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“Il governo dell’uomo indebitato”

Introduzione

di Maurizio Lazzarato

Austerità

«I 500 più ricchi di Francia in un anno hanno aumentato la loro fortuna del 25%. In un decennio la loro ricchezza è quadruplicata e rappresenta oggi il 16% del Pil del paese. Equivale al 10% del patrimonio finanziario dei francesi, cioè un decimo della ricchezza è in mano a un centomillesimo della popolazione» («le Monde», 11 luglio 2013).

Mentre i media, gli esperti, i politici si riempiono la bocca di pareggi di bilancio, assistiamo a una seconda grande espropriazione della ricchezza sociale, dopo quella messa in pratica dalla finanza a partire dagli anni Ottanta. La particolarità della crisi del debito è che le sue cause vengono assunte a rimedio. Un circolo vizioso che non è sintomo dell’incompetenza delle nostre oligarchie, ma del loro cinismo di classe, poiché persegue un fine politico preciso: distruggere le residuali resistenze (salari, redditi, servizi) alla logica neoliberista.


Debito pubblico

Con l’austerità i debiti pubblici hanno raggiunto picchi da record, il che significa che anche le rendite dei creditori hanno raggiunto picchi da record.


Imposta

L’imposta è il principale strumento di governo del’uomo indebitato. L’imposta non viene dopo la produzione e non ha una funzione meramente distributiva. Al pari della moneta, essa non ha un’origine commerciale, ma direttamente politica. Quando, nella crisi del debito, la moneta non circola più né come strumento di pagamento né come capitale; quando il mercato non garantisce più funzioni di misura e di collocamento delle risorse, a quel punto interviene l’imposta come strumento di governamentalità politica. L’imposta garantisce la continuità e la riproduzione del profitto e della rendita bloccate dalla crisi; esercita un controllo economico-disciplinare sulla popolazione; misura l’efficacia delle politiche di austerità sull’uomo indebitato.


Crescita

Oggi l’America ha la marcia in folle. Il motore della sua macchina gira, ma non avanza. E il motore gira unicamente perché la Federal Reserve acquista ogni mese 85 miliardi di titoli del Tesoro e di obbligazioni immobiliari e dal 2008 garantisce denaro a costo zero. L’America non è in recessione solo perché è oggetto di una continua trasfusione monetaria e, nonostante ciò, è incapace di trainare il resto del mondo fuori da una crisi che essa stessa ha provocato. L’enorme quantità di denaro iniettato ogni mese dalla Fed si limita a produrre un lievissimo aumento di posti di lavoro, per lo più di servizio, a bassissima retribuzione e part-time. In questo modo si continuano a riprodurre le cause della crisi e non solo perché il solco tra le differenze salariali tra la popolazione non smette di approfondirsi, ma anche perché si perpetua il rafforzamento della finanza.

Mentre la politica monetaria fallisce nel far ripartire l’economia e l’impiego, col rischio di alimentare un’altra bolla finanziaria, favorisce il boom economico di un unico settore, quello finanziario. L’enorme disponibilità di denaro messa a disposizione dell’economia transita anzitutto per le banche che, nel passaggio, non cessano di arricchirsi. Nonostante la crescita anemica degli altri settori, i mercati finanziari hanno toccato livelli record.

Sono tutti in attesa della crescita, ma è ben altra cosa ciò che s’intravvede all’orizzonte: supremazia della rendita, disuguaglianze abissali tra i lavoratori dipendenti e i loro manager, gigantesche differenze patrimoniali tra i più ricchi e i più poveri (in Francia il rapporto è 900 a 1), classi sociali cristallizzate sulla loro riproduzione, blocco della già debole mobilità sociale (soprattutto negli Stati Uniti dove il «sogno americano» è ormai solo un sogno), tutto ciò, più che alla creatività distruttiva del capitalismo, fa pensare all’Ancien Régime.


Crisi

Quando parliamo di crisi, ovviamente intendiamo la crisi scoppiata nel 2007 dopo il crollo del mercato immobiliare americano. In realtà si tratta di una definizione restrittiva e limitata, poiché è dal 1973 che subiamo la crisi. La crisi è permanente: a cambiare sono solo la sua intensità e il nome che le si dà. La governamentalità liberale e liberista si esercita nel passaggio dalla crisi economica alla crisi climatica, alla crisi demografica, energetica, alimentare e così via. Col variare del nome, varia solo il tipo di paura. Paura e crisi costituiscono l’orizzonte insuperabile della governamentalità del capitalismo neoliberista. Non usciremo dalla crisi (tutt’al più cambierà d’intensità), semplicemente perché la crisi è la modalità di governo del capitalismo contemporaneo.


