Acqua. La (ir)razionalità del capitalismo
di Giovanna Cracco
Da gennaio 2023 a gennaio 2024, diciannove Paesi africani hanno segnalato focolai di colera: Etiopia, Mozambico, Tanzania, Zambia e Zimbabwe tra i più colpiti, con migliaia di morti. In Zambia, l’epidemia è concentrata soprattutto nelle aree urbane come Lusaka, la capitale, afferma Viviane Ru-tagwera Sakanga, direttrice di Amref Zambia, “dove la densità di popolazione e la mancanza di servizi igienici e accesso all’acqua pulita, soprattutto negli insediamenti informali, ha contribuito alla diffusione dell’infezione in maniera devastante”: da ottobre scorso a marzo, 20.000 casi (1). Oltre al colera, epatite A, tifo, poliomielite e diarrea acuta sono le principali malattie causate dall’uso di acqua contaminata e dalla mancanza di servizi igienici adeguati; gli ultimi dati Unicef riportano che la diarrea acuta, da sola, uccide ogni giorno 700 bambini sotto i 5 anni (2) ed è la causa dell’80% delle morti infantili nel continente africano, dove 779 milioni di persone sono prive di servizi igienici di base e 411 milioni non hanno accesso a un servizio di acqua potabile (3).
Secondo il report Unesco uscito a marzo (4), tra il 2002 e il 2021 la siccità ha colpito 1,4 miliardi di persone, ha provocato la morte di oltre 21.000, e oggi circa metà della popolazione mondiale vive in condizioni di grave scarsità idrica per almeno una parte dell’anno. Tre proiezioni contenute nel rapporto del 2021 (5) ipotizzano differenti scenari, nessuno ottimista: il primo stima che l’uso mondiale dell’acqua continuerà a crescere a un tasso annuale di circa l’1%, con un conseguente aumento del 2030% entro il 2050; il secondo prevede che la domanda globale di acqua dolce crescerà del 55% tra il 2000 e il 2050; il terzo afferma che il mondo affronterà un deficit idrico globale del 40% entro il 2030: più domanda che offerta.
Entrambi i report evidenziano inoltre che i cambiamenti climatici intensificheranno il ciclo globale dell’acqua, aumentando ulteriormente la frequenza e la gravità di siccità e inondazioni, e il documento del 2024 aggiunge: “Se l’umanità ha sete, le questioni fondamentali relative all’istruzione, alla salute e allo sviluppo passeranno in secondo piano, eclissate dalla quotidiana lotta per l’acqua”, con “un’alta probabilità che questa situazione possa generare conflitti”.
L’acqua è una risorsa vitale, e la sua scarsità con tutte le conseguenze che comporta è ormai un argomento ampiamente dibattuto. Meno noto è il numero di guerre che innesca, o all’interno delle quali diviene arma e, parallelamente, altrettanto poco conosciuti sono alcuni suoi impieghi. I due aspetti o meglio tre: scarsità e conseguenti conflitti, da una parte, e utilizzo, dall’altra sono tra loro collegati da un paradosso, che non è di esclusiva pertinenza dell’acqua: piuttosto è sistemico, ma l’acqua lo rende smaccato. Lo sentiamo ripetere continuamente: l’acqua non va sprecata, dobbiamo farne un uso oculato e razionale. Si tratta tuttavia di intendersi sui termini. Google, Microsoft e Meta come vederemo hanno utilizzato 2,2 miliardi di metri cubi d’acqua equivalenti al doppio del prelievo idrico annuale della Danimarca nel solo 2022, registrando aumenti significativi rispetto al 2021, collegati all’incremento di domanda di intelligenza artificiale. Che cosa dunque consideriamo ‘spreco’? Il capitalismo è un sistema che si autodefinisce razionale. Quale razionalità dunque pretende di incarnare?
