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sbilanciamoci

Cronache di un mondo indebitato

Vincenzo Comito

I. Il debito complessivo a livello mondiale ha raggiunto, a fine 2014, il livello di 200 trilioni di dollari

t2XFNL’esistenza di un rilevante livello e di una ulteriore e apparentemente inarrestabile crescita dell’indebitamento mondiale è un fenomeno molto evidente; ora, il suo collegamento, per diverse vie, alle difficoltà e al rallentamento dello sviluppo dell’economia, nei paesi sviluppati come in quelli emergenti, pone dei rilevanti problemi di analisi e suggerisce anche delle possibili linee di azione. Nelle tre puntate di questo articolo cercheremo di individuare la situazione e le prospettive di soluzione di una questione cruciale.

 

Alcuni dati di base

Già in uno scritto apparso in questo stesso sito qualche tempo fa (Comito, 2015) ricordavamo alcuni dati che danno un’idea del fenomeno; ad essi ne aggiungiamo ora degli altri, più analitici.

Nel testo citato ricordavamo, in particolare, un rapporto Mckinsey (Mckinsey, 2015) del febbraio di quest’anno, che forniva delle informazioni di base sulla situazione.

Il debito complessivo a livello mondiale aveva raggiunto alla fine del 2014 il livello di 200 trilioni di dollari, essendo aumentato di ben 57 trilioni soltanto nel periodo tra il 2007 e il 2014. La sua incidenza sul pil mondiale raggiungeva ormai alla stessa data il 286%, contro il 270% del 2007. Si ha la sensazione, peraltro ancora non ancora suffragata da dati aggiornati, che la tendenza all’aumento sia proseguita nel 2015.

Se vogliamo guardare anche allo specifico andamento dell’indebitamento nelle varie aree del mondo, ci vengono questa volta in soccorso, ad esempio, i dati forniti dalla Royal Bank of Scotland (Vittori, 2015).

Secondo tale studio, il livello dei debiti statunitensi superava i 20 trilioni di dollari nel 1997, per arrivare ai 50 trilioni nel 2009 e avvicinarsi oggi ai 60; in Europa si passava dai 20 trilioni del 2000 ai 40 nel 2009, peraltro con una leggera diminuzione negli ultimi anni; per quanto riguarda poi in specifico l’eurozona, il debito pubblico era cresciuto dal 66% del pil nel 2007 al 95% nel 2013, con Grecia, Italia, Portogallo, Irlanda con valori ben superiori al 100%. Per quanto riguarda i paesi emergenti, l’indebitamento complessivo è cresciuto dal 150% del pil nel 2009 al 195% di oggi. I prestiti bancari, sempre negli stessi paesi, sono passati dal 77% del pil nel 2007 al 128% agli inizi del 2015 (The Economist, 2015, a). In Cina, a fronte dei 10 trilioni di debiti complessivi del 2009 stanno i 30 trilioni di oggi. Nel frattempo il solo debito pubblico lordo giapponese si aggira ormai intorno al 250% del pil.

Sembra, tra l’altro, che l’eurozona segua in qualche modo il modello giapponese di gestione della crisi post-bolla, che è quello di arrabattarsi alla meno peggio sulla questione. Per altro verso, si può dire che i politici europei rimangono ciechi di fronte all’evidenza che il problema del debito non è risolto.

 

I debiti rallentano oggi lo sviluppo

Gli alti livelli dell’indebitamento stanno contribuendo ad offuscare lo sviluppo dell’economia mondiale, anche se non ne sono la sola causa. Così il Fondo Monetario Internazionale, nell’ottobre 2015, ha tagliato le previsioni di crescita a livello globale per il 2015 portandole al 3,1%, contro il 3,3% stimato precedentemente; bisogna poi anche ricordare che il dato del 3,1% sarebbe, tra l’altro, abbastanza inferiore al 3,4% del 2014 e che siamo, in ogni caso, ben lontani dai livelli che si raggiungevano solo qualche anno fa.

