Decrescita pianificata: ecosocialismo e sviluppo umano sostenibile
di John Bellamy Foster
Tutti i concetti importanti hanno contorni dialetticamente vaghi.
Herman E. Daly [1]
Il termine decrescita indica un insieme di approcci politico-economici che, di fronte all'attuale accelerazione della crisi ecologica planetaria, rifiutano la crescita economica esponenziale e illimitata come definizione di progresso umano.
Abbandonare la crescita economica nelle società ricche significa azzerare la formazione di capitale netto. Con il continuo sviluppo tecnologico e il miglioramento delle capacità umane, il mero investimento di sostituzione è in grado di promuovere un costante progresso qualitativo della produzione nelle società industriali mature, eliminando al contempo le condizioni di sfruttamento del lavoro e riducendone l'orario. Unitamente alla ridistribuzione globale del surplus sociale e alla riduzione degli sprechi, ciò consentirebbe di migliorare notevolmente la vita della maggior parte delle persone. La decrescita, che si rivolge specificamente ai settori più opulenti della popolazione mondiale, è quindi diretta al miglioramento delle condizioni di vita della grande maggioranza, mantenendo le condizioni ambientali dell'esistenza e promuovendo uno sviluppo umano sostenibile.[2]
La scienza ha stabilito senza ombra di dubbio che, nell'odierna “economia del mondo intero”, è necessario operare all'interno di un budget complessivo del Sistema Terra rispetto alla portata fisica consentita.[3]
Tuttavia, anziché costituire un ostacolo insormontabile allo sviluppo umano, questo può essere visto come l'inizio di una nuova fase di civiltà ecologica basata sulla creazione di una società di uguaglianza sostanziale e sostenibilità ecologica, o ecosocialismo. La decrescita, in questo senso, non mira all'austerità, ma a trovare una «prospera via d'uscita» dal nostro attuale mondo estrattivista, sprecone, ecologicamente insostenibile, mal sviluppato, sfruttatore e diseguale, gerarchico e classista.[4] In alcuni settori dell'economia si verificherebbe una crescita continua, resa possibile da riduzioni in altri. La spesa per i combustibili fossili, gli armamenti, i jet privati, i veicoli sportivi, le seconde case e la pubblicità, dovrebbe essere tagliata per lasciare spazio alla crescita in settori come l'agricoltura rigenerativa, la produzione alimentare, gli alloggi dignitosi, l'energia pulita, l'assistenza sanitaria accessibile, l'istruzione universale, il welfare comunitario, i trasporti pubblici, la connettività digitale e altri settori legati alla produzione ecologica e ai bisogni sociali.[5]
Quando furono ideati i primi sistemi di contabilità del reddito nazionale, all'epoca della Seconda guerra mondiale, tutti gli aumenti del reddito nazionale, indipendentemente dalla fonte, furono considerati crescita economica. Il Prodotto Interno Lordo, o PIL, divenne la misura principale del progresso umano.[6] Tuttavia, molti di questi aspetti sono discutibili dal più ampio punto di vista sociale ed ecologico. Secondo il sistema prevalente di contabilità economica nazionale, tutto ciò che fornisce “valore aggiunto”, secondo il processo di valorizzazione capitalistico, rappresenta una “crescita”. Questo include cose come le spese di guerra, la produzione di prodotti tossici e di scarto, il consumo di lusso da parte dei più ricchi, il marketing (che comprende la ricerca della motivazione, il targeting, la pubblicità e la promozione delle vendite), la sostituzione del consumo sociale con quello privato, come nel caso della sostituzione del trasporto pubblico con l'automobile privata, l'espropriazione dei beni comuni; le spese aziendali per migliorare lo sfruttamento dei lavoratori; le spese legali legate all'amministrazione, al controllo e alla valorizzazione della proprietà privata; le attività antisindacali da parte della dirigenza aziendale; il cosiddetto sistema giudiziario penale; l'aumento dei costi farmaceutici e assicurativi; l'occupazione nel settore finanziario; le spese militari e persino le attività criminali.[7] L'estrazione massima delle risorse naturali è considerata cruciale per una rapida crescita economica, poiché attinge al «dono gratuito... al capitale» della natura.[8]
Al contrario, la produzione non di mercato e di sussistenza realizzata in tutto il mondo, il lavoro domestico svolto principalmente dalle donne, le numerose spese per la crescita e lo sviluppo umano (viste come relativamente non produttive), la conservazione dell'ambiente e la riduzione della tossicità della produzione sono state considerate come se “non contassero nulla” o di valore inferiore, poiché non aumentano la produttività o promuovono direttamente il valore economico.[9]
Oggi, la tragedia elementare di tutto questo è sotto gli occhi di tutti. È ormai opinione diffusa che la crescita economica, basata sull'accumulazione continua di capitale, sia la causa principale della distruzione della Terra come luogo sicuro per l'umanità. La crisi del Sistema Terra è evidente nel superamento dei confini planetari legati al cambiamento climatico, all'acidificazione degli oceani, alla distruzione dello strato di ozono, all'estinzione delle specie, all'interruzione dei cicli dell'azoto e del fosforo, al consumo del suolo (comprese le foreste), all'esaurimento dell'acqua dolce, al carico di aerosol e alle nuove entità (come le sostanze chimiche di sintesi, le radiazioni nucleari e gli OGM).[10] La spinta all'accumulazione di capitale sta quindi generando una “crisi di abitabilità” per l'umanità di questo secolo.[11]
Il consenso scientifico mondiale, rappresentato dal Gruppo Intergovernativo di esperti sul Cambiamento Climatico (IPCC) delle Nazioni Unite, ha stabilito che la temperatura media globale deve essere mantenuta, con l'entrata in funzione di meccanismi di feedback positivi, al di sotto di un aumento di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali in questo secolo – o altrimenti, con un livello di rischio sproporzionatamente più elevato, «ben al di sotto» di un aumento di 2°C – se non si vuole che la destabilizzazione del clima minacci una catastrofe assoluta. Nel Sixth Assessment Report dell'IPCC (AR6, pubblicato nelle sue varie parti nel 2021-23), lo scenario più ottimistico è quello di un aumento della temperatura media globale alla fine del secolo, rispetto ai livelli preindustriali, inferiore a 1,5°C. Ciò richiede che il limite di 1,5°C non venga oltrepassato prima del 2040, aumentando di un decimo di grado fino a 1,6°C, per poi scendere verso la fine del secolo fino a un aumento di 1,4°C. Tutto ciò si basa sul raggiungimento di emissioni nette di carbonio pari a zero (anzi, zero reali) entro il 2050, il che dà una probabilità del 50% che il limite della temperatura climatica non venga superato.[12]
Tuttavia, secondo l'autorevole scienziato del clima Kevin Anderson, del Tyndall Center for Climate Change Research, questo scenario è già stato superato. In base ai dati dell'IPCC, è ora necessario raggiungere il punto di zero emissioni di anidride carbonica entro il 2040, per avere lo stesso 50% di possibilità di evitare un aumento di 1,5°C. «A partire da ora», scriveva Anderson nel marzo 2023,
per non superare l'aumento di 1,5°C di riscaldamento sono necessari tagli alle emissioni dell'11% all'anno, e di quasi il 5% per [non superare] 2°C. Tuttavia questi tassi medi globali ignorano il concetto di equità, centrale in tutti i negoziati sul clima delle Nazioni Unite, che concede ai “paesi in via di sviluppo” un po' di tempo in più per decarbonizzarsi. Se si tiene conto dell'equità, la maggior parte dei Paesi “sviluppati” dovrà raggiungere emissioni zero di CO2 tra il 2030 e il 2035, mentre i Paesi in via di sviluppo ne seguiranno l'esempio entro il decennio successivo. Qualsiasi ritardo ridurrà ulteriormente queste tempistiche.[13]
Nel maggio 2023, l'Organizzazione Meteorologica Mondiale ha indicato che esiste una probabilità del 66% che la temperatura superficiale globale media annua superi l'aumento di 1,5°C, rispetto ai livelli preindustriali, per "almeno" un anno entro il 2027.[14]
Gli attuali scenari dell'IPCC fanno parte di un processo conservativo, progettato per conformarsi ai prerequisiti dell'economia capitalistica, che prevede in tutti gli scenari una crescita economica continua nei paesi ricchi, escludendo qualsiasi cambiamento sostanziale nelle relazioni sociali. L'unico strumento su cui si basa la modellazione climatica è l'ipotesi di cambiamenti tecnologici indotti dai prezzi. Gli scenari esistenti si basano su tecnologie a emissioni negative, come la bioenergia, la cattura e il sequestro del carbonio (BECCS) e la cattura diretta del carbonio nell'aria (DAC), che attualmente non esistono su larga scala e non possono essere introdotte nei tempi previsti. Inoltre presentano enormi rischi ecologici. Questa esaltazione di tecnologie essenzialmente inesistenti e di per sé distruttive per l'ambiente (dato il loro enorme fabbisogno di terra, acqua ed energia) è stata contestata dagli stessi scienziati dell'IPCC. Così, nel Summary for Policymakers for the mitigation report, parte 3 dell'AR6, gli scienziati autori del rapporto concordavano sul fatto che tali tecnologie non sono praticabili in un arco di tempo ragionevole e suggerivano che le soluzioni a bassa energia, basate sulla mobilitazione popolare, potrebbero offrire la migliore speranza di realizzare le massicce trasformazioni ecologiche ora necessarie. Tutto questo, tuttavia, è stato escluso nella pubblicazione finale del Summary for Policymakers, come deciso dai governi nell'ambito di una procedura che consente loro la censura degli scienziati dell'IPCC.[15]
Le soluzioni tecnologiche, indotte dai prezzi, che consentirebbero di continuare la crescita economica e di perpetuare le attuali relazioni sociali, non esistono di fatto nella scala e nel tempo necessari. Sono quindi necessari grandi cambiamenti socioeconomici nel modo di produzione e di consumo, in contrasto con l'egemonia politico-economica dominante. «Tre decenni di compiacenza», scrive Anderson, «hanno fatto sì che la tecnologia da sola non sia in grado di ridurre le emissioni abbastanza velocemente». C'è quindi una drastica necessità di soluzioni a basso consumo energetico, basate su cambiamenti nei rapporti di produzione e consumo, che affrontino anche le profonde disuguaglianze. Le necessarie riduzioni delle emissioni sono «possibili solo modificando la capacità produttiva della società, evitando di consentire il lusso privato di pochi e l'austerità per tutti gli altri, e orientandola verso una più ampia prosperità pubblica e la sufficienza privata. Per la maggior parte delle persone, affrontare il cambiamento climatico porterà molteplici benefici, da alloggi a prezzi accessibili a un'occupazione sicura. Ma per quei pochi di noi che hanno beneficiato in modo sproporzionato dello status quo», insiste Anderson, «ciò significa una profonda riduzione della quantità di energia che utilizziamo e delle cose che accumuliamo».[16]
Un approccio alla decrescita/deaccumulazione che metta in discussione la società dell'accumulazione e il primato della crescita economica è fondamentale in questo caso. L'approvvigionamento sociale per i bisogni umani e la forte riduzione delle disuguaglianze sono parti essenziali di un passaggio verso un'economia fondata su un basso consumo energetico e sull'eliminazione di forme e scale di produzione ecologicamente distruttive. In questo modo, la vita della maggior parte delle persone potrà essere migliorata sia economicamente che ecologicamente. Per raggiungere questo obiettivo, tuttavia, è necessario andare contro la logica del capitalismo e la mitologia di un sistema di mercato autoregolato. Una trasformazione così radicale può essere raggiunta solo introducendo livelli significativi di pianificazione economica e sociale, attraverso la quale, se portata a compimento, i produttori associati lavorerebbero insieme in modo razionale per regolare il lavoro e il processo produttivo che governa il metabolismo sociale dell'umanità e della natura nel suo complesso.