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L’acqua e la guerra
Fondato nel 1987, il Pacific Institute mette a disposizione quello che probabilmente è oggi il più circostanziato database su scala mondiale relativo ai conflitti per l’acqua (6). Dettagliatamente suddivisi per area geografica, Paese e per tipologia di crisi, è tuttavia l’analisi cronologica a offrire la più intelligibile fotografia della situazione attuale: appena 12 conflitti in tutto il pianeta in diciassette secoli, tra l’anno 0 e il 1799; 16 conflitti durante l’Ottocento; 177 conflitti nel corso di tutto il Novecento; 213 conflitti nei primi dieci anni del Duemila; 629 conflitti tra il 2010 e il 2019; 543 conflitti negli ultimi quattro anni, tra il 2020 e il 15 ottobre 2023, attuale aggiornamento del database. L’escalation è evidente. Gli ultimi ventiquattro anni hanno visto 1.385 conflitti, a fronte di 205 registrati nei duemila anni precedenti. Se è indubbio che l’aumento delle crisi dipenda anche da una maggiore presenza di dati relativi agli ultimi secoli, che consente di tenerne traccia, è altrettanto indubbio che il numero dei conflitti per l’acqua cresca con l’incremento della popolazione e il conseguente rapporto tra fabbisogno e disponibilità.
In merito alla tipologia del conflitto, il database ne riconosce tre, sottolineando che una crisi possa sommarne più d'una. L'acqua come “innesco”, ossia fattore scatenante o causa principale della guerra, quando è in gioco direttamente il suo controllo o quello dei sistemi idrici: sono 722 i conflitti di questo tipo esplosi in tutto il pianeta dall'anno 0 al 15 ottobre 2023, di cui 369 successivi al 2000 e 285 nei soli ultimi quattro anni. L'acqua come “arma”, quando risorse o sistemi idrici sono usati come strumenti contro il nemico all'interno di una guerra, principalmente cercando di interromperne l'accesso o la fornitura: 184 conflitti in totale, di cui 104 nel secolo attuale. Infine acqua come “vittima”, quando risorse o sistemi idrici divengono obiettivi intenzionali o oggetto di danni accidentali all'interno di un conflitto: su 825 casi in tutto, 604 sono successivi al 2010.
L’acqua nel conflitto israelo-palestinese
Il decennale conflitto tra Israele e Palestina ha una lunga storia collegata all'acqua, utilizzata soprattutto come arma. Dal 1948 al 15 ottobre 2023, il Pacific Institute ha registrato 124 situazioni di crisi: ben 92 si sono verificate negli ultimi quattro anni, con un incremento a partire dal 2021 (21 casi) e un picco nel 2022 (45 casi). La sintesi della quasi totalità delle crisi che rimanda alla descrizione e alla fonte documentale per i dettagli inizia con queste parole: “Israeli military forces” o “Israeli settlers” o “Israeli settlers, under the protection of Israeli soldiers”, “destroy” o “damage” o “demolish” o “vandalize” (7) pompe dell'acqua, o il sistema di irrigazione agricolo, o serbatoi d'acqua, o il sistema di distribuzione dell'acqua, all'interno dei Territori Palestinesi Occupati della Cisgiordania. Quello israelo-palestinese è un conflitto dell'acqua a senso unico.
A ottobre 2021, su incarico della risoluzione 43/32 del Consiglio per i Diritti Umani, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR) pubblica il rapporto Ripartizione delle risorse idriche nei Territori Palestinesi Occupati, inclusa Gerusalemme Est (8). Già le prime righe del documento danno l'idea del contesto. Per redigere il Rapporto, l'OHCHR chiede informazioni a Israele e allo Stato di Palestina: quest'ultimo fornisce diversi dati, Israele nemmeno risponde, e quando il documento viene pubblicato annuncia il congelamento delle relazioni con l'OHCHR.
“La carenza d'acqua è una caratteristica della vita di tutti i palestinesi, sia nelle aree urbane che in quelle rurali”, scrive l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, “l'occupazione israeliana del territorio palestinese ha aumentato la scarsità di terra, la frammentazione territoriale e l'urbanizzazione e ha imposto restrizioni sull'accesso e sul controllo delle risorse naturali, compresa l'acqua”. Dal 1967 Israele ha infatti posto sotto il proprio controllo tutte le risorse idriche nei Territori Palestinesi Occupati, impedendo la costruzione di nuovi impianti idrici o il mantenimento di quelli esistenti, senza un permesso militare; successivamente, dal 1982, tutti i sistemi di approvvigionamento idrico della Cisgiordania sono passati sotto la proprietà di Mekorot, la società governativa che opera in nome del Ministero israeliano dell’Energia e dell’Autorità per l’Acqua, la quale “dà priorità agli insediamenti israeliani per garantire il loro approvvigionamento idrico permanente, in particolare durante i periodi di siccità estiva, [mentre] le comunità palestinesi spesso subiscono prolungate interruzioni dell’acqua”. In aggiunta, i coloni israeliani hanno deviato risorse idriche, sequestrato pozzi d’acqua, “preso il controllo, distrutto o bloccato l’accesso palestinese alle risorse idriche naturali [...], si sono appropriati di dozzine di sorgenti d’acqua palestinesi, assistiti dall’esercito israeliano”; mentre “le autorità israeliane hanno confiscato e distrutto le infrastrutture idriche, comprese le proprietà fornite come assistenza umanitaria” da Stati terzi. Ne consegue che, “secondo le stime del 2014, l’87% delle acque della falda montana della Cisgiordania è stato utilizzato dagli israeliani e solo il 13% dai palestinesi”.