Lo stesso Fondo Monetario, peraltro, appare più ottimistico per quanto riguarda il 2016, anno per il quale esso prevede un tasso di aumento del pil del 3,6%. Ma, tra gli altri, l’Economist (The Economist, 2015, b) sottolinea come, data anche la situazione dell’indebitamento mondiale, tale previsione sia abbastanza ottimistica e sostanzialmente irrealistica. La lezione dei cicli passati di indebitamento suggerisce come appaia più probabile, invece, un altro anno di rallentamento economico. Personalmente suggeriremmo un incremento del pil per l’anno prossimo al massimo intorno al 3,2%.

Il sostanziale ridimensionamento della crescita economica frena poi, a sua volta, la soluzione del problema del debito. E’ noto come sia infatti più facile restituire delle somme in periodi di alti tassi di sviluppo dell’economia e in presenza di un elevato livello di inflazione, cose che mancano oggi crudelmente all’appello, mentre appare anche difficile sperare in sostanziali miglioramenti a breve nell’andamento delle due variabili.

 

Un percorso sinuoso e perverso dei movimenti di capitale

Sullo sfondo delle difficoltà odierne stanno l’ondata di deregolamentazione, il processo di innovazione finanziaria, la globalizzazione, che hanno fatto grandi passi in avanti negli scorsi decenni. Così oggi il denaro circola ormai molto facilmente nel mondo.

In tale quadro, le crisi finanziarie e poi economiche degli anni ottanta in America Latina e, soprattutto, degli anni novanta in Asia, centrate in particolare sulle difficoltà di gestione dell’indebitamento pubblico, hanno spinto i paesi di tali aree a politiche molto prudenti sul fronte finanziario.

In particolare, esse hanno a suo tempo convinto numerosi paesi emergenti asiatici, con in testa la Cina, a creare dei rilevanti eccedenti nelle loro bilance commerciali per accumulare così adeguate riserve valutarie al fine di parare i colpi delle possibili difficoltà in campo finanziario. Questi eccedenti verranno poi riciclati verso i paesi avanzati, soprattutto sotto la forma di prestiti.

Queste risorse contribuiranno così all’esplosione del mercato finanziario in occidente, in particolare negli Stati Uniti. La stagnazione del potere di acquisto delle masse e lo sviluppo delle diseguaglianze in tale paese minacciavano in effetti di bloccare la crescita dei mercati delle merci; ma il parallelo aumento del potere della finanza e lo sviluppo dell’innovazione in tale settore, aiutati anche dai forti influssi di denaro dall’Asia, avevano portato alla soluzione del problema attraverso una grande crescita del credito – si è trattato di un ciclo finanziario senza precedenti nella storia. E poi, ormai quasi dieci anni fa, era giunto il crollo del mondo del subprime

Nel frattempo il sistema finanziario statunitense era riuscito a scaricare una parte del peso dei crediti dubbi sul sistema bancario europeo. Nel nostro continente, tale problema, insieme ad alcuni fattori di debolezza locale, quali la crisi greca, porteranno successivamente anche in tale area allo scoppio della bolla del debito. In questo caso essa era alimentata, più che dal denaro asiatico, che pure non mancava, anche e soprattutto dagli eccedenti della bilance commerciali tedesche, in parte, in effetti, riciclate verso l’immobiliare spagnolo e irlandese, i titoli greci, i prestiti a privati nell’Europa dell’Est.

Con la crisi dei mercati finanziari occidentali e il pratico annullamento dei rendimenti del denaro per cercare di contenere le difficoltà delle economie ricche, i capitali eccedenti cominciavano così a dirigersi verso i paesi emergenti, considerata anche la forte dinamica del pil in tali regioni; in particolare, erano le grandi imprese dell’area che prendevano soldi a prestito a tutto spiano, anche per finanziare purtroppo progetti dubbi o acquisti di assets a prezzi fuori controllo (The Economist, 2015, b). Si stima che da quando nel 2008 la Fed ha avviato il suo programma di Quantitative Easing, ben 7 trilioni di dollari siano arrivati nei paesi emergenti.

Ma ora le difficoltà economiche in particolare di alcuni di essi, nonché le erratiche politiche monetarie statunitensi, solo mirate agli stretti e contingenti interessi nazionali, trascurando di considerare che il dollaro è il principale strumento di liquidità dei vari paesi, spingono gli stessi investitori a fuggire questa volta verso occidente. Tale esodo contribuisce così a scatenare una nuova bolla, che potrebbe avere rilevanti conseguenze sul fronte dell’economia reale, anche se per la verità i paesi emergenti hanno oggi strumenti di protezione molto più forti di qualche decennio fa.