Il socialismo classico del XIX secolo, nell'opera di Karl Marx e Friedrich Engels, vedeva la necessità di istituire una pianificazione collettiva in risposta alle contraddizioni ecologiche e sociali, oltre che a quelle economiche, del capitalismo. L'analisi di Engels insisteva sulla necessità di una pianificazione socialista per superare la frattura ecologica tra città e campagna, mentre la teoria della frattura metabolica di Marx, operando su un piano più generale, insisteva sulla necessità di uno sviluppo umano sostenibile.
La pianificazione è stata fondamentale per tutte le economie, sia capitalistiche che socialiste, in tempo di guerra. Gigantesche corporazioni monopolistiche hanno istituito di propria iniziativa quello che l'economista John Kenneth Galbraith ha definito un «sistema di pianificazione», anche se operante in gran parte all'interno, piuttosto che tra, conglomerati multinazionali.[17] Tuttavia, l'intera idea di pianificazione economica è vista, ideologicamente, come antagonista del mercato capitalistico ed è stata effettivamente bandita dalla discussione pubblica – dichiarandola inattuabile e una forma di dispotismo – dopo il trionfo del capitalismo con la Guerra Fredda e la fine dell'Unione Sovietica.
Questa situazione sta ora rapidamente cambiando. Come ha recentemente osservato l'economista francese Jacques Sapir, «il piano e la pianificazione sono tornati di moda», a causa delle contraddizioni interne ed esterne del sistema di mercato capitalistico.[18] È ormai chiaro che, senza il ritorno alla pianificazione e a una regolamentazione ambientale-statale dell'economia in un contesto di decrescita/deaccumulazione del capitale, non c'è alcuna possibilità di affrontare con successo l'attuale emergenza planetaria e garantire la continuazione della società industrializzata e la sopravvivenza della popolazione umana.
Marx, Engels e la pianificazione ecologica
Marx ed Engels sono sempre stati riluttanti a fornire quelle che Marx chiamava «ricette... per l’osteria dell’avvenire», delimitando le forme che le società socialiste e comuniste avrebbero dovuto assumere. Come disse Engels, «Speculare su fatti come il modo in cui la società futura regolerà la distribuzione dei viveri e delle abitazioni porta difilato all'utopia».[19] Tuttavia, in tutti i loro scritti fu chiaro che la riorganizzazione della produzione in una società di produttori associati avrebbe comportato un lavoro cooperativo organizzato secondo un piano comune.
Ne I principi del comunismo, Engels scrisse che nella società futura «tutti i rami della produzione» sarebbero stati gestiti «dall'intera società, cioè in conto comune, secondo un piano comune, e con la partecipazione di tutti i membri della società». Lo stesso approccio fu adottato da Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista, dove sottolinearono la necessità di un «Aumento delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano comune».[20] In questo caso, il problema di porre fine alla divisione tra città e campagna attraverso la distribuzione della popolazione in modo più uniforme nel paese, in modo che non fosse più concentrata nelle grandi città industriali che separavano le popolazioni urbane da quelle rurali, era al centro della loro idea di piano comune.
Gran parte dell'analisi di Marx nei Grundrisse si concentrava sulla necessità di una «economia di tempo e ripartizione pianificata del tempo di lavoro nei differenti rami di produzione», che costituiva «la suprema legge economica sulla base della produzione comune».[21] Come scrisse a Engels l'8 gennaio 1868, riferendosi ai suoi Lineamenti di una critica dell'economia politica del 1843: «Realmente, nessuna forma sociale può impedire che, in un modo o nell'altro, sia il tempo di lavoro disponibile della società a regolare la produzione. Finché questa regolazione non si attua mediante il controllo, diretto e consapevole del tempo di lavoro da parte della società – il che è possibile solo con la proprietà comune –, ma mediante il movimento del prezzo delle merci, le cose rimangono al punto da te già illustrato molto bene nei “Deutsch-Französische Jahrbücher”».[22] Questo primo lavoro di Engels fu molto ammirato da Marx. Nel suo Compendio dell’articolo di Friedrich Engels, «Lineamenti di una critica dell'economia politica» del 1843, Marx sottolinea la «Scissione fra suolo e uomo», e quindi l'alienazione della natura, come base esterna della produzione capitalistica.
Nel Capitale, Marx ha sostenuto, a proposito della pianificazione, che la parte del prodotto sociale destinata alla riproduzione dei mezzi di produzione è propriamente collettiva, mentre l'altra parte, destinata al consumo, è divisa tra i consumatori individualmente. Il modo in cui una determinata società effettua questa importantissima divisione è la chiave dell'intero modo di produzione e riflette lo sviluppo storico della società stessa. Nel socialismo, il tempo di lavoro sarebbe necessariamente ripartito «socialmente secondo un piano» che «regola l’esatta proporzione delle differenti funzioni lavorative con i differenti bisogni». Ciò sarebbe possibile solo quando «i rapporti della vita pratica quotidiana presentano agli uomini, giorno per giorno, relazioni chiaramente razionali fra di loro e fra loro e la natura» come risultato dello sviluppo storico; infatti, «il processo materiale di produzione si toglie il suo mistico velo di nebbie soltanto quando sta, come prodotto di uomini liberamente uniti in società, sotto il loro controllo cosciente e condotto secondo un piano».[23] Come Marx spiegò in occasione della Comune di Parigi, le «società cooperative riunite» nella società futura avrebbero regolato «la produzione nazionale secondo un piano comune».[24] Il fatto che tale pianificazione fosse tanto un problema economico che ecologico era chiaro in tutta la sua opera.