A Gaza, la situazione è ancora peggiore. “L’acqua disponibile a Gaza non soddisfa i bisogni primari della popolazione”, scrive l’OHCHR, “le pratiche e le politiche israeliane delineate nel presente rapporto che riguardano le infrastrutture idriche, la loro distruzione durante le escalation militari, l’impatto delle chiusure, le carenze energetiche [...] hanno contribuito a una situazione in cui il 96% delle famiglie riceve acqua che non soddisfare gli standard di qualità dell’acqua potabile”. Israele limita inoltre l’ingresso nella Striscia di tutto ciò che considera dual use, ossia utilizzabile sia per scopi civili che militari, e questo include i materiali necessari per mantenere, riparare e migliorare i sistemi idrici e fognari. Si aggiunge un deficit di elettricità “cronico”, che impatta sul funzionamento delle infrastrutture, “con conseguente continua contaminazione della falda acquifera costiera”. La carenza e le continue interruzioni di energia operate da Israele colpiscono anche i “tre impianti di desalinizzazione sostenuti dalla comunità internazionale, [che] producono circa 13 milioni di metri cubi di acqua all’anno [ma] la desalinizzazione richiede una quantità significativa di elettricità e carburante”. Come esito diretto, poiché “la possibilità di utilizzare l’irrigazione è limitata, gli agricoltori usano quantità eccessive di fertilizzanti chimici e pesticidi per aumentare i raccolti”, con conseguenti concentrazioni di nitrati nei pozzi e danni alla salute: “I bambini a Gaza sono particolarmente sensibili ai nitrati presenti nell’acqua, che ostacolano la crescita e influenzano lo sviluppo del cervello [...] alti livelli di nitrati danneggiano le donne incinte e aumentano il rischio di cancro. Le malattie legate all’acqua rappresentano circa il 26% delle malattie infantili a Gaza e sono una delle principali cause di morbilità infantile”. Infine, “Israele contribuisce all’inaccessibilità dell’acqua a Gaza utilizzando ogni anno il 75% della quantità sostenibile di acque sotterranee provenienti dalla falda acquifera costiera, lasciandone poco disponibile per Gaza; la scarsità è aggravata anche dalla deviazione effettuata da Israele di una falda acquifera dalle montagne Jabal al-Khalil nella Cisgiordania meridionale, che aveva precedentemente contribuito a ricostituire le acque sotterranee di Gaza”.
Questa la situazione al 2021, prima delle 45 crisi registrate dal Pacific Institute nel 2022 e prima della guerra attuale. L’immediata reazione di Israele all’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso ha coinvolto, neanche a dirlo, l’acqua: “Attacchi di rappresaglia di Israele contro Gaza hanno danneggiato o distrutto almeno sei pozzi d’acqua, tre stazioni di pompaggio dell’acqua, un serbatoio d’acqua e un impianto di desalinizzazione che serve oltre 1,1 milioni di persone; le forniture, il trattamento e la disponibilità dell’acqua hanno risentito anche dell’interruzione dell’elettricità”, registra l’ultimo aggiornamento del Pacific Institute. Oggi, come sappiamo, dopo sei mesi di guerra, la crisi alimentare a Gaza è anche crisi idrica, sia per scarsità che per le malattie collegate alla mancanza di acqua pulita.
