Gabbie salariali o salario minimo?
di Federico Giusti*
Lo standard minimo di 9 euro “morderebbe” soprattutto nel settore terziario, questa è la denuncia del giuslavorista Ichino sul portale liberal LaVoce. info.
E non è casuale che nel centro sinistra solo il partito di Renzi si sia sottratto alla richiesta di un salario minimo orario di 9 euro facendo proprie paure e rimostranze di parte del mondo produttivo e delle associazioni datoriali.
È proprio il terziario l’ambito privilegiato dei bassi salari, dei contratti pirata o di quelli, sottoscritti dai sindacati rappresentativi, al ribasso. Sempre nel terziario i contratti atipici e a tempo determinato hanno enorme spazio, che poi le forze di centro sinistra vogliano rifarsi una verginità proponendo il salario minimo è cosa risaputa ma da qui a negare la necessità di un provvedimento siffatto corre grande differenza.
Noi siamo tra quanti ritengono insufficiente un salario minimo senza rimettere in discussione l’accordo del 2009, senza porre fino alla vergogna di contratti nazionali siglati con anni di ritardo ricorrendo alla futile compensazione della indennità di vacanza contrattuale pari a una dozzina di euro al mese, soldi poi da detrarre dagli aumenti siglati al momento della firma del nuovo ccnl.
L’accordo del 2009 ha fatto perdere ai salari migliaia di euro di potere di acquisto, i rinnovi sono calcolati con il codice Ipca che è stato pensato dentro una cornice europea rivolta al contenimento del potere di acquisto dei salariati tutti.
Per anni i sindacati rappresentativi hanno opposto feroce opposizione al salario minimo vedendo in questo progetto un attacco diretto al loro potere contrattuale, ma quasi 20 anni di contratti in perdita hanno rimesso al centro del dibattito politico la questione.
Non è detto che la proposta del centro sinistra si tramuti in legge, a destra non esiste alcuna volontà di accrescere i salari avendo assunto come faro guida, fin dall’insediamento del Governo Meloni, il tema della moderazione salariale. Le ragioni dei datori e degli imprenditori, ma anche del mondo cooperativo, sono decisamente più forti delle istanze dei salariati, poi qualora si trovasse un accordo in Parlamento innumerevoli contratti dovrebbero rialzare i minimi tabellari per decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici. E sia ben chiaro che ad essere minacciato sarebbe anche quel consociativismo costruito tra sindacati e datori all’insegna del contenimento del costo del lavoro.
Teniamo conto che già oggi le categorie più basse del terziario arrivano a stento a poco più di sette euro all’ora, quasi due euro in più di paga oraria sarebbero tali da mettere in ginocchio tante aziende e cooperative ma soprattutto l’intero sistema degli appalti e delle privatizzazioni.
Un’ eventuale legge sul salario minimo orario pari 9 euro andrebbe a colpire soprattutto le aziende del centro Nord dove maggiore è la presenza nel terziario e la discesa in campo di intellettuali, giornalisti e politici a favore delle imprese suona come una sorta di chiamata alle armi per la classe imprenditoriale. Ma l’occasione potrebbe essere ghiotta anche per gli assertori delle gabbie salariali che il sindacato e il centro sinistra decenni fa combatterono aspramente, gabbie salariali potrebbero essere riproposte adducendo la motivazione che nelle aree del Sud Italia il costo della vita è inferiore al centro nord e di conseguenza anche i salari dovrebbero essere più bassi. In questa ottica potrebbero muoversi anche i paladini dell’autonomia differenziata favorendo la nascita di aree regionali dove il costo del lavoro sarebbe basso. A detta di alcuni giuslavoristi i salari inferiori potrebbero attrarre investitori ma questa tesi, per altro già smentita dai fatti, non risulta credibile dacché 40 anni di moderazione salariale hanno precarizzato ulteriormente il lavoro senza creare nuova occupazione.
Non si capisce gli eventuali effetti positivi derivanti dall’assegnare al Cnel, il compito di decidere lo standard minimo degli stipendi e della paga oraria se non il tentativo di scongiurare l’approvazione di una legge sul salario minimo che costringerebbe da subito all’adeguamento delle tabelle retributive, insomma guadagnare tempo ripescando i sindacati nel loro ruolo concertativo e alla fine ottenere il risultato sperato :irrisori aumenti senza accrescere il potere di acquisto e soprattutto salvaguardando il sistema costruito degli anni con appalti e subappalti.
Altra soluzione all’orizzonte potrebbe essere quella di approvare una nuova legge sulla rappresentanza che attribuisca maggiori poteri alla contrattazione di secondo livello per indebolire invece il contratto nazionale decretandone nei fatti la morte e così favorire invece standard e paghe differenti da provincia a provincia.
Su un punto le obiezioni di Ichino potrebbero essere prese sul serio, laddove critica la scarsa trasparenza del sistema retributivo italiano ma invocando una sorta di semplificazione si rischia di togliere la quattordicesima mensilità ai comparti contrattuali che ne prevedono l’applicazione.
Altro pericolo è per noi rappresentato dal welfare aziendale che in molti casi scambia salario e aumenti reali con un insieme di servizi o in taluni casi baratta la flessibilità con buoni benzina o ticket restaurant da 5 euro. Siamo consapevoli che le voci retributive alla base del salario possano anche essere complicate e contraddittorie ma forse mentre si focalizza l’attenzione sul salario minimo per raggiungere ben altri obiettivi. Gabbie salariali, fine della quattordicesima, rafforzamento del welfare aziendale e della contrattazione di secondo livello con tutte quelle deroghe peggiorative sono già oggi una realtà che ha portato alla detassazione dei premi di risultato in cambio di aumenti considerevoli della produttività, dei ritmi e dei tempi di lavoro. E allora la discussione sul salario minimo rischia di diventare fuorviante qualora non riuscissimo a entrare nel merito dell’accordo del 2009, dei tempi di rinnovo dei contratti nazionali, di una indennità di vacanza contrattuale che per essere degna di questo nome dovrebbe essere almeno pari a 50 euro netti al mese senza poi essere costretti a restituire le somme percepite al momento della firma del nuovo ccnl.
Il nostro impegno sia allora essere indirizzato a una discussione seria ed approfondita sul potere di acquisto e di contrattazione, nell’ottica di porre fine al monopolio della rappresentanza dei sindacati rappresentativi che sono responsabili della situazione attuale. Serve allora una discussione reale e non fittizia sul salario, sul potere di acquisto se vogliamo contrastare seriamente le sirene delle gabbie salariali che mai come oggi rappresentano una suggestione per le associazioni datoriali e i partiti ai quali fanno da tempo riferimento.







































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