L’Institute of International Finance prevede che il 2015 sarà il primo anno di uscite nette di capitali da tale area dal 1988 ad oggi; inoltre il flusso di investimenti stranieri si dimezzerà in rapporto al 2014 -490 miliardi di dollari contro 1.074 nell’anno precedente (Strohecker, 2015).

All’interno dei paesi sviluppati e di quelli emergenti esistono oggi, comunque, delle situazioni in ogni caso molto differenziate. E’ per questo che nella seconda puntata di questo articolo analizzeremo, tra l’altro, alcune tra le più importanti situazioni specifiche cui ci troviamo di fronte. In altri termini, ci sono paesi più e meno indebitati, con la prevalenza di debiti pubblici o privati, con prospettive di crescita e di inflazione, e quindi di soluzione del problema, anch’esse molto differenziate. Così, ad esempio, nel campo dei paesi in via di sviluppo, la situazione appare molto diversa tra paesi quali la Cina e il Brasile, mentre in quelli sviluppati abbiamo comunque rilevanti differenze di situazione e di prospettive tra l’Italia e gli Stati Uniti.

 

II. Tra paesi ricchi e paesi emergenti, una cartografia del mondo indebitato

Prima di esaminare analiticamente la situazione delle due principali categorie di paesi, quelli ricchi e quelli emergenti, appare opportuno sottolineare intanto che non tutti i debiti sono uguali. Bisogna infatti distinguere tra i vari casi facendo riferimento sia agli scopi per i quali le risorse verranno usate sia alle condizioni che favoriranno o meno la restituzione.

 

Perché si fanno debiti

1) I soldi possono essere intanto usati per fini di sviluppo, in particolare per avviare progetti di investimento o di ricerca che, se avranno successo, potranno migliorare il futuro di un paese, di un’impresa, di una famiglia; in questo caso, di solito, un maggior indebitamento può apparire come il benvenuto. Siamo invece di fronte ad un’ideologia neoliberista che vede con sospetto ogni suo aumento. Nella pratica oggi assistiamo, ad esempio nel caso degli Stati Uniti e della Germania, a dei governi che, pur in presenza di condizioni finanziarie favorevoli, si rifiutano di rinnovare il loro sistema di infrastrutture, in parte almeno molto vecchio, per paura di aumentare i loro deficit di bilancio. Nei decenni passati abbiamo invece registrato come una crescita dell’indebitamento dei pesi emergenti abbia contribuito allo sviluppo di tale area del mondo.

2) Maggiori debiti possono invece servire per far fronte a difficoltà di cassa temporanee, in relazione a produzioni a forte andamento ciclico o a programmi di investimento, pur sempre validi, ma che hanno superato il budget iniziale.

3) I soldi son infine utilizzati per cercare di tamponare una situazione di progressivo dissesto; si veda, ad esempio, oggi il caso dell’Ucraina, della Grecia, o di Portorico. Naturalmente questo non significa che non si possono fare piani di ristrutturazione, che potrebbero portare con il tempo a risanare la situazione, come è avvenuto in passato in tanti altri casi.

A volte si arriva al terzo livello anche per avere mal gestito una situazione di temporanea difficoltà, o avendo a suo tempo fatto piani di sviluppo non fondati su solide basi. Più in generale, naturalmente, le distinzioni tra le tre ragioni sopra descritte non sono sempre molto nette.

 

Fattori che condizionano la capacità di restituzione

La capacità di restituzione di un prestito dipende da molte cose: intanto dal livello dei debiti complessivi; più alto esso è, più difficile appare restituire le somme dovute. Ma non vale necessariamente la presunta regola trovata qualche anno fa da C. M. Reinhart e K. N. Rogoff, nel loro testo This time is different, che raccontava come, superando il tetto del 90% nel rapporto tra debiti e pil, diventasse molto complicato per un paese riuscire a continuare a svilupparsi. E’ stato dimostrato come tale conclusione derivasse da ipotesi e da dati sbagliati.