L’acqua e il suo utilizzo
Il Report annuale Unesco del 2024 riporta che, “a livello mondiale, circa il 70% dei prelievi di acqua dolce è destinato all’agricoltura, seguita dall’industria (poco meno del 20%) e dagli usi domestici o municipali (circa il 12%)”. Ovviamente, il rapporto muta in base alle strutture economiche dei Paesi: quelli con reddito più alto utilizzano maggiormente l’acqua per le attività industriali fino al 39% mentre in quelli a reddito più basso l’agricoltura assorbe il 90% delle risorse idriche disponibili (vedi il grafico). Le tendenze future basate sui dati disponibili suggeriscono che ad aumentare sarà la domanda in ambito domestico o municipale: dal 1960 al 2014 è cresciuta del 600%, contro la metà (poco sotto il 300%) dell’incremento dell’industria e il 200% dell’agricoltura. Tuttavia c’è un dato che i rapporti Unesco ancora non considerano: il consumo d’acqua dell’intelligenza artificiale.
L'acqua e l’AI
Pubblicato a ottobre 2023, lo studio Making AI Less 'Thirsty': Uncovering and Addressing the Secret Water Footprint of AI Models (9) si autodefinisce il “primo tentativo nel suo genere di scoprire l’impronta idrica segreta dei modelli di intelligenza artificiale”. Come per l’impronta di carbonio, gli autori suddividono l’utilizzo dell’acqua in ambito 1 (uso in loco per il raffreddamento dei server), ambito 2 (uso fuori sede per la generazione di energia elettrica) e ambito 3 (uso nella catena di fornitura per la produzione dei server), evidenziando tuttavia l’impossibilità a quantificare quest’ultimo per mancanza di dati. Oggetto empirico della ricerca è il modello GPT-3 per i servizi linguistici. L’analisi mostra che il suo addestramento “nei moderni data center statunitensi di Microsoft può consumare un totale di 5,4 milioni di litri di acqua [...]. Inoltre, GPT-3 deve ‘bere’ (cioè consumare) una bottiglia d’acqua da 500 ml per circa 10-50 risposte, a seconda di quando e dove viene utilizzato”. Numeri che, sottolinea lo Studio, potrebbero aumentare per GPT-4 “che, secondo quanto riferito, ha dimensioni del modello sostanzialmente più grandi”.
Prelievo di acqua per settore (percentuale del prelievo totale di acqua dolce) e per livello di reddito, 2020. Fonte: Unesco, The United Nations World Water Development Report 2024: Water for Prosperity and Peace (Kashiwase e Fujs 2023, sulla base dei dati FAO AQUASTAT. Licenza: CC BY 3.0 IGO), marzo 2024
Nel 2022, i data center proprietari di Google con l’esclusione delle strutture di colocation affittate da terze parti hanno prelevato 25 miliardi di litri di acqua e ne hanno consumati quasi 20 miliardi nel solo ambito 1, ossia per raffreddare i server; nel complesso, “il consumo idrico dei data center di Google (sia prelievo che consumo) è aumentato del 20% rispetto al 2021”, mentre quello di Microsoft è cresciuto del 34%; “aumenti così significativi” evidenzia l’analisi, “sono probabilmente attribuibili alla crescente domanda di intelligenza artificiale”. Sempre nel 2022, il prelievo globale di Google, Microsoft e Meta in ambito 1 e 2 ha raggiunto i 2,2 miliardi di metri cubi, equivalente al doppio del prelievo idrico annuale totale (utilizzo agricolo, industriale e municipale/domestico) della Danimarca. Una recente ricerca citata nello Studio suggerisce che “la domanda mondiale di AI potrebbe consumare 85-134 TWh di elettricità nel 2027: se questa stima si dovesse concretizzare, il prelievo idrico operativo globale combinato in ambito 1 e ambito 2 relativo alla sola intelligenza artificiale potrebbe raggiungere 4,2-6,6 miliardi di metri cubi nel 2027, un dato equivalente a 4-6 volte il prelievo annuale totale della Danimarca o alla metà di quello del Regno Unito”. Non manca, infine, un cortocircuito. Per ridurre l’impronta di carbonio, puntualizza lo Studio, è preferibile “seguire il sole”, utilizzando l’energia solare quando è più abbondante; tuttavia, per ridurre l’impronta idrica è meglio “smettere di seguire il sole”, evitando le ore ad alta temperatura della giornata nelle quali la WUE (Water Usage Effectiveness, misura dell’efficienza idrica) è elevata; quindi “ridurre al minimo un’impronta potrebbe aumentare l’altra”.