Capitalismo di Stato

«Il capitalismo non è mai stato liberale, è sempre stato capitalismo di Stato». La crisi dei debiti sovrani mostra senza alcun dubbio la pertinenza di questa affermazione di Deleuze e Guattari. Il liberalismo è solo una delle possibili forme di soggettivazione del capitalismo di Stato: sovranità e governamentalità funzionano sempre di pari passo e di concerto. Nella crisi i neoliberali non cercano affatto di governare il meno possibile, al contrario cercano di governare qualunque cosa e fin nel più infimo dettaglio. Non producono «libertà», ma la sua continua limitazione. Non propongono l’articolazione tra libertà del mercato e Stato di diritto, ma mettono in pratica la sospensione della già debole democrazia. La gestione neoliberista della crisi non esita a integrare uno «Stato massimo», il quale, perduta ogni autonomia in relazione al capitale, esprime la propria sovranità unicamente come controllo sulla popolazione.


Governamentalità

La crisi rende evidenti i limiti di una delle più importanti categorie di Michel Foucault, quella di governamentalità, e ci spinge a svilupparla. Governare, secondo Foucault, non significa sottomettere, comandare, dirigere, ordinare, normalizzare. Né forza fisica, né divieto, né norma di comportamento, la governamentalità si limiterebbe a organizzare, attraverso una serie di regolamentazioni flessibili e in grado di adattarsi, un ambiente che solleciti, inciti l’individuo a reagire in un modo piuttosto che in un altro. La crisi, invece, ci rivela che le tecniche di governamentalità sono: imposizione, divieto, norma, direzione, comando, ordine e normalizzazione. La governamentalità diventa, in maniera irreversibile, autoritaria.

La privatizzazione della governamentalità ci costringe a prendere in considerazione dispositivi biopolitici non statuali. Fin dagli anni Venti si sviluppano tecnologie di governance basate sul consumo, che si sono via via arricchite di marketing, sondaggi, televisione, internet, reti sociali. Questi dispositivi biopolitici sono contemporaneamente dispositivi di valorizzazione, di produzione di soggettività e di controllo poliziesco.


Lotta di classe

Il capitalismo neoliberista ha instaurato e governa una lotta di classe asimmetrica. Perché esiste solo una classe: ricomposta intorno alla finanza, intorno al potere della moneta di credito o al denaro come capitale. La classe operaia non è più una classe. Dagli anni Settanta il numero complessivo di operai nel mondo è enormemente aumentato, ma gli operai non rappresentano più una classe politica e non la rappresenteranno mai più. Gli operai hanno certamente un’esistenza sociologica, economica, ma la centralità del rapporto creditore/debitore li ha definitivamente confinati alla marginalità politica. Partendo dalla finanza e dal credito, il capitale è continuamente all’attacco. Partendo dal rapporto capitale/lavoro ciò che resta del movimento operaio è continuamente sulla difensiva e regolarmente sconfitto.

La nuova composizione di classe emersa nel corso degli ultimi decenni senza passare dalla fabbrica, costituita da una molteplicità di situazioni di impiego, di non impiego, di impiego intermittente, di povertà più o meno grande, è dispersa, frammentata, precarizzata ed è ancora ben lontano dal darsi i mezzi per essere una «classe» politica, anche se rappresenta la maggioranza della popolazione. Come i barbari alla fine dell’Impero romano, essa compie incursioni veloci e intense, pronta a ripiegare subito dopo sui propri territori, sconosciuti ai più e soprattutto ai partiti e ai sindacati. Essa non si insedia. Dà l’impressione di tastare la sua stessa forza (ancora troppo debole) e quella dell’«Impero» (ancora troppo forte), per poi ritirarsi.


Finanza

Una molteplicità di dibattiti inutili tengono impegnati giornalisti, esperti, economisti e uomini politici: la finanza è parassitaria, speculativa o produttiva? Controverse oziose, perché la finanza (e le politiche monetarie e fiscali che l’accompagnano) è la politica del capitale.