«La libertà in questo campo», in una società superiore, scrisse Marx nel terzo libro del Capitale, «può consistere soltanto in ciò, che l'uomo socializzato, cioè i produttori associati, governino razionalmente questo ricambio organico con la natura, portandolo sotto il loro comune controllo...; che essi eseguano il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa».[25] Il primato storico della distruzione ecologica causata dall'uomo in forme come la deforestazione e la desertificazione, incarnava, per Marx, una «tendenza socialista» inconscia, dal momento che dimostrava la necessità di un controllo sociale.[26]
Tuttavia, fu Engels, nell'Anti-Dühring, a fondare in modo più esplicito la necessità della pianificazione in relazione alle condizioni ambientali. Per Engels, sono le esternalità negative della produzione capitalistica, associate alla divisione tra città e campagna, al problema permanente degli alloggi e alla distruzione delle condizioni naturali e sociali dell'esistenza della classe operaia, a richiedere una pianificazione su larga scala. La stessa industria moderna, sosteneva, aveva bisogno di «acqua relativamente pura», in contrapposizione a quella che esisteva nella «città industriale» che «trasforma qualsiasi acqua in fetido liquido di scolo».[27] Estendendo temi presenti sia ne La situazione della classe operaia in Inghilterra che nel Manifesto del Partito Comunista, dichiarava:
La soppressione dell'antagonismo di città e campagna non solo è possibile, ma è diventata una diretta necessità della stessa produzione industriale, così come è diventata del pari una necessità della produzione agricola e inoltre dell’igiene pubblica. Solo con la fusione di città e campagna può essere eliminato l'attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non le malattie... La soppressione della separazione di città e campagna non è dunque un’utopia, neanche sotto l’aspetto per cui essa ha come sua condizione la distribuzione più omogenea possibile della grande industria su tutto il paese.[28]
Organizzare la produzione collettivamente secondo un «piano sociale», sosteneva Engels, avrebbe distrutto «il precedente asservimento degli uomini ai loro propri mezzi di produzione», caratteristico della produzione capitalistica di merci.[29] Nel socialismo, naturalmente «la società dovrà sapere quanto lavoro richiede ogni oggetto d'uso per la sua produzione». Essa dovrà quindi «organizzare il piano di produzione a seconda dei mezzi di produzione, ai quali appartengono, in modo particolare, anche le forze-lavoro. Il piano, in ultima analisi, sarà determinato dagli effetti utili dei diversi oggetti d'uso considerati in rapporto tra di loro e in rapporto alla quantità di lavoro necessaria alla loro produzione».[30] Ma al di là dell'uso razionale ed economico del lavoro all'interno dell'industria, la pianificazione sarebbe necessaria per superare l'esaurimento del suolo in campagna e il relativo inquinamento della città. «Solo una società che faccia ingranare, armoniosamente, le une nelle altre le sue forze produttive, secondo un solo grande piano», scrisse Engels, «può permettere all'industria di stabilirsi in tutto il paese con quella dislocazione che è più appropriata al suo sviluppo e alla conservazione, ovvero allo sviluppo, degli altri elementi della produzione».[31]
Nella Dialettica della natura, Engels si preoccupava in particolare dell'incapacità dell'economia politica classica, in quanto «scienza borghese della società», di rendere conto dell’«attività umana rivolta alla produzione e allo scambio» che non fosse intenzionale, esterna al mercato e remota. Il carattere anarchico e non pianificato dell'economia capitalistica amplificava così i disastri ecologici. «Cosa importava (ai piantatori spagnoli a Cuba)», scriveva, che bruciarono le foreste sui pendii delle montagne e trovarono nella cenere concime sufficiente per una sola generazione di piante di caffè altamente remunerative - cosa importava loro che dopo di ciò le piogge tropicali portassero via l’ormai indifeso humus e lasciassero dietro di sé solo nude rocce? Nell’attuale modo di produzione viene preso prevalentemente in considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più palpabile risultato. E poi ci si stupisce che gli effetti più remoti delle azioni dirette a questo scopo si rivelino del tutto diversi, per lo più di carattere opposto.[32]
Per promuovere gli interessi della comunità umana nel suo complesso, era quindi necessario agire «secondo un piano» e regolare la produzione in linea con la scienza, tenendo conto dell'ambiente terrestre, cioè in accordo con le leggi della natura.[33]
Marx ed Engels vedevano nel socialismo un'espansione delle forze produttive in senso quantitativo e qualitativo ed Engels, nell'Anti-Dühring, fa addirittura riferimento al fatto che l'avvento del socialismo avrebbe comportato «uno sviluppo ininterrotto e costantemente accelerato delle forze produttive, e quindi ... un incremento praticamente illimitato della produzione stessa». Tuttavia, il contesto in cui scrivevano non era l'odierna “economia mondiale”, ma piuttosto una fase ancora iniziale dell'industrializzazione. Nel periodo dello sviluppo industriale, che va dall'inizio del XVIII secolo fino alla prima Giornata della Terra del 1970, il potenziale produttivo industriale mondiale è aumentato di circa 1.730 volte, il che, da una prospettiva ottocentesca, sarebbe sembrato «un incremento praticamente illimitato». Oggi, invece, si pone il problema dell'overshoot ecologico.[34]
Pertanto, le conseguenze ecologiche a lungo termine della produzione, sottolineate da Engels, sono sempre più in primo piano nel nostro tempo. Ciò è simboleggiato dall'Epoca dell'Antropocene proposta nella Scala dei Tempi Geologici, che inizia intorno al 1950 e che rappresenta l'emergere della società umano-industrializzata come fattore primario del cambiamento del Sistema Terra. Da questo punto di vista l'aspetto forse più notevole dell'affermazione di Engels sullo sviluppo delle forze produttive nel socialismo è che essa è immediatamente seguita – nello stesso paragrafo e in quello successivo – dall'opinione che l'obiettivo del socialismo non sia l'espansione della produzione in sé, ma piuttosto lo «sviluppo e l’esercizio completamente liberi [delle … facoltà fisiche e spirituali]» degli esseri umani, che richiede un rapporto razionale e pianificato con «la cerchia delle condizioni di vita che circondano gli uomini».[35]
Marx ed Engels, quindi, consideravano cruciale la pianificazione nell'organizzazione della società socialista/comunista, che l’avrebbe liberata dal dominio dello scambio di merci, «secondo un piano». Tuttavia, non si può pensare che essi immaginassero il tipo di pianificazione centralizzata di un'economia di comando, come sarebbe emerso alla fine degli anni Venti e Trenta nell'Unione Sovietica. Piuttosto, essi sostenevano che la pianificazione da parte dei produttori diretti sarebbe stata democratica rispetto alla produzione stessa.[36] L'intero sistema del socialismo, come diceva Marx, «inizia con l'autogoverno delle comunità» in una società in cui il «lavoro cooperativo» sarebbe stato «sviluppato su scala nazionale e, di conseguenza,... promosso con mezzi nazionali».[37] L'organizzazione razionale del lavoro umano come lavoro comune o cooperativo, inoltre, non poteva avvenire senza un sistema di pianificazione. «Ogni lavoro sociale in senso immediato, ossia ogni lavoro in comune, quando sia compiuto su scala considerevole, abbisogna, più o meno, d’una direzione che procuri l’armonia delle attività individuali e compia le funzioni generali che derivano dal movimento del corpo produttivo complessivo», come un sistema di riproduzione metabolica sociale. La produzione richiede quindi una guida, una previsione e una gestione, nel senso di un “direttore” d'orchestra. La visione di Marx di un'economia pianificata, come ha sottolineato Michael A. Lebowitz, era quella di un'economia gestita da «direttori d'orchestra associati» che avrebbero governato razionalmente il metabolismo fra l'umanità e la natura.[38]
Come scrisse Marx in Teorie sul plusvalore, sulla necessità di un approccio non capitalista, e quindi non esaustivo, al lavoro e alla natura, L'anticipazione del futuro – anticipazione reale – nella produzione di ricchezza ha luogo in generale solo con riferimento all'operaio e alla terra. Sia per l’uno che per l’altra, con uno sforzo e un esaurimento prematuri, con la rottura dell'equilibrio fra dare e avere, si può realiter anticipare e distruggere il futuro. Per entrambi, ciò avviene nella produzione capitalistica. Ciò che qui è expended, exsists come δύναμις [parola greca che indica la potenza, nel senso di forza causale di Aristotele], e la durata di questa δύναμις è accorciata dal modo forzato della expenditure*.[39]
Il capitalismo, secondo i fondatori del materialismo storico, promuoveva una dialettica negativa e perversa di sfruttamento, espropriazione ed esaurimento/sterminio, la «rovina comune delle classi in lotta». Ciò che era necessario, pertanto, era la «trasformazione rivoluzionaria di tutta la società».[40]
Questa dialettica negativa di sfruttamento, espropriazione ed esaurimento/sterminio che caratterizza il capitalismo fu colta vividamente da Engels nei termini della nozione di «vendetta» della natura, un'espressione metaforica che Jean-Paul Sartre, nella sua Critica della ragione dialettica, avrebbe convertito nel concetto di «controfinalità».[41] Gli esseri umani, attraverso le loro formazioni sociali di classe, sono diventati anti-physis (anti-natura). Questo si può vedere nella distruzione delle foreste e nelle conseguenti inondazioni (Sartre aveva in mente la produzione contadina cinese descritta nella Histoire de la Chine di René Grousset del 1942), in cui le popolazioni hanno minato la propria esistenza e le loro presunte vittorie sulla natura, con risultati catastrofici. «La natura», scriveva Sartre, «diventa la negazione dell'uomo proprio nella misura in cui l'uomo è reso anti-physis» e quindi «antipraxis».[42] L'unica risposta al problema dell'alienazione della natura per Sartre, come per Marx ed Engels, era quella di modificare i rapporti sociali di produzione che spingono l'umanità verso la catastrofe finale. Ciò richiedeva una rivoluzione della terra sotto forma di una nuova prassi socialista di sviluppo umano sostenibile, in cui la vita stessa non fosse più posta come nemica dell'umanità: la riunificazione di natura e società.
