Per la rigenerazione della rappresentanza politica
di Paolo Bartolini, Carlo Cattivelli
Per comprendere a fondo la cosiddetta crisi della rappresentanza politica, e immaginare una rinascita delle forme di azione democratica, vale la pena tentare un distinguo provvisorio fra disagio e dissenso. Di per sé il disagio, per quanto diffuso, è l’espressione di un’idiosincrasia: testimonia un disequilibrio, ma non è strutturato. Possiamo parlare di un sintomo che, per diventare dissenso articolato e poi progetto di trasformazione, dovrebbe diventare prima di tutto discorso pubblico. Solo in ultimo può ambire a tradursi in rappresentanza politica: ovvero, voce collettiva in grado di intervenire nel dibattito e interloquire con la narrazione dominante, rettificandola. Nel periodo medio-lungo, l’intero sistema impara in tal modo ad articolare risposte adattive più varie e sofisticate.
Al contrario, in mancanza di dissenso e di proposte alternative, le risposte del sistema si fanno progressivamente più sclerotiche e quindi poco efficaci, se non dannose. Quest'ultimo è il caso delle “avanzate” società occidentali: siamo bombardati da espressioni di disagio, soprattutto su internet, ma poveri di discorsi pubblici per esprimere un dissenso argomentato dando vita a correlative forme di rappresentanza.
Sicché le collettività rischiano di ridursi a insiemi di individui più o meno liberi di “dire e fare quello che vogliono”, ma ideologicamente molto più neutri e uniformi di quanto non fossero anche solo trent’anni fa. Crediamo che questa debolezza complessiva del fare/pensare politico, ci stia consegnando senza conflitto reale alla svolta autoritaria delle democrazie neoliberali, basata sul crescente astensionismo, sul massiccio ritiro della popolazione dalla partecipazione alla vita delle istituzioni (e di un pensiero istituente, come ricorda da anni il filosofo Roberto Esposito, avremmo un grande bisogno) e sulla moltiplicazione capillare di polarizzazioni sterili negli spazi virtuali dei social media.
Numerose concause hanno prodotto questo risultato. Alcune esogene: ad esempio, il diffuso controllo dei mezzi di comunicazione da parte di quelle stesse oligarchie che manipolano - o gestiscono direttamente - il potere. Fra quelle endogene, la principale è probabilmente la rapidissima trasformazione della lingua e dei codici comunicativi nel corso degli ultimi decenni: vera e propria frattura antropologica (riassunta nell’espressione “digital divide”, insufficiente e un po’ ridicola) che ormai separa “boomers” da “millennials” ben più di quanto non accada con la consueta discontinuità intergenerazionale.
Ci troviamo infatti al cospetto di un grandioso processo involutivo che ha visto, quanto meno in Italia, la drastica erosione delle complesse strutture sintattiche della lingua, sopraffatta da paratassi e rarefazione del bagaglio lessicale. E che fa il paio con la preferenza accordata a forme di comunicazione irriflessa, ipersemplificata, veloce, aforistica, prevalentemente iconica (TikTok, Instagram, etc.), o con forme di musica ridotta ai minimi termini sotto tutti i profili. Non dobbiamo, tuttavia, ritenere necessariamente che questo processo in corso rechi con sé solo aspetti disastrosi per la democrazia (già esaurita per l’estenuante usura dovuta all’allargamento incontrollato degli interessi economici su tutte le altre sfere del vivere associato).
Diciamo allora che, in questa velocissima trasformazione delle parole e della lingua, e dunque del pensiero collettivo, possiamo distinguere due momenti: uno di palese disarticolazione del già dato (obsolescenza delle vecchie forme di rappresentanza), e uno di creativa e confusa rigenerazione (abbozzo di nuove forme di rappresentanza e di attivismo in genere). Vediamoli brevemente nel dettaglio.
La prima tendenza ha prodotto severe linee di faglia, riducendo drasticamente il terreno comune e quindi le possibili interazioni e integrazioni fra vecchio e nuovo: quando si parlano lingue “così diverse”, non solo l’incontro e il confronto, ma perfino lo scontro diventa impossibile, se non inutile. Le rivolte in Francia di questi giorni dicono di questa incomunicabilità radicale, sostituita drammaticamente da esplosioni di disagio prive di progetto e di rivendicazioni sostanziali, incanalate facilmente in forme di rottura che sembrano lontane dal conflitto generativo di una politica consapevole, e assomigliano piuttosto a schegge di malessere che testimoniano il fallimento totale dell’impostazione neoliberale della società.