Il rapporto creditore/debitore introduce una forte discontinuità nella storia del capitalismo. Per la prima volta dacché esiste il capitalismo, non è più il rapporto capitale/lavoro a essere al centro della vita economica, sociale e politica. In trent’anni di finanziarizzazione, il salario, da variabile indipendente del sistema, si è trasformato in variabile di aggiustamento (sempre al ribasso per quanto riguarda il salario e al rialzo per quanto riguarda la flessibilità e il tempo di lavoro).


Trasversalità

Ciò che occorre sottolineare non è tanto la potenza economica della finanza, le sue innovazioni tecniche, ma il fatto che essa funzioni come un dispositivo di governance trasversale alla società e all’intero pianeta. La finanza opera trasversalmente alla produzione, al sistema politico, al Welfare, al consumo. La crisi dei debiti sovrani conferma, approfondisce, radicalizza in senso autoritario le tecnologie di governo trasversali, poiché «siamo tutti indebitati». Un’organizzazione delle lotte fondata su base nazionale e su una divisione tra salariati a tempo pieno e precari, tra società ed economia, tra economia e sistema politico, è incapace anche solo di resistere alla trasversalità della finanza.


Capitale umano (o imprenditore di sé)

La crisi non è solo economica, sociale e politica. È anzitutto una crisi del modello soggettivo neoliberista incarnato nel capitale umano. Il progetto di sostituire il lavoratore salariato del fordismo con l’imprenditore di sé, trasformando l’individuo in impresa individuale che gestisce le proprie capacità come risorse economiche da capitalizzare, è crollato con la crisi dei subprime. Da questo punto di vista, la situazione dei paesi ricchi e quella dei paesi emergenti, anziché divergere – con la stagnazione e il declino dei primi e la crescita e il progresso dei secondi – converge nella produzione di uno stesso modello di soggettività, riproposto malgrado il suo fallimento: il capitale umano (il neoliberismo non ne ha altri da proporre).

Il capitale umano implica un massimo di privatizzazione economica e un massimo di individualizzazione. Le politiche sociali, al contrario, introducono ovunque un minimo (un salario minimo, un reddito minimo, dei servizi minimi) affinché l’imprenditore di sé sia costretto a lanciarsi nella concorrenza di tutti contro tutti. Un tale risultato può anche essere raggiunto diversamente, come in Germania, dove il salario minimo non esiste, ma esistono otto milioni di lavoratori poveri.

La globalizzazione capitalistica si ammanta di aver fatto uscire milioni di poveri dall’estrema miseria del «sud» del mondo. In realtà, queste politiche non sono affatto incompatibili con il neoliberismo. Quando sono condotte su vasta scala, come in Brasile, arrivano persino a configurarsi come una sperimentazione in grado di fornire una forza lavoro adeguata al capitalismo dei paesi emergenti. In Brasile, tra le molte cause della mobilitazione dell’estate 2013, c’è anche questa. Sia la minoranza uscita dall’estrema povertà che la nuova composizione di classe metropolitana in via di impoverimento si sono trovate di fronte non solo a una macroeconomia organizzata secondo i più classici principi neoliberisti, ma anche a un Welfare State a doppia velocità: da una parte dei servizi sociali di qualità mediocre (minimo di servizi) e dall’altra delle buone scuole, un sistema sanitario funzionante, dei servizi di qualità, ma il tutto a pagamento. Per accedervi occorre «mobilitarsi» e gettarsi nella mischia del darwinismo sociale in salsa «socialista». Con grande realismo, invece ci si è mobilitati per la giustizia sociale e contro la versione «sud» del capitale umano. In Europa il processo è inverso (qui il problema è di smantellare i servizi pubblici gratuiti), benché giunga al medesimo risultato: la costruzione di un Welfare a duplice velocità è andata accelerando con la crisi del debito.