La tradizione del “comunismo della decrescita” all'interno del marxismo risale a William Morris, il quale sosteneva che la Gran Bretagna poteva fare a meno della metà del carbone che utilizzava.[43] Ma può anche essere vista come collegata a quella che Paul Burkett definiva la «visione globale dello sviluppo umano sostenibile» di Marx. In questo caso, l'accumulazione del capitale doveva essere sostituita da progressi nello sviluppo umano qualitativo e dedicata alla produzione di valore d'uso (piuttosto che di valore di scambio) e al soddisfacimento dei bisogni di tutti gli individui, partendo dai bisogni più elementari fino ad arrivare ai bisogni umani e sociali più sviluppati, in armonia con l'ambiente nel suo complesso.[44]
L'efficacia della pianificazione centralizzata
Quando presero il potere nella Rivoluzione d'Ottobre del 1917, «i bolscevichi», come ha osservato l'economista marxista Paul Baran, «non avevano alcuna intenzione di instaurare immediatamente il socialismo (e una pianificazione economica completa) nel loro paese affamato e devastato».[45] In origine, prevedevano una rigida regolamentazione e un controllo del mercato capitalistico sotto un governo diretto dai lavoratori e la nazionalizzazione delle imprese chiave, con una lunga e lenta transizione verso un'economia completamente socialista. In realtà, all'epoca non esisteva alcuna nozione concreta di pianificazione centralizzata o di economia di comando.[46] «La parola "pianificazione"», ha scritto Alec Nove in An Economic History of the U.S.S.R, aveva un significato molto diverso [in Unione Sovietica] nel 1923-6 rispetto a quello che acquisì in seguito. Non c'era un programma di produzione e di allocazione completamente elaborato, non c'era una "economia di comando". Gli esperti del Gosplan... lavorarono con notevole originalità, lottando con statistiche inadeguate per creare il primo "bilancio dell'economia nazionale" della storia, in modo da fornire una sorta di base per la pianificazione della crescita.... Il punto è che ciò che emerse da questi calcoli non furono piani nel senso di ordini di agire, ma "dati di controllo”, che erano in parte una previsione e in parte una guida per le decisioni strategiche di investimento, una base per discutere e determinare le priorità.[47]
Il comunismo di guerra, iniziato a metà del 1918, otto mesi dopo la Rivoluzione d'Ottobre, fu uno sforzo disperato per far fronte al caos e alle devastazioni derivanti dalla guerra civile russa, compresa l'invasione del paese da parte di tutte le maggiori potenze imperiali a sostegno delle forze “bianche”. Il comunismo di guerra non si basava sulla pianificazione, ma sulle nazionalizzazioni all'ingrosso, sulla produzione bellica, sul divieto di commercio privato, sulla parziale eliminazione dei prezzi, sulle razioni gratuite e sulla requisizione forzata dei rifornimenti e delle eccedenze.[48] Lo Stato rivoluzionario sovietico vinse la guerra civile, sconfiggendo le armate bianche e costringendo le potenze imperiali a lasciare il Paese. Ma l'economia fu devastata e il piccolo proletariato industriale, che era stato la spina dorsale della rivoluzione, fu decimato. Nel 1920 il numero degli operai industriali era la metà rispetto al 1914.[49] Nel 1921, di fronte al deterioramento economico, alla carestia e alla rivolta dei marinai di Kronstadt, V. I. Lenin organizzò una ritirata strategica, reintroducendo una parziale economia di libero mercato nella Nuova Politica Economica (NEP). A partire dal 1920, Lenin prese anche l'iniziativa personale di introdurre un piano per l'elettrificazione di tutta la Russia entro dieci o quindici anni, costruendo centrali elettriche e relative infrastrutture in tutte le principali regioni industriali. Questo si sarebbe rivelato il più grande risultato in termini di sviluppo economico nei primi anni Venti.[50]
La NEP fu vista come un periodo di transizione nel movimento verso il socialismo. Lenin la definì «capitalismo di Stato». Lo Stato sovietico mantenne il controllo dei vertici dell'economia, tra cui l'industria pesante, la finanza e il commercio estero. Nella concezione iniziale di Lenin, la NEP era un'alleanza limitata con il grande capitale con l'obiettivo di trasformare la produzione secondo la sua forma più sviluppata di capitalismo monopolistico, ma sotto il controllo socialista, in accordo con i contadini. «Lo Stato sovietico», ha scritto Tamás Krausz in Reconstructing Lenin, «accordava un trattamento preferenziale al capitale organizzato su larga scala e alla proprietà statale orientata al mercato piuttosto che alla proprietà privata anarchica, all'economia caotica incontrollabile dei piccoli borghesi». Lenin utilizzò il concetto di capitalismo di Stato per riferirsi non solo al settore statale in un'economia mista, ma anche a una formazione sociale definita, che andasse in direzione del socialismo, che costituisce l'essenza della NEP.[51]
Fu durante la NEP che venne introdotto per la prima volta nell'economia un livello di pianificazione dello sviluppo. Il Consiglio Supremo dell'Economia Nazionale era stato istituito già nel 1917. Tuttavia, fu con la NEP che venne istituito il Gosplan come principale commissione statale per la pianificazione. Il Gosplan sviluppò il primo sistema di bilanci per un'economia nazionale, fornendo dati di controllo per guidare le decisioni di investimento con direttive limitate a pochi settori strategici sotto il controllo dello Stato. Nel 1923-24 fu introdotto un metodo nuovo di tabelle input-output, ispirato al Tableau économique di François Quesnay e agli schemi di riproduzione di Marx nel Capitale.[52]
Nel 1925, la NEP era riuscita a ripristinare l'economia prebellica e la produzione industriale all’infuori dell'agricoltura stava iniziando a stabilizzarsi. Nel 1922 Lenin aveva accennato al fatto che la NEP avrebbe potuto rimanere in vigore a lungo, ritenendo venticinque anni una stima «un po' troppo pessimistica».[53] Ma con la sua morte nel 1924 e il successo della NEP nel ripristino dell'economia, si aprì un Grande Dibattito sulla trasformazione socialista e la pianificazione. La teoria marxista classica si basava sulle rivoluzioni avvenute precedentemente nei paesi sviluppati dell'Europa occidentale. La rivoluzione russa era stata originariamente concepita come l'innesco di una più ampia rivoluzione proletaria europea, che tuttavia non si è mai materializzata. La Russia si trovò ad essere un paese sottosviluppato, prevalentemente contadino, in uno stato di isolamento politico ed economico, di fronte alla continua minaccia di nuove invasioni imperiali.
Tutti i principali partecipanti al Grande Dibattito concordarono sulla necessità di passare a un'economia pianificata socialista, ma emersero disaccordi sulla natura e i tempi del cambiamento e sul grado di espropriazione delle terre da parte dei contadini. Alcuni bolscevichi di spicco, come Nikolaj Bucharin, si schierarono a favore di quella che era allora la linea dominante, insistendo su un approccio più lento, a crescita equilibrata, basato sulla continuazione della NEP come periodo di transizione. Al contrario, coloro che, come l'economista E. A. Preobraženskij, si identificavano con l'“opposizione di sinistra”, erano favorevoli a un passaggio molto più rapido a un'economia pianificata centralmente e all'espropriazione da parte dei contadini attraverso un processo di accumulazione primitiva socialista.[54] I principali esponenti dell'opposizione di sinistra, tra cui Preobraženskij e Lev Trotskij, e di quella che Iosif Stalin avrebbe definito l'opposizione di destra, cui apparteneva Bucharin (con cui Stalin si era schierato durante il Grande Dibattito), vennero tutti eliminati ,uno dopo l'altro, lasciando a Stalin l'intero comando.[55]
Con l'ascesa al potere di Stalin nel 1928, fu adottato un percorso di rapida industrializzazione in linea con le proposte originariamente avanzate dall'opposizione di sinistra, a cui lo stesso Stalin si era inizialmente opposto. L'obiettivo divenne quello di costruire il «socialismo in un solo paese», data la posizione isolata dell'URSS. Ciò, tuttavia, prese la forma di una brutale accumulazione socialista primitiva e di un'economia di comando burocratica gestita dall'alto, a partire dal primo piano quinquennale del 1929. Nel 1925-26, sotto la NEP, il settore statale costituiva il 46% dell'economia; nel 1932 era salito al 91%.[56]
La tragedia della pianificazione sovietica risiedeva nelle terribili circostanze storiche in cui era nata, portando a quella che il noto storico dell'URSS, Moshe Lewin, ha definito «la scomparsa della pianificazione nel piano».[57] La produzione industriale nel 1928-29 sotto la NEP era cresciuta a un tasso del 20%. Eppure, questo non era considerato sufficiente. Bucharin si espresse contro i piani, sostenuti da “pazzi”, che cercavano un tasso di crescita economica annuale doppio rispetto a quello che la NEP aveva prodotto. Il processo di pianificazione fu quindi concepito fin dall'inizio su basi irrealistiche. Sorse un sistema di pianificazione centrale che assunse la forma specifica di un'economia di comando, in cui tutte le direttive sull'allocazione della manodopera e delle risorse, sui fattori di produzione, sugli obiettivi specifici e così via, venivano stabilite burocraticamente dall'alto. Ciò fu accompagnato dalla perpetuazione del carattere di base del processo lavorativo capitalistico, con l'incorporazione delle tecniche di gestione scientifica taylorista, eliminando la possibilità di forme di organizzazione dal basso o di controllo da parte dei lavoratori, come originariamente previsto dai Soviet operai.