La (ir)razionalità del capitalismo
Rovesciando la visione di Hegel, per Marcuse il reale è irrazionale. Tuttavia nelle società a capitalismo avanzato, lo stesso sistema capitalisticotecnologico fa apparire razionale ciò che è irrazionale.
La gestione dell’acqua vede scarsità, morti e guerre da una parte, e dall’altra l’incremento del suo utilizzo per l’intelligenza artificiale; persone che muoiono vs lo sviluppo di una tecnologia. “Noi viviamo e moriamo in modo razionale e produttivo” scrive l’intellettuale francofortese ne L'uomo a una dimensione: “Noi sappiamo che la distruzione è il prezzo del progresso, così come la morte è il prezzo della vita; che rinuncia e fatica sono condizioni necessarie del piacere e della gioia; che l’attività economica deve proseguire, e che le alternative sono utopiche. Questa ideologia appartiene all’apparato stabilito della società; è un requisito del suo regolare funzionamento, fa parte della sua razionalità”. Negli anni e nelle società occidentali del boom economico del Novecento quelli in cui scrive Marcuse il capitalismo si autolegittimava come sistema razionale in quanto portatore di benessere a fasce sempre più estese di popolazione: la creazione del celebre ‘ceto medio’. Oggi non è più così. Povertà e diseguaglianza sono in ascesa, in modo talmente evidente che nessuna narrazione contraria riesce nell’intento di risultare credibile. Eppure, il sistema non è messo in discussione dalla gran parte della popolazione. Perché gli equilibri ideologici tra capitalismo e tecnologia sono mutati, ma ancora producono una visione che si vuole razionale. Mentre il capitalismo non si preoccupa più di autolegittimarsi, forte del fatto di essere divenuto ‘sistema naturale’, criterio di interpretazione e valutazione di ogni ambito sociale tutto è letto secondo criteri economici, persino la crisi idrica viene rapportata alla perdita di Pil: ci sono i morti, certo, ci sono le guerre, certo, ma a un dato punto dei report compare sempre l’impatto negativo sui numeri dell’economia la tecnologia ha assunto su di sé, pienamente ed esclusivamente, la caratteristica della razionalità; e in questa inversione d’ordine, la presunta razionalità del sistema è divenuta ancora più difficile da contestare.
Si cercano così soluzioni tecnologiche-capitalistiche ai danni prodotti dallo stesso sviluppo tecnologico-capitalistico: le cause pretendono di trasformarsi in soluzioni, e i profitti derivanti dalle soluzioni si sommano a quelli incassati dalle cause. Mentre consuma miliardi di litri d’acqua, l’intelligenza artificiale deve essere sviluppata perché, nella crisi in cui siamo, permetterà una più efficiente gestione dell’acqua stessa: un paradosso che non viene percepito come tale. Mentre sottrae acqua alla popolazione palestinese di Cisgiordania e Gaza, Israele è tra i principali Paesi sviluppatori di intelligenza artificiale e relative tecnologie molte legate al settore militare -, come mostra anche l’inchiesta a pag. 14, dettagliando la trasformazione di Ebron in una smart city strutturata sulla capillare sorveglianza e repressione dei palestinesi.
È alla radice della ragione, che occorre andare. Perché l’attuale sistema “appare naturale solo a un modo di pensare e di comportarsi che non è incline e forse è anche incapace di comprendere ciò che avviene e perché avviene” scrive Marcuse, “un modo di pensare e di comportarsi che è immune da ogni forma di razionalità che non sia la razionalità stabilita”. In un’intervista del 1968, Marcuse porta l’esempio delle freeway di Los Angeles, le autostrade che collegano le zone della città: “Il condizionamento di una società integrata a sviluppo capitalistico è nel paesaggio quotidiano”, ogni aspetto risulta “logico, fa parte di una necessità, di una funzionalità, è la razionalità interna del sistema. La città di Los Angeles è lunga 100 chilometri, ecco allora per unirne i capi opposto, le freeway [...] se a una persona non integrata esse possono apparire angosciose, possono tuttavia apparire belle, tecnicamente progredite, funzionali a chi deve spostarsi in qualche modo da una parte all’altra della città; la logica del sistema le ha rese necessarie, ma è logico il sistema che le ha rese necessarie?”