Riformismo

Nel capitalismo neoliberista il New Deal è impossibile. L’unico riformismo che il capitale abbia mai praticato, e che abbia introdotto veri cambiamenti, è quello utilizzato per far fronte alla crisi del 1929, misure che sono l’esatto contrario delle riforme neoliberiste. Ha neutralizzato la finanza (quello che J. M. Keynes chiama l’eutanasia del rentier), ha distribuito reddito attraverso il consumo e i servizi sociali, ha intaccato, anche se timidamente, lo statuto della proprietà. Ha imposto la centralità politica del rapporto capitale/lavoro giungendo a un compromesso con le organizzazioni del movimento operaio che, in cambio del lavoro e di servizi indicizzati sul lavoro, hanno dato il proprio consenso. Ha costruito un «capitale di soggettività» nella figura del lavoratore salariato a tempo pieno. Cosa che oggi nessun governo del pianeta ha fatto, è riuscito a fare o farà. Persino le recenti ed eterogenee esperienze dei governi di sinistra in America Latina sono lontane, molto lontane, dall’approssimarsi alle condizioni del riformismo. Certo non per colpa loro: in assenza di rapporti di forza non c’è possibilità di imporre alcunché al capitale finanziarizzato. Le rivolte brasiliane si sono affrettate a ricordare questa realtà al mondo intero e anzitutto ai dirigenti del Partito dei lavoratori, così come a quelli che in Europa scommettono sulle sperimentazioni dei governi di «sinistra» in America latina (e altrove).


Rifiuto del lavoro

Il ciclo di lotte cominciato nel 2008 e che ha attraversato indifferentemente il Sud e il Nord del pianeta si oppone alla globalizzazione in una forma più mirata e meno «ideologica» del ciclo di lotte del decennio precedente, cominciato con Seattle nel 1999; mettendo in pratica il rifiuto della rappresentanza sindacale e politica, l’autorganizzazione, l’utilizzo di ciò che ipocritamente viene chiamato rete sociale, che non pochi confondono allegramente con l’organizzazione politica. Ma «che fare» dopo la spontaneità delle rivolte? Idee e pratiche fanno difetto. Assumendoci qualche rischio lanciamo alcune ipotesi inevitabilmente ancora astratte.

Intendere l’azione politica come una rottura può aprire prospettive alle modalità di espressione e di organizzazione dei movimenti contemporanei, facendo emergere l’impensato delle rivoluzioni del XIX e del XX secolo. Le incredibili mobilitazioni di questo nuovo ciclo di lotte (Brasile, Turchia, Grecia, Spagna, Egitto) sono anche, e allo stesso tempo, una smobilitazione generale, un rifiuto del lavoro all’altezza della valorizzazione capitalistica contemporanea e delle sue soggettivazioni, proprio come lo sciopero operaio era un’azione che aveva il proprio motore nell’inoperosità radicale, nel blocco, nell’immobilizzo della produzione.

Il movimento operaio è esistito solo perché lo sciopero è stato allo stesso tempo un non movimento, capace di sospendere i ruoli, le funzioni e le gerarchie della divisione del lavoro. Problematizzare un unico aspetto della lotta, l’aspetto del movimento, è stato un grande handicap che ha fatto del movimento operaio un acceleratore del produttivismo, dell’industrializzazione, un propulsore del lavoro, della credenza scientista nella neutralità della scienza e della tecnica. L’altra dimensione della lotta, quella che implicava il non movimento del rifiuto del lavoro, è stata trascurata (fatta eccezione per l’operaismo italiano) o problematizzata in modo molto insufficiente dal postoperaismo, che l’ha abbandonata.

L’immaginazione politica comunista,dopo aver prodotto il «diritto all’ozio» di Paul Lafargue, genero di Marx, in polemica con il «diritto al lavoro» di Louis Blanc, si è limitata a leggere questo testo come un libercolo per scandalizzare i borghesi, evitando di confrontarsi con le implicazioni ontologiche e politiche che il rifiuto del lavoro, la sospensione dell’attività e del comando aprivano come possibilità di fuoriuscita dal modello dell’homo faber, dall’orgoglio dei produttori e dalla sua promessa prometea di dominio sulla natura.


Rottura

In ogni evento politico sono necessariamente presenti diverse linee che coesistono e possono ricomporsi o opporsi e scontrarsi. Una linea (dell’interesse) che si insedia nei rapporti di potere, di significazione e di dominio in vigore, per combatterli; e una linea (del desiderio o del possibile) che invece sospende i rapporti di forza e di potere, neutralizza le significazioni dominanti, rifiuta le funzioni e i ruoli di comando e d’obbedienza impliciti nella divisione sociale del lavoro e crea un nuovo blocco di possibili.

La linea del movimento ha cause, persegue obiettivi e apre alla lotta uno spazio prevedibile, calcolabile, probabile all’interno dei rapporti di potere dati. La linea della smobilitazione, a partire dalla sospensione delle leggi del capitale, si avventura lungo un percorso non calcolabile, imprevedibile, incerto, che un filosofo come Félix Guattari pensa di poter descrivere unicamente attraverso un paradigma estetico, perché la soggettività e le istituzioni, non sono già date, ma vanno prodotte secondo tutt’altra logica da quella economico-politica.