La restituzione dei debiti è poi più facile, da una parte, in presenza di una crescita economica rilevante, che fornisce più agevolmente i surplus necessari alla bisogna, dall’altra, inoltre, in periodi di elevata inflazione, fenomeno che ridimensiona automaticamente i valori in gioco. Per quanto riguarda il debito estero, una svalutazione della moneta complica le cose, mentre se una elevata percentuale dei debiti è posseduta da soggetti dello stesso paese, essa viene facilitata.

Un terzo fattore importante fa riferimento al livello dei tassi di interesse prevalente; un loro elevato importo rende più duro far fronte agli impegni.

In questo momento l’andamento dei primi due fattori descritti (livello della crescita e tasso di inflazione) non appare complessivamente favorevole a livello mondiale e questo è uno dei fattori che può più preoccupare in prospettiva.

 

I paesi in via di sviluppo

Va intanto sottolineato come il debito dei paesi emergenti sia oggi per circa i tre quarti concentrato nelle imprese, mentre il boom del credito negli Usa e in Europa di qualche tempo fa riguardava più di tutti i privati.

Ma tali paesi sono oggi meglio protetti di una volta, per l’esistenza di elevate riserve di cambio, nonché di tassi di cambio più flessibili, di una più piccola percentuale di debiti in valuta estera, di una migliore capacità di gestione complessiva del fenomeno.

Quello dei paesi in via di sviluppo, come quello dei paesi ricchi, appare comunque un mondo molto variegato, per quanto riguarda la situazione e le prospettive del debito. Appare quindi opportuno sottolineare almeno alcuni elementi di differenziazione.

Per quanto riguarda il primo tipo di Stati, si possono individuare almeno tre sottocategorie: quella dei paesi che eviteranno grandi problemi, o che ci sono ormai passati, quella delle nazioni che hanno delle difficoltà ma non dovrebbero avere troppi problemi ad uscirne,infine quella di chi presenta interrogativi rilevanti (The Economist, 2015).

Nella prima categoria si potrebbe collocare la Russia: il rublo è già passato attraverso un rilevante aggiustamento di valore e l’economia sembra ormai migliorare; anche l’Argentina potrebbe cavarsela, avendo un basso debito privato.

Nella seconda si potrebbero inserire le due grandi economie di Cina ed India.

Certo nel caso cinese ci troviamo di fronte ad un rapporto di indebitamento che era passato dal 150% del pil nel 2008 ad uno di circa il 280% nel 2014.

Ma i problemi in questo caso appaiono di modesta entità. Intanto il paese presenta un enorme surplus delle partite correnti. Il livello delle sue riserve di cambio era pari a 3,5 trilioni di dollari nell’ottobre 2015, tre volte il livello del suo debito estero. La gran parte dei debiti è poi detenuta da soggetti nazionali, mentre i debitori e i creditori rispondono spesso allo stesso padrone, lo Stato, inoltre i prestiti sono fortemente concentrati sui governi locali, mentre toccano solo un numero relativamente ristretto di imprese. Ci troviamo, infine, di fronte ad un caso di crescita dell’economia che viaggia ancora intorno al 7% all’anno e di fronte a bassi tassi di interesse (Comito, 2015, The Economist, 2015).

Anche nel caso dell’India i problemi dell’indebitamento sembrano di facile maneggio. L’economia potrebbe crescere di più del 7% nel 2016, mentre la bilancia della partite correnti si muove verso il pareggio e la riduzione del prezzo del petrolio è stata una manna per il paese.

Infine ci sono i paesi che si possono inserire nella terza categoria e che presentano i casi peggiori. Possiamo così fare riferimento al Brasile, paese nel quale le obbligazioni “corporate” sono aumentate di 12 volte dal 2007 ad oggi, con un rilevante deficit delle partite correnti, nonché una situazione di paralisi politica. Subito dopo viene la Turchia, con una situazione per alcuni aspetti analoga (The Economist, 2015).

 

I paesi ricchi  

La situazione dei paesi ricchi sembra in questo momento complessivamente un po’ migliore sul fronte dell’indebitamento rispetto a quella delle nazioni emergenti. Intanto i primi hanno sperimentato già da tempo una caduta dell’economia che gli altri stanno subendo solo ora ed essi sembrano, almeno in parte, sulla via di un miglioramento.

In particolare gli Stati Uniti apparentemente reggono in qualche modo dignitosamente in questo momento il peso dei debiti, in relazione in particolare alla più positiva tendenza della congiuntura economica.