Le direttive stabilite nel primo piano quinquennale erano al di là di ogni possibilità di realizzazione, con la conseguenza che il piano, di fatto, fu accantonato fin quasi dall'inizio. Il sistema di comando che ne emerse era amministrato in modo centralizzato e burocratico, mentre la pianificazione razionale era quasi assente. Nel frattempo, il “ritmo sostenuto” dell'industrializzazione comportò la confisca massiccia delle proprietà dei contadini e la collettivizzazione forzata, che colpì milioni di persone. Come ha scritto Lewin, «la spinta anti-contadina di Stalin fu un attacco contro le masse popolari. Richiedeva una coercizione su così vasta scala che l'intero Stato doveva essere trasformato in un'enorme macchina oppressiva». In tali circostanze, la dura irreggimentazione della popolazione era inevitabile.[58]
Tuttavia, con tutti i suoi difetti e le sue barbarie, l'economia di comando rozza, goffa e burocratica che sorse in Unione Sovietica, ebbe un enorme successo nei suoi effetti sullo sviluppo. Fu in grado di dare priorità agli investimenti nell'industria pesante in un modo mai visto prima. Il tasso di crescita medio annuo della produzione industriale per gli anni 1930-40 fu ufficialmente “del 16,5%”, che, come afferma Lewin, era «certamente una cifra impressionante (e non molto meno impressionante anche nel caso in cui si preferiscano valutazioni minori da parte degli economisti occidentali)».[59] L'Unione Sovietica passò all'industrializzazione, espandendo anche i trasporti e la produzione di energia elettrica, l'agricoltura rimase indietro. Altri grandi miglioramenti si ebbero nel campo dell'istruzione e nell'urbanizzazione.[60] Tra il 1928 e il 1941 furono costituite circa ottomila grandi imprese moderne.[61]
Nel 1928, l'Unione Sovietica era ancora un paese sottosviluppato, ma all’epoca della Seconda guerra mondiale era già emersa come una grande potenza industriale. Non si può mettere in dubbio il duro realismo di Stalin quando, nel 1931, affermò: «Siamo indietro di 50-100 anni rispetto ai paesi avanzati. Dobbiamo colmare questa distanza in dieci anni. O ce la faremo o saremo schiacciati».[62] I suoi calcoli erano corretti. Quando la Wehrmacht tedesca invase la Russia esattamente dieci anni dopo, nel 1941, con più di tre milioni di truppe dell'Asse, organizzate in divisioni corazzate e schierate su un fronte di 1.800 miglia, le forze di invasione si trovarono di fronte a una grande potenza industriale e militare del tutto diversa dalla Russia che avevano affrontato nella Prima Guerra Mondiale. Le forze sovietiche opposero una resistenza straordinaria, di gran lunga superiore a quella che Adolf Hitler e i suoi consiglieri prevedevano. La storia del mondo moderno si sarebbe fondata proprio su questo fatto, portando alla sconfitta della Germania nazista.[63]
Tuttavia, le debolezze dell'economia sovietica, con la sua produzione pianificata e amministrata centralmente, avrebbero inciso negativamente sul sistema dopo la Seconda guerra mondiale. Sebbene avesse mantenuto tassi di crescita piuttosto impressionanti e, nel periodo post-stalinista, in particolare all'inizio dell'era di Leonid Brežnev, fosse in grado di fornire sia armi che burro, nel contesto della Guerra Fredda – in cui si confrontava con una controparte molto più forte e aggressiva, gli Stati Uniti – le debolezze del sistema sovietico divennero sempre più evidenti.[64] L'economia pianificata burocratica aveva portato a una concentrazione del potere e all'emergere di una nuova classe dirigente formata da vertici della burocrazia, o nachal'niki, derivante dal sistema della nomenklatura (che esercitava il controllo sui membri di alto livello del Partito), che pesava sul sistema, impedendo i necessari cambiamenti.[65] Nonostante i primi sviluppi nell'analisi input-output, l'economia di comando sovietica non integrò mai i metodi della cibernetica e le possibilità di una pianificazione più ottimale emersero con la nuova rivoluzione informatica nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, nonostante alcuni movimenti fossero avvenuti in questa direzione.[66] L'eccessiva enfasi sui nuovi progetti di investimento portò a trascurare gli investimenti di sostituzione [di macchinari, attrezzature e impianti], con il risultato che la produzione fu portata avanti con attrezzature obsolete con conseguenti numerose interruzioni del lavoro.[67] La proletarizzazione del lavoro, unita alla piena occupazione e ad altre garanzie, ridusse le possibilità di coercizione economica all'interno del sistema, rispetto al capitalismo, ponendo il problema di incentivi materiali per i lavoratori.[68]
Il sistema sovietico di gestione delle imprese, come Che Guevara riconobbe acutamente, era basato sul capitalismo pre-monopolistico, non sul capitalismo monopolistico, e quindi si basava soprattutto sulle transazioni interaziendali piuttosto che intra-aziendali. Ciò significava che le imprese dipendevano dai prezzi esterni, con l'ironico risultato che le relazioni di mercato indebolivano la pianificazione a livello aziendale in modi che non si verificavano all'interno di quello che Galbraith aveva definito il «sistema di pianificazione» delle corporations in Occidente. Allo stesso tempo, la produzione in fabbrica era organizzata secondo il vecchio modello della Ford Motors, in cui ogni divisione o sindacato produceva tutti i componenti, in contrapposizione al più sviluppato sistema di produzione monopolistico capitalistico con fornitori multipli, che impediva il rallentamento dei flussi produttivi.[69] Soprattutto, l'economia di comando sovietica si basava fin dall'inizio su uno sviluppo estensivo, piuttosto che intensivo, attraverso la selezione forzata di manodopera e risorse, in contrapposizione all’implementazione di efficienze dinamiche.[70] Di conseguenza, una volta che la manodopera e le risorse cominciarono a scarseggiare, piuttosto che il contrario, l'economia entrò in stagnazione, creando una diffusa carenza.[71]
Tuttavia, anche allora l'economia continuò a crescere, anche se più lentamente, fino al caos dell'era Gorbaciov, fornendo nel contempo alla popolazione ampi servizi sociali, invidiabili rispetto alla maggior parte dei paesi del mondo, anche se privi di consumismo di massa e di beni di lusso.[72] Alla fine, fu la direzione intrapresa dai vertici della gerarchia sociale della nomenklatura, che aspirava allo stesso stile di vita opulento delle alte sfere occidentali, a segnare il destino del sistema sovietico.[73]
Come spiegarono Harry Magdoff e Fred Magdoff in “Approaching Socialism”, “le carenze dell'economia sovietica, che divennero evidenti non molto tempo dopo la ripresa dalla Seconda guerra mondiale, non furono il risultato del fallimento della pianificazione centralizzata, ma del modo in cui la pianificazione fu condotta. La pianificazione centralizzata in tempo di pace non richiede il controllo, da parte delle autorità centrali, di ogni dettaglio della produzione. Non solo il comandismo e l'assenza di democrazia non sono ingredienti necessari della pianificazione centralizzata, ma sono controproducenti per una buona pianificazione. Ironia della sorte, furono il carattere di classe del sistema sovietico e la corruzione dilagante a portarlo alla sua fine.[74]
Il periodo dell'economia di comando della Cina, dopo la rivoluzione del 1949, fu molto più breve, durando essenzialmente dal 1953 al 1978. La Cina lanciò il suo primo piano quinquennale, basato sul modello sovietico, nel 1953 e la sua fase di pianificazione durò fino all’istituzione delle "riforme di mercato", un quarto di secolo dopo. Durante il suo periodo di pianificazione centralizzata, in cui dovette anche affrontare la minaccia statunitense che la costrinse a dirottare le principali risorse necessarie alla difesa nazionale, la Repubblica Popolare Cinese raggiunse comunque risultati considerevoli, ponendo le basi industriali e sociali per l'ancor più notevole sviluppo economico,che sarebbe seguito con l'apertura dell'economia cinese e la sua integrazione controllata con l'economia mondiale.
