quale è la blockchain.

Un nuovo automatismo decentrato, diffuso, apparentemente ingovernabile. Il sistema è tuttora avvolto da un’aura da alchimista. Elaborato per il bit coin, nel 2008, da un soggetto, singolo o collettivo non è ancora dato sapere, che si nasconde dietro il nickname Satoshi Nakamoto, si basa su una procedura a blocchi, ossia a stadi di registrazione e calcolo dei dati. Si tratta di una concatenazione di registri, dove si depositano le documentazioni di ogni operazione effettuata con le monete digitali, e in base a un algoritmo originario si determina il successivo valore della stessa moneta, la sua quotazione.

Siamo non distanti dall’idea kantiana di un governo universale del sapere, in cui però è la proprietà e non la qualità dei sistemi cognitivi a decidere chi e perché debba esercitare questo tremendo potere.

Un sistema efficiente e fluido, capace di adeguarsi in real time al mercato e di riflettere la dinamica delle modalità di utilizzo, instaurando una relazione diretta e automatica, appunto, fra le quantità e le tipologie di fruizione della moneta.

Talmente freddamente efficiente che le stesse banche centrali, come la Federal Reserve o la bce, stanno studiando forme di adozione della blockchain per il circuito ufficiale. Israele e la stessa banca d’Inghilterra lavorano da tempo a blockchain nazionali per sostenere cripto-monete locali.

Un entusiasmo, questo dei compassati gnomi finanziari, che appare davvero al limite dell’autolesionismo. Tutto infatti poggia sull’illusoria certezza che l’estrema complessità del modello garantisce la sua impenetrabilità. Una fiducia troppo naïf per essere reale. L’insorgere del nuovo quantum computing, del calcolo quantico, mostra l’aleatorietà di tali suggestioni. Se lo sappiamo noi, lo sanno tutti, questa è la nostra presunzione. Il quantum computing è un pensiero che supera la stessa dimensione teorica del calcolo binario. E dunque relativizza ogni certezza.

Perché si continua a legare la blockchain all’efficienza e non si fa menzione dell’imprevedibilità e di una certa anche casualità dei suoi effetti qualora fossero davvero determinati solo dal naturale adeguarsi delle quotazioni agli automatismi del network?

Innanzitutto un computer quantistico è un elaboratore che sfrutta le leggi della fisica e della meccanica quantistica – come la sovrapposizione degli effetti e l’entanglement – per superare le barriere della tecnologia attuale e mantenere viva la legge di Moore. Attualmente, infatti, siamo molto vicini ai limiti fisici nella miniaturizzazione dei componenti. Di conseguenza, risulta estremamente complicato aumentare la potenza computazionale degli attuali processori, dato che diventerà praticamente impossibile aumentare ulteriormente la densità dei transistor nei circuiti integrati con il giusto trade-off di costi e consumi.

Se non è la teoria, allora cosa alimenta questa continua droga computazionale? Solo un radicale disegno politico. Infatti, perché mai, ci siamo chiesti, istituzioni sovrane e prestigiose, che sono titolari di un potere esclusivo e completo sulla finanza, rinuncerebbero a tale facoltà di governo per affidarsi a sistemi ingovernabili, tanto più se si rivelano poi anche inaffidabili, come abbiamo visto, per la nuova prospettiva quantica? Perché si continua a legare la blockchain all’efficienza e non si fa menzione dell’imprevedibilità e di una certa anche casualità dei suoi effetti qualora fossero davvero determinati solo dal naturale adeguarsi delle quotazioni agli automatismi del network? Forse perché questi sistemi, per quanto decentrati e automatici, come tutti i sistemi automatici, sono solo l’epifenomeno di un potere ancora più centralizzato e opaco, completamente escluso da ogni dialettica pubblica, separato da ogni istanza rappresentativa, inaccessibile per ogni istanza democratica? Come si potrebbero negoziare le strategie monetarie se il motore del sistema fosse del tutto automatico e segreto?

Questa oggi è la partita che si profila all’orizzonte della politica, in Europa e nel mondo: quale rilevanza e discrezionalità ancora affidare al gioco democratico rispetto agli automatismi degli algoritmi. Quale relazione tutelare nel rapporto fra cervello e intelligenza artificiale?

Potremmo dire che la convergenza fra singolarità e blockchain determina la chiusura della millenaria parentesi democratica, apertasi nel IV secolo prima di Cristo nell’agorà di Atene. La complessità diventa la clava che spezza la democrazia. […]

Questa oggi è la partita che si profila all’orizzonte della politica, in Europa e nel mondo: quale rilevanza e discrezionalità affidare ancora al gioco democratico rispetto agli automatismi degli algoritmi.