Peggiore appare la situazione dell’Unione Europea, più problematica sia per la più ridotta dinamica del pil che per via delle forsennate politiche di austerità imposte in particolare nell’eurozona. All’interno dell’area, poi, come è noto, le situazioni sono ancora differenziate.

La situazione più problematica è quella del Giappone. Tale ultimo paese presenta come è noto un indebitamento pubblico elevatissimo, anche se esso è finanziato tutto con fonti interne. I tentativi di risvegliare la sua economia continuano a sostanzialmente fallire ormai da più di venti anni, mentre permane la paura che tutto il mondo sviluppato segua progressivamente la sorte del paese asiatico.

Ma sui paesi ricchi gravano anche le difficoltà dei paesi emergenti che, data la loro forza economica (essi controllano ormai il 58% del pil mondiale, almeno utilizzando il criterio della parità dei poteri di acquisto), potrebbe riflettersi per molte vie sui paesi ricchi.

Che le cose non vadano poi in maniera adeguata è segnalato ad esempio dal fatto che l’Ocse ha di recente raccomandato (Giles, 2015) ai paesi sviluppati di porre fine al loro penchant a favore della finanza basata sul debito, atteggiamento che l’istituto sostiene ostacolare lo sviluppo economico. In termini più specifici, l’organismo trova che la carenza di credito danneggia le prospettive di crescita nei paesi meno sviluppati, ma che in quelli avanzati una forte espansione dello stesso credito tende ad essere dannosa. L’Ocse raccomanda così riforme fiscali che riducano il favore concesso al debito e requisiti di capitale più stringenti per le banche.

Che qualcosa non giri per il verso giusto è segnalato anche dalla constatazione che stanno aumentando i fallimenti delle grandi imprese (Jackson, Platt, 2015) in occidente. Viene constatato che circa 100 imprese hanno fatto fallimento dall’inizio dell’anno, cifra superata negli ultimi dieci anni solo dal picco del 2009, anno nel quale infieriva la crisi economica.

 

III. Da dove vengono le risorse che alimentano il debito?

Appare ora opportuno fare dei riferimenti ai punti di origine delle risorse che alimentano poi i circuiti finanziari mondiali e in specifico quelli del debito. Bisogna sottolineare, in effetti, che a fronte del rilevante volume di indebitamento in essere a livello mondiale, sta un grande livello di liquidità e di risparmi.

Da dove vengono quindi le risorse che alimentano il debito? Volendo semplificare una questione molto complessa, ricordiamo intanto che tra le principali fonti di “produzione” del denaro ci sono i surplus delle bilance commerciali di paesi come la Cina e la Germania che, come abbiamo visto nella prima parte di questo scritto, hanno contribuito non poco all’innesco dei problemi recenti.

Così, dal novembre 2014 al ottobre 2015 il surplus delle partite correnti cinesi è stato pari a 279 miliardi di dollari, mentre quello tedesco a 278 milioni, quello del Giappone a 123 e quello della Corea del Sud, infine, a 106 (fonte: The Economist).

Vanno poi messe nel conto le risorse finanziarie dei paesi produttori di petrolio e gas, oggi peraltro in via di forte ridimensionamento. Citiamo ancora le grandi liquidità di un rilevante numero di imprese multinazionali e, almeno in alcuni paesi (Cina, Giappone), l’importante ammontare dei risparmi privati.

Tali risorse vengono poi riciclate almeno in parte dal sistema finanziario, che ci aggiunge anche del suo.

Il circuito internazionale di tali somme non fa comunque riferimento a nessun accordo che governi il processo in modo proficuo ed esso si svolge dunque in maniera disordinata e spesso destabilizzante, come del resto mostra la storia recente.

 

L’eccesso di risparmi

Guardiamo in particolare alle grandi risorse finanziarie che fanno capo ad un certo numero di società.

Le imprese dei paesi ricchi nel loro complesso registrano da tempo, e questo anche da prima della crisi, un rilevante eccesso di risparmi sugli investimenti, con l’eccezione della Francia; Il surplus di risparmi di quelle giapponesi è vicino all’8% del pil (Wolf, 2015). Se il settore corporate presenta un sovrappiù strutturale dei risparmi sugli investimenti, altri settori devono registrare per forza dei deficit. L’altra faccia della questione è costituita infatti dai deficit finanziari pubblici e da quelli delle famiglie, nonché da surplus delle bilance delle partite correnti.