Un evento politico come quello brasiliano o turco dell’estate 2013 non cambia immediatamente il mondo, né la società, si limita a operare un rovesciamento di prospettiva della soggettività e ad aprire la possibilità del passaggio da un modo di esistenza a un altro. La rottura rappresenta solo un cominciamento, un abbozzo la cui realizzazione è indeterminata, improbabile, per non dire «impossibile», secondo i principi del potere stabilito.

Una lotta politica non può che articolare i due momenti della rottura determinata dall’evento politico, passando continuamente dall’uno all’altro (dal possibile alla sua realizzazione, e viceversa). Ma la linea del non movimento, del rifiuto dei ruoli e delle funzioni, resta strategica e, per svilupparsi, per prendere consistenza, deve trasformare la linea degli interessi e delle istituzioni. La rottura politica viene dalla storia e, a partire dal momento non storico – come direbbe Nietzsche, «intempestivo» – che essa determina, deve ritornare alla storia, trasformando i rapporti di potere e le soggettività.

Questa duplice dinamica, l’esistenza e i rapporti tra queste linee, costituisce il problema dell’organizzazione politica contemporanea. I possibili emersi dalla rottura politica sono la posta in gioco intorno ai quali si scatena la battaglia, per la loro realizzazione o per la loro neutralizzazione. Schiacciarli sulla linea dei rapporti di potere prestabiliti, riportare le soggettività in formazione alle funzioni e ai ruoli fissati dalla divisione del lavoro, separare la linea del movimento dalla linea del non movimento e giocare l’una contro l’altra, è l’obiettivo dell’istituzione capitalistica e della «sinistra».


Destituzione/istituzione

Le due linee dell’azione politica create dalla rottura procedono per strade differenti. La linea del movimento, riconoscendo i rapporti di forza in vigore, li investe per destituire le istituzioni del capitalismo. I dualismi del capitale non sono dialettici, sono reali e occorre disfarli sul serio. Senza la destituzione delle tre valenze del termine nomos (prendere, dividere, produrre) – preso in prestito da Carl Schmitt e capace a suo dire di definire ogni ordine politico – lo sviluppo della linea di non-mobilitazione rimane una chimera. Senza l’esproprio degli espropriatori («riprendere» non solo le immense ricchezze catturate dalla finanziarizzazione e dall’austerità, ma anche i saperi, i territori esistenziali, ecc.), senza una radicale messa in discussione dell’individualismo proprietario («dividere»), senza disfarsi del concetto di «produzione», a partire dall’origine stessa dell’azione, l’inoperosità del rifiuto del lavoro non è possibile alcun processo di nuova istituzione.

La linea del non movimento, riconoscendo invece i possibili creati dalla rottura, non si limita a porsi contro la logica del capitale, ma si impegna a far proliferare la molteplicità dei processi di soggettivazione (e delle loro istituzioni), che non sono unicamente politici ma anche esistenziali.

Le modalità di espressione, di lotta e di organizzazione non sono le stesse lungo le due linee. Da qui la difficoltà a pensare il dopo dei «tumulti», poiché né il modello del partito né il modello del sindacato sono di grande aiuto per pensare e per tenere insieme questa nuova e duplice dinamica.


Rappresentazione

Il rifiuto della rappresentazione è profondamente radicato nella nuova composizione di classe e ha le proprie ragioni (radici) nelle condizioni dell’azione politica contemporanea. La rappresentazione politica presuppone l’identità del rappresentato, mentre la linea della smobilitazione produce una sospensione delle identità stabilite.

La rappresentazione implica funzioni, ruoli, identità che sono le categorie socio-economiche della divisione del lavoro. Il rifiuto del lavoro (metropolitano) mette in atto, anche se per un breve momento, una sospensione delle gerarchie e afferma l’uguaglianza, al di là della divisione della società in interessi. Gerarchie e interessi si possono rappresentare perché rimandano a soggettività già istituite, ma non il farsi di nuove soggettività e di nuove istituzioni.

La rappresentazione viene a colmare la rottura e a chiudere la breccia aperta dall’evento politico, schiacciando le soggettività e le istituzioni in divenire sulle identità e i rapporti di potere stabiliti. È la ragione per la quale i movimenti scompaiono, per ora, così velocemente dallo spazio pubblico. Ancora non vi sono le condizioni per imporre l’autonomia politica della loro processualità costituente (non solo in termini politico-giuridici).