Da qui la sostanziale, reciproca estraneità intergenerazionale, e in particolare l’estraneità o il rifiuto prevalentemente giovanile delle più tradizionali forme di rappresentanza (partiti, corpi intermedi, etc.), a loro volta espressione di parole e forme del discorso pubblico avvertite - a torto o a ragione - come anacronistiche, false e superate. Col risultato che l’astensionismo elettorale, sopra ricordato, in Italia e non solo raggiunge il suo vertice proprio fra le fasce dell’elettorato più giovane, in particolare quello meno scolarizzato. E chi di recente ha osservato da vicino cortei pacifisti e simili, avrà forse notato la diserzione giovanile attestata, anche solo a occhio nudo, dall’età media dei partecipanti - probabilmente superiore a quella, di per sé elevata, delle nostre comunità.
Il momento costruttivo, invece, determina tra mille ambivalenze l’andamento carsico delle nuove forme di protesta e di rappresentanza, plasmandone modi e linguaggi in forme quasi sconcertanti per chi proviene da altre storie e culture. Gli esempi, solo per rimanere in Italia, non mancano: dal M5S (nelle sue fasi inziali), ai movimenti ecologisti, fino alle famigerate Sardine. Si tratta di esperienze fra loro assai diverse e quasi incommensurabili sotto molti rispetti, ma a ben vedere accomunate da una certa “aria di famiglia”, proprio perché in qualche modo figlie delle trasformazioni linguistiche e culturali cui abbiamo accennato, e dalle quali mutuano molte delle proprie peculiarità: la struttura leggera, precaria, la velocità, la prevalenza dell’aspetto comunicativo su quello dei contenuti. Purtroppo, rischiano di mutuarne anche la tendenza a trascurare la complessità del reale. Si pensi ad esempio ai movimenti ecologisti, peraltro ricchi di partecipazione autentica, che di contro non sembrano cogliere puntualmente il nesso profondo fra politiche ambientaliste da una parte, e giganteschi conflitti distributivi e di classe implicati in quelle stesse politiche dall’altra. Questo non deve spingerci, come accade tristemente in più circostanze, a considerare i giovani militanti verdi, rosa e di rado rossi degli “utili idioti” al servizio di un fantomatico Great Reset. Dobbiamo, invece, riaprire il canale dell’incontro mediante il primo gesto indispensabile: ascoltare, interrogare il disagio e aiutarlo a tramutarsi in dissenso e in proposta, passando per un recupero graduale della simbolizzazione, senza la quale sensazioni ed emozioni grezze finiscono per ruotare vorticosamente su sé stesse.
Sicuramente il mediattivismo è un buon terreno sul quale darci appuntamento, purché si cerchino linguaggi appropriati per rispondere alla sensibilità e alle paure delle nuove generazioni. Linguaggi chiamati ad abbandonare la supponenza e il giudizio, ostacoli insormontabili per ripensare insieme ai giovani le future forme di rappresentanza politica in un mondo nel quale movimenti dal basso e partiti/movimenti nelle istituzioni devono maturare equilibri inediti e circoli virtuosi. Il fallimento dell’esperimento cinquestelle in Italia, certo viziato da problemi di fondo mai affrontati in maniera veramente democratica, ha lasciato macerie dove stava sorgendo un diffuso senso di coalescenza possibile tra strati diversi della popolazione, tutti colpiti dalla gestione bipartisan dell’esistente operata dal centro-sinistra e dalle destre fascioliberiste. Il coraggio che ci è richiesto, in un’ottica di cosciente intersezionalità delle lotte, è quello di unire i puntini là dove manca ancora un modo di pensare condiviso che sappia coerentemente esprimersi sulla geopolitica, sull’economia, sulla crisi ecoclimatica, sui diritti civili. Com-porre questi temi e non separarli è l’urgenza che può unire vecchie e nuove generazioni in un passaggio d’epoca delicatissimo.