La differenza tra risparmi ed investimenti è spinta da una combinazione di alti profitti e bassi investimenti. Tale ultimo fenomeno è indotto a sua volta da ragioni sia strutturali che cicliche (Wolf, 2015). Tra queste ci sono, tra l’altro, l’invecchiamento della popolazione, i processi di globalizzazione, che spingono ad investire nei paesi emergenti, le particolari caratteristiche attuali dell’innovazione tecnologica, la debolezza della domanda.

Tra i rimedi possibili alla situazione corrente si suggerisce che la tassazione corporate sia determinata in modo da incoraggiare gli investimenti e la distribuzione dei profitti, caricando di forti aliquote i profitti non distribuiti, con invece una piena deducibilità dal reddito degli importi degli investimenti e dei dividendi (Wolf, 2015).

 

Crisi del debito e ruolo delle banche

Vogliamo a questo punto ricordare, in qualche dettaglio, alcuni aspetti del ruolo delle strutture finanziarie nell’alimentare le ondate di credito e le bolle conseguenti, come abbiamo sopra accennato. In generale, esse portano avanti male la loro funzione di intermediazione tra gli operatori in surplus e quelli in deficit.

In particolare, la questione appare molto evidente nel caso dello scoppio delle crisi. Sia la recessione iniziata nel 2008 che la grande caduta del 1929 hanno in comune un precedente, forte aumento dei livelli di indebitamento del sistema economico e il ruolo perverso giocato di solito in tali eventi dal sistema bancario è stato analizzato in termini generali da Ivan Minsky. Lo studioso ha, a suo tempo, descritto con precisione i meccanismi presenti nelle varie fasi della creazione e dello scoppio delle bolle speculative. Egli sottolinea, nel suo modello noto come Financial Instability Hypothesis (FIH), come in periodi di crescita economica tenda a svilupparsi un’euforia speculativa, cui segue un’espansione creditizia che alimenta a sua volta l’euforia. Ma, ad un certo punto, si arriva a quello che gli economisti hanno definito come il Minsky moment, quando, cioè, l’euforia finanziaria si trasforma all’improvviso in panico e l’offerta di credito viene bruscamente ridotta, dando così seguito al per molti versi catastrofico Minsky process, di cui il Minsky moment è il punto iniziale; in tale processo la bolla scoppia e si innescano di seguito i perversi meccanismi della crisi (si veda, ad esempio, Vercelli, 2009).

Nonostante le grandi promesse fatte dai politici occidentali, dopo il subprime, di riformare in profondità il sistema finanziario, non è poi successo granché. Così la separazione netta delle banche commerciali da quelle di investimento, il ridimensionamento delle banche too big to fail, un forte aumento del capitale delle stesse banche, una tassa sulle transazioni finanziarie e altri provvedimenti, sono tutte proposte rimaste per la gran parte lettera morta (Jorion, 2015).

Ecco dunque che i meccanismi che potrebbero portare ad una nuova bolla del debito sono tutti ancora presenti.

 

Conclusioni

Un rilevante livello di debiti e una sua crescita nel tempo possono condurre ad un rallentamento dell’economia, anche se non esistono formule per determinare con esattezza il risultato finale, che dipende da molteplici altri fattori. Lo sviluppo mondiale sta in effetti rallentando e ci sarebbe bisogno di un nuovo slancio sulla base di un ripensamento di molte questioni; partendo dal debito, si dovrebbero affrontare temi quali la crescita dei paesi emergenti e quella delle diseguaglianze, la lotta alla povertà, la riforma del sistema bancario internazionale e quella del sistema finanziario, tutte questioni tra di loro in qualche modo collegate.

Oggi in particolare i paesi poveri, in particolare in Africa, sono di nuovo minacciati di sovraindebitamento. Ora l’aumento dei tassi di interesse americani e i rischi di cambio di prestiti spesso denominati in divisa pongono dei problemi seri a tali paesi (Guélaud, 2015). Più in generale, la decisione della Fed negli Stati Uniti pone termine ad un lungo periodo di moneta facile nel mondo, ma pone anche nuovi interrogativi sull’assetto del sistema economico e finanziario mondiale.