Non c'è dubbio che nel periodo iniziale di pianificazione i risultati dell'economia di comando cinese fossero discontinui. La pianificazione centralizzata, com’è stata istituita in Cina, presentava molte delle stesse criticità che aveva in Unione Sovietica, portò a squilibri ed allo stesso fenomeno di «scomparsa della pianificazione nel piano». Tuttavia, furono raggiunti enormi risultati. L'agricoltura fu posta su nuove basi, con i collettivi e la proprietà sociale.[75] «Poche persone ne furono consapevoli», scrisse Fred Magdoff nella sua prefazione a The Unknown Cultural Revolution: Life and Change in a Chinese Village di Dongping Han, «nella visita in Cina nell'estate del 1974, durante la Rivoluzione Culturale, di una delegazione di agronomi statunitensi. Essi viaggiarono molto e rimasero stupiti da ciò che osservarono, come descritto in un articolo del New York Times (24 settembre 1974). La delegazione era composta da dieci scienziati «esperti osservatori di colture con una vasta esperienza in Asia». Come disse il premio Nobel Norman Borlaug: «Dovevi cercare attentamente per trovare un terreno mal coltivato. Ovunque viaggiassimo, tutto era verde e bello. I progressi erano molto più rimarchevoli di quanto mi aspettassi». Il capo della delegazione, Sterling Wortman, vicepresidente della Fondazione Rockefeller, descrisse il raccolto di riso come « … davvero di prim'ordine. Un terreno coltivato dopo l’altro, come qualsiasi cosa che si possa vedere». Gli osservatori rimasero colpiti anche dal livello di abilità degli agricoltori nelle comuni. Wortman dichiarò: «Sono tutti elevati al miglior livello di abilità. Condividono tutti gli input a loro disposizione». Una dettagliata descrizione delle loro osservazioni sull’agricoltura cinese fu pubblicata dal Dr. Sprague nel 1975 sulla prestigiosa rivista Science. Gran parte dei progressi dell'agricoltura cinese dopo la Rivoluzione Culturale furono resi possibili dai progressi compiuti in quel periodo. Anche l'aumento dell'uso di fertilizzanti verificatosi tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 fu reso possibile dalle fabbriche appaltate dalla Cina nel 1973.[76]
La crescita del potenziale industriale in Cina sotto Mao Zedong è stata "relativamente rapida" se paragonata a quella di quasi tutti gli altri Paesi in via di sviluppo.[77] L'alfabetizzazione e l'aspettativa di vita media sono state completamente trasformate, ponendo la Cina, alla fine degli anni '70, al pari dei Paesi a medio reddito in termini di fattori di sviluppo umano, nonostante il reddito pro capite ancora estremamente basso. L'«impatto netto della pianificazione» fu un enorme incremento del "tasso di progresso tecnico". Come ha scritto Chris Bramall nella sua opera principale del 1993, In Praise of Maoist Economic Planning, «Se si pensa che le capacità siano un migliore indicatore dello sviluppo economico rispetto all'opulenza, sia la Cina che la provincia del Sichuan si erano molto sviluppate al momento della morte di Mao. Il fatto che la Banca Mondiale scelga di dare maggiore risalto all'opulenza è una decisione puramente normativa».[78]
Dopo il 1978 la Cina è passata rapidamente da un'economia interamente pianificata centralmente a un sistema di economia mista, simile alla NEP di Lenin. In termini marxisti potrebbe essere visto strutturalmente, come ha osservato Samir Amin, come un "capitalismo di stato" sotto la guida del Partito Comunista Cinese (sebbene siano stati utilizzati anche i termini "socialismo di mercato" e persino "socialismo di stato").[79] Ciò significa che c'è stata una brusca svolta verso il mercato, mentre il settore statale è rimasto enorme, dominando i vertici dell'economia e guidando l'intero sistema, sotto il "socialismo con caratteristiche cinesi". Il PIL cinese è cresciuto di trenta volte tra il 1978 e il 2015, superando di gran lunga tutti gli altri "miracoli economici" storici in materia di industrializzazione.[80]
I terreni, soprattutto nelle aree rurali, sono rimasti per la maggior parte di proprietà statale/collettiva. Attualmente la Cina ha circa 150.000 imprese statali, di cui circa 50.000 di proprietà del governo centrale e il resto dei governi locali. Le imprese statali rappresentano circa il 30% del PIL totale (circa il 40% del PIL non agricolo) e circa il 44% del patrimonio nazionale.[81] Queste imprese sono strettamente controllate dal governo (con i direttori generali delle imprese statali nominati dal Dipartimento centrale per l’Organizzazione del Partito). Sono integrate nel mercato, ma ricevono sostegno e sussidi statali e devono soddisfare gli obiettivi governativi al di là della massimizzazione dei profitti, fornendo al contempo un surplus economico allo Stato, pari al 30% dei loro profitti. Durante la pandemia COVID-19, il Partito ha assegnato alle imprese statali un ruolo significativo.[82]
La Cina continua a introdurre piani quinquennali in cui il controllo sul settore statale è il suo principale punto di forza per guidare l'intera economia.[83] Nel 2002, c'erano sei imprese statali cinesi nella Global Fortune 500. Nel 2012 sono salite a sessantacinque. Il Partito Comunista Cinese riconosce esplicitamente che il mercato è una forza senza cuore e senza cervello, che richiede un ruolo diretto dello Stato nella guida dell'economia. Ciò ha assunto la forma di quella che è nota come “regolazione statale (ovvero regolazione pianificata)” e del principio di “coproduzione” di stato e mercato.[84]
Come ha osservato Yi Wen, economista e vicepresidente del Consiglio della Federal Reserve di St. Louis, «la Cina ha compresso in una sola generazione i circa 150-200 (o anche più) anni di cambiamenti economici rivoluzionari sperimentati dall'Inghilterra nel 1700-1900 e dagli Stati Uniti nel 1760-1920 e dal Giappone nel 1850-1960».[85] Un aspetto importante dell'economia cinese, che conserva un settore statale trainante, e quindi una capacità molto maggiore da parte dello Stato di regolare l'economia - e di pianificare i cambiamenti nella ripartizione di lavoro e risorse - è una maggiore immunità alle crisi economiche, generalmente limitate a disturbi locali della produzione.[86] Tuttavia, le contraddizioni centrali del “socialismo con caratteristiche cinesi” si trovano nel livello di disuguaglianza che ha ormai quasi raggiunto proporzioni statunitensi, e nell'estremo sfruttamento della manodopera migrante dalle aree rurali, impiegata nella produzione di esportazioni per le multinazionali straniere. Queste sono diventate le principali aree problematiche.[87]
La fine dell'Unione Sovietica e l'apertura della Cina all'economia mondiale sono state universalmente accolte in Occidente - in particolare nell’ambito dell'economia ortodossa, nucleo ideologico del sistema - come la prova definitiva che la pianificazione economica era impraticabile e destinata a fallire fin dall'inizio. Il socialismo veniva identificato interamente con la pianificazione, che, si diceva, portava all'inevitabile fallimento. Implicito a tutto ciò era il «presupposto che la pratica sovietica rivela la natura essenziale di un'economia pianificata a livello centrale».[88]
Tuttavia, una condanna così categorica della pianificazione centralizzata in tutte le sue forme e circostanze, avulsa dall'analisi concreta, non aveva alcuna base teorica ed era contraddetta dalla realtà. Le stesse economie capitaliste avevano spesso fatto ricorso alla pianificazione centralizzata di emergenza in tempo di guerra. Durante la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti, ad esempio, istituirono un esteso sistema di pianificazione nazionale, gestito dal War Production Board e da altre agenzie, che spostava risorse e produzione mentre istituiva il razionamento e il controllo dei prezzi. La produzione automobilistica civile, che costituiva il principale settore industriale del paese, fu rapidamente convertita nella produzione di armamenti, carri armati e aerei. C'era un disperato bisogno di produrre navi da guerra e navi mercantili. I beni militari erano necessari non solo per gli Stati Uniti ma anche per i loro alleati.[89] Ciò richiese anche una massiccia espansione e importanti cambiamenti nella forza lavoro, poiché milioni di uomini furono chiamati al servizio militare. L'occupazione retribuita delle donne crebbe del 57% durante la guerra; nel 1943, le donne costituivano il 65% della forza lavoro nell'industria aeronautica.[90] Tutto ciò richiedeva una pianificazione centrale, con agenzie di pianificazione, direttive statali e controlli fiscali e monetari. La ricerca governativa nel campo della scienza e della tecnologia fu potenziata, soprattutto col famoso Progetto Manhattan. Il surplus economico generato dalla società fu massicciamente reindirizzato per facilitare la produzione bellica, mentre l'industria doveva essere coordinata per massimizzare specifici beni militari al momento e al ritmo giusto.[91] La pianificazione centralizzata, come l'ha definita Michał Kalecki, «include il volume della produzione, il fondo salari, i progetti di investimento più ampi, nonché il controllo dei prezzi e la distribuzione dei materiali di base». La pianificazione americana in tempo di guerra si adatta in larga misura a questa definizione, dimostrando che un'economia mista non era sempre incompatibile con la pianificazione centralizzata.[92]
Senza una pianificazione sociale ed economica, gli obiettivi del socialismo volti all'uguaglianza sostanziale e alla sostenibilità ecologica sono impossibili da raggiungere. La logica e l'esperienza storica mostrano che senza un sistema di pianificazione di qualche tipo che operi a vari livelli, dal luogo di lavoro locale a quello nazionale, non è possibile affrontare efficacemente l'emergenza ecologica planetaria o permettere un «buen vivir per tutte le persone».[93] Semplicemente, questo non può essere realizzato in una società di «Accumulate, accumulate! Questo dicono Mosé e i profeti!»[94] La pianificazione, tuttavia, deve essere democratica se vuole ottenere risultati socialmente ottimali. «Non c'è nulla nella pianificazione centrale» in sé, notano Fred e Harry Magdoff in "Approaching Socialism", «che richiede il comandismo e la consegna di tutti gli aspetti della pianificazione alle autorità centrali. Ciò si verifica a causa dell'influenza di particolari interessi burocratici e del potere sovrastante dello Stato. La pianificazione per il popolo deve coinvolgere il popolo. I piani delle regioni, delle città e dei paesi richiedono il coinvolgimento attivo delle popolazioni locali, delle fabbriche e dei negozi nei consigli dei lavoratori e delle comunità. Il programma generale, in particolare la decisione sulla distribuzione delle risorse tra beni di consumo e investimenti, richiede la partecipazione del popolo. E per questo, il popolo deve conoscere i fatti, un modo chiaro per informare il proprio pensiero e contribuire alle decisioni fondamentali.[95]
Un'economia pianificata, unificata e diversificata, che comprenda più livelli e preveda la "democrazia nell’intero processo", non richiede l'eliminazione del mercato dei consumi o della libertà dei lavoratori di lavorare dove vogliono (e quindi un mercato del lavoro in questo senso).[96] Richiede, tuttavia, il controllo degli investimenti in beni capitali e della finanza, e quindi dei controlli sociali che consentano l’investimento del surplus economico in modi che vadano a beneficio della popolazione nella sua interezza (comprese le generazioni future), assicurando condizioni egualitarie, le basi fondamentali dello sviluppo umano per tutti gli individui e la protezione dell'ambiente naturale.