Il possibile

In alternativa alle definizioni economiciste del capitalismo (cognitivo, culturale, immateriale), Guattari propone di definirlo come «un’economia del possibile». Il capitalismo (e il suo potere) si definisce anzitutto come un controllo assoluto su ciò che è possibile e ciò che è impossibile. La prima parola d’ordine del neoliberismo è stata «non c’è alternativa», ovvero non c’è altra possibilità se non quella formulata dal mercato e dalla finanza. E la crisi del debito sovrano ripete la stessa solfa: l’uomo indebitato deve pagare, perché non vi sono altre possibilità. Ciò che viene espropriato dalla politica del credito/debito non sono unicamente la ricchezza, i saperi o il futuro, ma il possibile stesso.

Ed è al possibile che rimanda il desiderio, non semplicemente alla libido o alla pulsione. Vi è desiderio solo quando, a seguito della rottura di equilibri precedenti, compaiono relazioni che prima erano impossibili. Il desiderio è sempre rintracciabile attraverso l’impossibile a cui apre e attraverso i possibili che crea.


Macchine e segni

Le macchine sono ovunque tranne che nella teoria critica. Esse formano una specie di «capitale costante sociale» costituito in gran parte da tecnologie numeriche. I segni sono i motori semiotici di tali macchine e costituiscono il linguaggio a-significante attraverso il quale comunicano tra di loro, con altri non umani e con gli umani.

La trasversalità della finanza è efficace solo perché vi è un funzionamento trasversale alla società nel suo complesso delle macchine e dei segni. Le macchine numeriche miniaturizzate e i lori motori semiotici si insediano nelle materia, nei corpi e negli oggetti che ormai sono animati, non solo metaforicamente come nella teoria del feticismo marxiano, ma anche realmente, poiché percepiscono, ricevono e trasmettono informazioni. Macchine e segni entrano così nella nostra vita quotidiana, producendo nuovi tipi di assoggettamento e di asservimento.

Il capitale è un rapporto sociale, che però non possiamo ridurre all’intersoggettività. Le relazioni sono fin da subito macchiniche, nel senso che sono composte di umani e di serie sempre più grandi di non umani. Il capitale è una macchina sociale dalla quale derivano le macchine tecniche.


Il capitale è un operatore semiotico

Il capitale è un operatore semiotico e non linguistico, e la differenza è rilevante. Nel capitalismo i flussi di segni (la moneta, gli algoritmi, i diagrammi, le equazioni) agiscono direttamente sui flussi materiali, senza passare per la significazione, la referenza, la denotazione, categorie della linguistica insufficienti a dare conto del funzionamento della macchina capitalistica. Le semiotiche a-significanti della moneta, degli algoritmi, funzionano indipendentemente dal fatto che significhino qualcosa per qualcuno. Non sono rinchiuse nel dualismo significante/significato. Sono segni-operatori, segni-potenza, la cui azione non passa attraverso la coscienza e la rappresentazione (azione diagrammatica). Il capitalismo è macchinocentrico e non logocentrico, ragion per cui abbiamo bisogno di una semiotica e non semplicemente di una linguistica.


Forza

Vi è un’ultima e fondamentale condizione per cominciare a istituire ciò che emerge dalla rottura dell’evento, per poter anche solo immaginare di darsi modalità di organizzazione macro-politiche: la capacità di bloccare la valorizzazione capitalistica, la possibilità di fissare dei rapporti di forza e di mantenerli. In una lotta di classe con forze asimmetriche, è inutile proporsi come mediatori, ambasciatori, diplomatici. Il capitale non ha bisogno di alcuna mediazione, perché, non essendo minacciato, non ha alcuna ragione di scendere a patti con chicchessia. Il rapporto di forza è a suo vantaggio e può fare, più o meno, quel che gli aggrada.

La lotta di classe viene portata avanti con determinazione e con tutta la violenza necessaria soltanto da parte della classe che si è ricomposta intorno alla finanziarizzazione. Il reale è sempre e ancora dominato dalle leggi del capitale, tra le quali la più temibile è l’introduzione dell’infinito nella produzione e nel consumo. È impossibile definire una politica senza un’analisi del capitale, da un lato, e una pratica della lotta di classe e del contropotere, dall’altro.

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