Appare, tra l’altro, chiaro a tutti che una parte dei prestiti non saranno mai ripagati interamente, anche peraltro nei paesi dell’eurozona, con il caso più clamoroso rappresentato dalla Grecia, ma anche, fuori da essa, dall’Ucraina.

Naturalmente la maggiore sollecitudine da parte del mondo occidentale a intervenire nel caso dell’Ucraina rispetto a quello greco indica che sono in gioco anche fondamentali obiettivi politici. In effetti, i programmi di ristrutturazione del debito sono anche dei meccanismi “disciplinari”, finalizzati non tanto a far ripartire la produzione e l’occupazione dei vari paesi, ma a sostenere gli attuali equilibri politici, in Europa come nel resto del mondo (Sassen, 2014).

Se si volesse aiutare la ripresa dell’economia mondiale e alleviare le difficoltà dei paesi più indebitati bisognerebbe arrivare ad una conferenza mondiale, che avesse questa volta come obiettivo la sistemazione della questione, attraverso in particolare, ma non solo, la cancellazione di una parte almeno del debito.

Ma è molto complicato raggiungere tale obiettivo. Il problema di fondo è quello che nessuno appare disponibile a rinunciare ai suoi crediti. Il caso greco mostra, ad esempio, che si preferisce prestare ancora più soldi al paese, ma non ridurre il valore nominale del capitale. Ma se non si risolve la questione, una vera crescita è difficile che si faccia strada.

Sul percorso della regolamentazione del problema in Europa sta anche il fatto che prevale una percezione moralistica (portata avanti in particolare dalla Germania), dei creditori visti come soggetti virtuosi e dei debitori invece come soggetti con le mani bucate. Il paradosso è che la Germania è stato in passato il paese sviluppato che ha goduto di più della remissione dei debiti in tempi recenti (Plender, 2015).

Per altro verso gli oneri andrebbero sia sostenuti dai paesi in debito che da quelli in credito; appare come una responsabilità collettiva quella di regolamentare i flussi di capitale a livello mondiale e i fattori sottostanti. Per quanto riguarda i paesi poveri bisognerebbe sviluppare strumenti quali i finanziamenti “sostenibili” e portare avanti la responsabilità collettiva dei creditori e dei debitori, concetti ripresi nella conferenza dell’ONU sul finanziamento dello sviluppo tenutasi ad Addis Abeba nel luglio 2015.

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Testi citati nell'articolo
Comito V., Non solo Pigs, cresce il debito globale, www.sbilanciamoci.info, 24 aprile 2015
Mckinsey Global Institute, Debt and (not much) deleveraging, www.mckinsey.com, febbraio 2015
Strohecker K., Emergents- Première sorties de capitaux depuis 1988- IIF, , 1 ottobre 2015
The Economist, Emerging-market banks, stressful times, 5 dicembre 2015, a
The Economist, Pulled back in, 14 novembre 2015, b
Vittori J-M., Encore et toujours la dette, www.lesechos.fr, 12 novembre 2015
Comito V., Non solo Pigs, cresce il debito globale, www.sbilanciamoci.info,
Giles C., Developed nations urged to end bias towards debt-based finance, www.ft.com, 17 giugno 2015
Jackson G., Global debt default near milestone, www.ft.com, 23 novembre 2015
The Economist, The never-ending story, 14 novembre 2015
Guélaud C., Les pays pauvres de nouveau menacés par le surendettement, Le Monde, 17 dicembre 2015
Jorion P., Sept ans après, les banques fragiles et impunies, Le Monde, 18 dicembre 2015
Plender J., Forgive the debt or earn the wrath of its victims, www.ft.com , 24 dicembre 2014
Sassen S., Expulsions : brutality and complexity in the global economy, Harvard University Press, Cambridge, Mass., 2014, trad. it. Espulsioni, Il Mulino, Bologna, 2015
Wolf M., Corporate surpluses are contributing to the savings glut, www.ft.com , 17 novembre 2015
Vercelli A., A perspective on Minsky moments, Levy Economics Institute, working paper n. 579, Annandale-on-Hudson, ottobre 2009

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