Nel suo saggio “In Defense of Socialist Planning” del 1986, Ernest Mandel sosteneva che il vantaggio principale della pianificazione economica è che le decisioni sulla distribuzione delle risorse e del lavoro vengono prese a priori e poi corrette per tentativi ed errori, piuttosto che a posteriori attraverso la forza mediatrice del mercato delle merci (e del suo «razionamento da parte del portafoglio»). La pianificazione consente quindi di prendere decisioni direttamente sulla base di ciò che Marx chiamava la «gerarchia dei ... bisogni». Ciò non richiede che tutte le decisioni siano prese da una burocrazia centralizzata; è coerente con una democrazia socializzata basata sulla «istituzionalizzazione della sovranità popolare». I parametri fondamentali della produzione sarebbero stabiliti dai produttori associati in una società organizzata sul principio della cooperazione. Una società di questo tipo «crescerebbe nella civiltà piuttosto che nel consumismo».[97]
Stati socialisti e ambiente
C'è un'idea ampiamente diffusa, che è diventata quasi universalmente accettata dopo la fine dell'Unione Sovietica, secondo cui i risultati sovietici in merito all’ambiente fossero molto peggiori di quelli occidentali, e che questo fosse attribuibile al socialismo e alla pianificazione centralizzata.[98] È vero che i risultati dell'URSS in merito all’ambiente fossero deplorevoli sotto molti aspetti. Basti pensare a Chernobyl e al lago d'Aral. Nell'era di Stalin, molti dei pionieri ecologisti sovietici furono epurati, con importanti conseguenze per lo sviluppo sovietico. Tuttavia, la visione dominante cancella i successi ambientali sovietici, che si riscontrano nelle cinture verdi intorno alle città, nelle famose zapovedniki (riserve ecologiche scientifiche), nelle massicce campagne di rimboschimento/forestazione, nel ruolo di guida nella promozione di accordi ambientali a livello internazionale e nelle potenti organizzazioni ambientaliste, che esercitavano pressioni sul governo. La All-Russian Society for the Preservation of Nature (Società Russa per la Conservazione della Natura), guidata in gran parte da scienziati, contava trentasette milioni di membri nel 1987, il che la rendeva la più grande organizzazione di difesa della conservazione al mondo.[99]
Con l'industrializzazione e la modernizzazione dell'Unione Sovietica, che ha dovuto affrontare elevati livelli di spesa militare a causa della minaccia occidentale della Guerra Fredda, l'Unione Sovietica si è naturalmente allineata ai livelli occidentali di distruzione ambientale. Come l'Occidente, alla fine ha risposto, anche se non senza contraddizioni, ai propri movimenti ambientalisti. La protezione e la conservazione dell'ambiente furono incorporate, anche se in modo inadeguato, nel sistema di pianificazione generale. L'Unione Sovietica disponeva di un sistema molto esteso di leggi ambientali, che tuttavia non erano sufficientemente applicate. Furono gli scienziati sovietici, presto seguiti da quelli statunitensi, a lanciare per primi l'allarme sull'accelerazione del riscaldamento globale.[100] Grandi sforzi furono compiuti anche nel settore della conservazione del suolo.[101] Negli anni '80, il concetto di "civiltà ecologica" nacque per la prima volta in Unione Sovietica e fu presto adottato in Cina, dove è diventato un aspetto centrale della pianificazione generale, come si evince dai piani quinquennali cinesi.[102] Importanti economisti sovietici, come P. G. Oldak, sostennero la necessità di una trasformazione radicale della contabilità del reddito nazionale sovietico per integrare le misure dirette alla compensazione della distruzione ambientale. «'Di più'» sosteneva, «non è sempre 'meglio'».[103]
I risultati ambientali dell'Unione Sovietica in materia di inquinamento, pur non essendo soddisfacenti, erano generalmente migliori se confrontati con quelli degli Stati Uniti, a parità di popolazione. Le emissioni pro capite di anidride solforosa, protossido di azoto, particolato e anidride carbonica dell'Unione Sovietica erano tutte molto inferiori a quelle degli Stati Uniti, mentre le emissioni pro capite di anidride carbonica sono diminuite negli ultimi anni. L'impronta ecologica pro capite dell'Unione Sovietica, la misura più completa dell'impatto ambientale, era di gran lunga inferiore a quella degli Stati Uniti, e il divario è aumentato negli anni '80, quando l'impronta ecologica pro capite degli Stati Uniti ha continuato a crescere mentre quella dell'URSS si è stabilizzata. Inoltre, questo era vero nonostante gli Stati Uniti fossero in grado di «scaricare i danni ambientali su molti altri Paesi». Gli Stati Uniti erano molto più ricchi e tecnologicamente avanzati, ma causarono anche molti più danni all'ambiente globale.[104]
Sebbene la pianificazione sovietica e quella di altre società post-rivoluzionarie siano state indirizzate alla crescita economica, imitando in qualche misura il capitalismo, la spinta interna e di classe all'accumulazione di capitale, non è una caratteristica strutturale intrinseca di una società socialista pianificata. Per questo motivo, Paul M. Sweezy ha sostenuto nel 1989 che le economie pianificate, realmente esistenti, offrissero all'umanità le migliori possibilità di realizzare le rapide trasformazioni della produzione e del consumo necessarie per affrontare la crisi ambientale globale.[105]
Cuba, sebbene sia un paese povero che deve far fronte a un perenne blocco economico da parte degli Stati Uniti, è stata a lungo riconosciuta come la nazione più ecologica della Terra, secondo il Living Planet Report della World Wildlife Federation. Cuba è stata in grado di dimostrare che un paese può avere un’alta valutazione dello sviluppo umano pur avendo una bassa impronta ecologica. Ciò è dovuto al fatto che nella sua pianificazione ha posto in primo piano lo sviluppo umano per la popolazione nel suo complesso, comprese le condizioni ambientali.[106]
Nel frattempo, la Repubblica popolare cinese ha fatto passi da gigante nella direzione della "civiltà ecologica", nonostante il suo tentativo di portare il reddito pro capite della popolazione al di sopra del livello attuale, che attualmente è meno di un quinto di quello della Stati Uniti (in termini di cambio di mercato), che necessita di alti tassi di crescita economica.[107] Ciò è stato accompagnato da una continua, seppur ridotta, dipendenza dalle centrali a carbone come principale fonte di energia. Tuttavia, la Cina ha fatto passi da gigante nel campo delle tecnologie sostenibili, dove è leader mondiale; nella rapida riduzione dell'inquinamento; e nei livelli globali di riforestazione/rimboschimento.[108]
Nell'attuale clima ecologico, Cina e Cuba, insieme ad altre economie miste, dirette dallo stato e semi-pianificate, come il Venezuela, con i suoi tentativi, attraverso la Rivoluzione Bolivariana, di costruire uno stato comunitario e i suoi straordinari risultati in termini di sicurezza e sovranità alimentare - offrono una speranza di svolta ecologica nell'attuale emergenza planetaria, attualmente assente nell'opulento mondo capitalista.[109]
Pianificare lo sviluppo umano sostenibile
La decrescita pianificata o 'deaccumulazione' e il passaggio a uno sviluppo umano sostenibile sono ormai inevitabili nei Paesi più ricchi, le cui impronte ecologiche pro capite sono insostenibili su base planetaria, se si vuole che la civiltà organizzata sopravviva. La portata e il ritmo della necessaria trasformazione ecologico-energetica, come sottolineato nei rapporti scientifici sul cambiamento climatico e su altri limiti planetari, indicano che per evitare la catastrofe è necessario attuare una trasformazione rivoluzionaria dell'intero sistema di produzione e consumo secondo il principio «Meglio più piccolo, ma meglio».[110] Pertanto, i principali paesi capitalisti/imperialisti, che costituiscono la principale fonte del problema, devono cercare una « via d'uscita prospera», concentrandosi sul valore d'uso piuttosto che sul valore di scambio.[111] Ciò richiede di passare a livelli molto più bassi di consumo energetico e di gravitare verso uguali quote globali pro capite, azzerando contemporaneamente le emissioni di carbonio.
Allo stesso tempo, i Paesi più poveri con una bassa impronta ecologica devono potersi sviluppare in un processo generale che prevede la contrazione del flusso di energia e materiali nei Paesi ricchi e la convergenza del consumo pro capite in termini fisici nel mondo intero.[112] Il ridimensionamento delle economie ricche richiederà un massiccio passaggio a tecnologie sostenibili, tra cui l'energia solare ed eolica. Ma nessuna delle tecnologie esistenti è in grado, da sola, di risolvere il problema climatico nella tempistica richiesta, per non parlare dell'affrontare l'emergenza planetaria nella sua interezza, consentendo al contempo la prosecuzione dell'accumulazione esponenziale illimitata e la cattiva distribuzione imposte dal capitalismo.[113]
Ciò che è oggettivamente necessario a questo punto della storia umana è quindi una trasformazione rivoluzionaria delle relazioni sociali che regolano la produzione, il consumo e la distribuzione. Ciò significa un drastico allontanamento dal sistema del capitale monopolistico, dello sfruttamento, dell'espropriazione, dello spreco e dell'incessante spinta all'accumulazione.[114] Al suo posto, un'umanità rivoluzionaria basata sulla popolazione attiva - un emergente proletariato ambientale - dovrà esigere una nuova formazione sociale che provveda ai bisogni fondamentali di tutta la popolazione, seguiti dai bisogni della comunità, compresi i bisogni di sviluppo di tutti gli individui.[115] Ciò sarà reso possibile da miglioramenti qualitativi del lavoro, dal rilievo dato al lavoro utile e al lavoro di cura, insieme alla condivisione dell'abbondante ricchezza sociale, essa stessa prodotto del lavoro umano. Un rapporto sostenibile con la terra è un requisito assoluto senza il quale non ci può essere un futuro umano. Tutto questo richiede di andare contro la logica dell'accumulazione capitalista nel presente. La pianificazione economica dovrà essere riorganizzata, non per la crescita economica o per la guerra contro altri Paesi, ma per creare una nuova serie di priorità sociali finalizzate alla prosperità umana e a un metabolismo sociale sostenibile con la Terra.