Un aspetto centrale nelle pianificazioni della potenza di calcolo nella rete è la capacità di performare e performarsi sulla base dei profili degli utenti. Si ignora troppo spesso che sia Mark Zuckerberg che lo stesso Steve Jobs prima che di informatica si erano occupati di psicologia. Gli algoritmi sono essenzialmente formazioni psicologiche.

Étienne Balibar, un brillantissimo filosofo della sinistra francese che si preparava al maggio del ’68, in un suo contributo a una rassegna di commenti al Capitale di Marx, già afferrava la coda di un demone che sfuggirà poi a ogni riflessione del movimento democratico e progressista successivamente: «L’intelligenza del passaggio da un modo di produzione ad un altro non può mai apparire come uno iato irrazionale tra due periodi che sono sottoposti al funzionamento di una stessa struttura. La transizione, per breve che sia, non può essere un momento di destrutturazione. È essa stessa un movimento sottoposto a una struttura che occorre scoprire».

Può l’algoritmo essere o proprietario o nazionale ma comunque mai democratico?

Davvero quanto sta accadendo è incomprensibile e insensato? O piuttosto, dipanando il ragionamento di Balibar, è una fase di costruzione di nuove forme con nuovi materiali e sconosciuti architetti? Il cambio di paradigmi sociali, economici, culturali, antropologici può non investire le fondamenta etico-istituzionali che hanno sorretto l’edificazione della nostra città del sole fino a oggi? È davvero così singolare vedere al fondo di questo tunnel un nuovo potere basato sulla combinazione esclusiva e proprietaria del calcolo e uno scambio sociale che induce ognuno di noi a privarci di autonomia e sovranità per avere automaticamente soluzioni e relazioni?

È davvero inedito questo nostro atteggiamento, proteso a cogliere l’avanzamento indiscusso e condiviso che la società digitale rappresenta rispetto all’insopportabile epoca industriale, e al tempo stesso tenacemente determinato a introdurre in questo nuovo processo logiche, valori e criticità che avevano contrassegnato il meglio del nostro passato? In sostanza, questa china è deterministicamente solo portata a un epilogo apocalittico e tecnocratico?

Una nuova democrazia del calcolo non può prescindere da una sorta di «neokantismo digitale», dove l’etica sia un valore sostanziale e funzionale di una società immateriale.

Quanto stiamo vedendo nel mondo ci indica invece come sia in corso una risposta e reazione della politica, di una forma di organizzare le decisioni che comunque è legata a una rappresentanza di interessi e non alla proprietà di soluzioni tecniche.

Le strategie di Putin, Xi Jiping e dello stesso Trump, come abbiamo già visto, da un versante non certo democratico e partecipativo, in ogni caso mostrano come nei principali paesi del mondo gli interessi sociali reagiscono alla dittatura dei proprietari degli algoritmi, contrapponendo una forza, parimenti autoritaria, ma fondata sulla fatica del potere politico.

Può rimanere questa l’unica risposta sociale alla tecnopolitica? Può l’algoritmo essere o proprietario o nazionale ma comunque mai democratico? È forse il sapere come capacità di persone esclusive che determina un’aristocrazia sociale che avvita le nostre relazioni in una torsione autoritaria? O piuttosto la natura e l’origine della rete come massimo epifenomeno di una partecipazione sociale al sapere non innesca comunque una contaminante domanda di condivisione e collaborazione democratica in ogni fase delle decisioni?

Come a metà Ottocento, in quello spazio pubblico che erano i giornali, «si inseriva come variabile distorsiva e dispotica la proprietà privata delle testate», così oggi la proprietà del calcolo si oppone agli algoritmi di libertà.

È un tema questo fondante di una nuova democrazia del calcolo, che non può prescindere da una sorta di «neokantismo digitale», dove l’etica sia un valore sostanziale e funzionale di una società immateriale. Non è questa domanda di emancipazione dal controllo dei pochi decisori del sapere nulla di più di quanto si è sempre visto nel pieno di un vortice di cambiamento?

A metà dell’Ottocento, un altro pensatore parlò di tecnologie di libertà. Era un giovane e squattrinato giornalista apolide, che fra Germania, Francia e Inghilterra cercava libertà e tempo per scrivere un libro sulle tecnologie del suo momento, le industrie a vapore, e sulla «gazzetta Renana» così vedeva il nuovo conflitto di civiltà attorno alla comunicazione che «che trasforma il conflitto materiale in conflitto di idee», il futuro incendiario del capitalismo denunciava che in quello spazio pubblico che erano i giornali, «si inseriva come variabile distorsiva e dispotica la proprietà privata delle testate». Così oggi la proprietà del calcolo si oppone agli algoritmi di libertà. E di conseguenza gli algoritmi di libertà devono contrapporsi al re digitale che vuole ridurci a sudditi.

Add comment

Submit