Una «visione socialista degli Stati Uniti», ha scritto Harry Magdoff nel 1995, richiederebbe una diminuzione dell'uso di energia, della produzione di auto civili e dei sussidi governativi alle imprese che distruggono l'ambiente. «Nei Paesi ricchi sarebbe necessario uno stile di vita molto più semplice per preservare la Terra come luogo dell'esistenza umana». Per raggiungere questo obiettivo, «la crescita dovrebbe essere ridotta o controllata». In un tale sistema sarebbe essenziale concentrarsi sui bisogni primari, come un alloggio adeguato e dignitoso per tutti. Le spese belliche orientate all'imperialismo dovrebbero cessare e le restrizioni all'immigrazione dovrebbero essere eliminate. Tutto questo richiede una pianificazione sociale ed economica. Nulla di tutto ciò potrebbe essere ottenuto affidandosi principalmente al sistema dei prezzi di mercato, che promuove invariabilmente disuguaglianza, distruzione ambientale, guerra ed esclusione.[116] Come ha scritto il sociologo britannico Anthony Giddens in The Politics of Climate Change, «una pianificazione di qualche tipo è inevitabile» di fronte all'attuale crisi planetaria.[117]
Negli Stati Uniti e in altri Paesi ricchi esistono già attualmente i mezzi per una trasformazione massiccia e qualitativa della società in linea con le priorità sociali e i bisogni della classe operaia oppressa, allontanandosi dall'imperialismo e dall'oppressione globale dei “miserabili della terra”. Questo si può facilmente vedere nell’attuale bilancio militare di trilioni di dollari, che potrebbe essere riutilizzato per realizzare quei cambiamenti nell'infrastruttura energetica necessari per la sopravvivenza umana. Ma si può anche vedere nei crescenti livelli di espropriazione del surplus dai produttori diretti. Uno studio della RAND Corporation ha stimato che tra il 1980 e il 2018 sono stati espropriati 47 trilioni di dollari (in dollari del 2018), al 90% più povero della popolazione statunitense, calcolati sulla base di quanto avrebbero ricevuto se il reddito fosse cresciuto in modo equo all'interno dell'economia del periodo. Questa cifra supera l'intero valore attuale del patrimonio immobiliare statunitense, che nel gennaio 2022 era di 43 trilioni di dollari.[118] Alla base di questo enorme surplus sociale c'è il lavoro sociale, che deve essere considerato su base economica ed ecologica, e non più sulla base dell'accumulazione privata.[119]
Anche l'esame più superficiale dei più ampi sprechi e sfruttamentiel sistema solleva quello che Morris chiamava il problema del «lavoro utile contro fatica inutile».[120] L'enorme surplus economico derivante dal lavoro sociale - misurato non solo da profitti, dagli interessi e dagli affitti, ma anche dagli sprechi, dalla cattiva distribuzione e dall'irrazionalità di base del sistema - è già molte volte superiore a quello necessario per realizzare i vasti cambiamenti necessari per creare una società di sviluppo umano sostenibile. È il capitalismo stesso che impone la scarsità e l'austerità alla popolazione per costringere i lavoratori a sacrificare ulteriormente le loro vite per un sistema di sfruttamento, che ora minaccia una crisi di abitabilità planetaria per tutta l'umanità e innumerevoli altre forme di vita.
La maggior parte delle strategie di decrescita, anche quelle promulgate dagli ecosocialisti, rimandano all'ideologia dominante, preferendo non sollevare la questione della pianificazione, anche di fronte all'emergenza planetaria. In effetti, si tende a rinunciare a misure ovvie come la nazionalizzazione delle società energetiche e il taglio obbligatorio delle emissioni per le imprese. Invece, i teorici della decrescita propongono generalmente un menu di "alternative politiche", come un Green New Deal in stile keynesiano, un reddito di base universale, una riforma fiscale ecologica, una settimana lavorativa più breve, una maggiore automazione e così via, nessuna delle quali entra in conflitto diretto con il sistema, o si avvicina ad affrontare l'enormità del problema, in quelle che vengono considerate riforme non riformiste.[121]
Le proposte per una drastica riduzione dell'occupazione, non solo per un orario di lavoro più breve, sostenute, in molti programmi di decrescita, da un reddito di base garantito, cercano di aggiustare i parametri del capitalismo, piuttosto che trascenderli, in un approccio che genererebbe il tipo di condizioni distopiche descritte nel romanzo di Kurt Vonnegut, Player Piano.[122] Come scrissero Leo Huberman e Sweezy quando la nozione di un reddito di base garantito fu ventilata per la prima volta negli anni '60, «la nostra conclusione può essere solo che l'idea di un reddito garantito incondizionatamente non è il grande principio rivoluzionario che gli autori di The Triple Revolution evidentemente credono che sia. Se applicato nel nostro sistema attuale, sarebbe, come la religione, un oppiaceo del popolo che tende a rafforzare lo status quo. E in un sistema socialista... non sarebbeaffatto necessario e potrebbe fare più male che bene».[123]
Alcuni socialisti della non-decrescita, di fronte al cambiamento climatico, hanno ceduto al feticismo della tecnologia, proponendo pericolose misure di geoingegneria che inevitabilmente aggraverebbero la crisi ecologica planetaria nel suo complesso.[124] Non c'è dubbio che molti a sinistra vedano oggi l'intera soluzione come consistente in un Green New Deal che espanderebbe i posti di lavoro green e la tecnologia green, portando la crescita green in un circolo apparentemente virtuoso. Ma poiché questo è solitamente orientato a un'economia di crescita keynesiana e difeso in questi termini, i presupposti alla base di tutto ciò sono discutibili.[125] Una proposta più radicale, più in linea con la decrescita, sarebbe un People's Green New Deal orientato al socialismo e alla pianificazione ecologica democratica.[126]
Sotto il capitale monopolistico-finanziario di oggi, interi settori della professione sanitaria, dell'istruzione, delle arti e così via sono colpiti da quella che è nota come la "malattia del costo di Baumol", dal nome di William J. Baumol, che introdusse l'idea nel suo libro del 1966, Performing Arts: The Economic Dilemma.[127] Questo si verifica quando i salari aumentano e la produttività no. Così, come dichiara la rivista Forbes senza alcuna traccia di ironia: «La produzione di un quartetto [d'archi] che suona Beethoven non è aumentata dal XIX secolo», sebbene il loro reddito sia aumentato. La malattia del costo di Baumol è considerata applicabile principalmente a quei settori di lavoro in cui la nozione di aumento quantitativo della produttività è generalmente priva di significato. Tuttavia, come si misura la produttività di un'infermiera che cura i pazienti? Certamente non dal numero di pazienti per infermiera, indipendentemente dalla quantità di cure che ciascuno riceve e dai risultati ottenuti. Il risultato degli obiettivi incentrati sul profitto, nell'economia altamente finanziarizzata di oggi, è il sottoinvestimento e l'istituzionalizzazione di bassi salari proprio in quei settori caratterizzati come soggetti alla cosiddetta malattia del costo di Baumol, semplicemente perché non favoriscono direttamente l'accumulazione di capitale.
Al contrario, in una società ecosocialista, dove l'accumulazione di capitale non è l'obiettivo primario, sarebbero spesso quelle aree ad alta intensità di lavoro nelle professioni di cura, nell'istruzione, nelle arti e nelle relazioni organiche con la terra ad essere considerate più importanti e integrate nella pianificazione sociale.[128] In un'economia orientata alla sostenibilità, il lavoro stesso potrebbe sostituire l'energia dei combustibili fossili, come nella piccola agricoltura biologica e sostenibile, più efficiente in termini ecologici.[129]
Scrivendo nel 1957 in The Political Economy of Growth, Baran ha sostenuto che il surplus economico pianificato potrebbe essere intenzionalmente ridotto nella pianificazione socialista, rispetto a quanto era allora possibile, al fine di garantire la «conservazione delle risorse umane e naturali». In questo caso, l'accento non sarebbe stato posto semplicemente sulla crescita economica, ma sul soddisfacimento dei bisogni sociali, compresa la riduzione dei costi ambientali; ad esempio, scegliendo di tagliare «l'estrazione del carbone».[130] Tutto ciò significava, in effetti, dare priorità allo sviluppo umano sostenibile rispetto a forme distruttive di crescita economica. Oggi, l'eliminazione dei combustibili fossili, anche se comporta una riduzione del surplus economico generato dalla società, è diventata una necessità assoluta per il mondo intero, che si trova di fronte a quella che Noam Chomsky ha definito «la fine dell'umanità organizzata».[131] Per dirla con le parole di Engels e Marx, è necessario sbloccare la «valvola di sicurezza inceppata» sulla locomotiva capitalista «che corre verso la rovina». La scelta è tra socialismo o sterminismo, «rovina o rivoluzione».[132]