L’inquinamento da polveri atmosferiche in pianura padana e, più in generale, in Europa e nel mondo
Con una postfazione del 2024
di Luca Benedini
Uno studio del 2017. Il punto di vista scientifico e le prospettive di soluzione per una vera e propria ecatombe tuttora in corso
La pianura Padana continua stabilmente a essere caratterizzata da un inquinamento atmosferico da polveri sospese superiore più volte al limite che l’Unione Europea una decina d’anni fa ha riconosciuto come “tollerabile” (cioè 40 microgrammi di Pm10 per metro cubo come media annuale e 50 microgrammi per metro cubo, o µg/m3, come media giornaliera superabile non più di 35 volte in un anno). Si tratta di un pesantissimo livello di inquinamento che ha conseguenze molto gravi dal punto di vista sanitario. Anche altre parti d’Italia soffrono per la presenza atmosferica di polveri e per il superamento di tale limite anno dopo anno, ma nella pianura Padana si raggiungono tipicamente livelli particolarmente eclatanti.
Fino a ora in questo campo è stato monitorato principalmente il Pm10, cioè le polveri sospese aventi un diametro inferiore ai 10 micron, ma quella che si è rivelata particolarmente pericolosa per la salute è la frazione del Pm10 costituita dal Pm2,5, cioè le polveri sospese aventi un diametro inferiore ai 2,5 micron (e chiamate scientificamente “polveri fini” o “polveri sottili”, mentre le particelle comprese tra 2,5 e 10 micron vengono chiamate “polveri grossolane”). Sottolineava in particolare la Commissione Europea già il 21 settembre 2005, in una sua comunicazione al Consiglio d’Europa e al Parlamento Europeo e in una parallela proposta di direttiva ambientale: «I dati disponibili dimostrano che le polveri sottili (Pm2,5) sono più pericolose di quelle di dimensioni maggiori, anche se queste ultime particelle (che vanno dai 2,5 ai 10 µm di diametro) non possono essere ignorate. [...] Le particelle sottili (Pm2,5) hanno impatti molto negativi sulla salute umana. Finora, inoltre, non esiste una soglia identificabile al di sotto della quale il Pm2,5 non rappresenta un rischio.
Per tale motivo la disciplina prevista per questo inquinante deve essere differente da quella di altri inquinanti atmosferici». Questo significa – in altre parole – che la soglia di “tollerabilità” prevista in questi anni dalle norme europee è già una concessione fatta a un sistema economico-produttivo abituato a inquinare senza porsi troppi problemi: in realtà, tutte le attività umane significativamente produttrici di polveri sottili atmosferiche dovrebbero porsi nella prospettiva tendenziale di ridurre queste ultime pressoché a zero.
E già nel marzo 2005 ricordava la “Commissione Scientifica sulla Centrale Turbogas” costituita dall’Università di Ferrara per incarico del Comune di questa città, facendo riferimento a un programma realizzato per conto dell’Unione Europea, il CAFE: «È stato pubblicato assai recentemente uno studio del IIASA (International Institute for Applied Systems Analysis) chiamato Baseline Scenarios for The Clean Air for Europe (CAFE, Febbraio 2005). [...] Il Pm2,5 è direttamente collegato ai disturbi della salute (malattie cardiocircolatorie, respiratorie, tumori al polmone). Sulla base degli studi epidemiologici pertinenti la correlazione fra Pm2,5 e malattie, il suddetto rapporto del CAFE presenta una mappa di perdita di aspettativa di vita in Europa [...]. Le mappe presentate in questi studi sono preoccupanti e indicano chiaramente come in Europa vi siano due zone critiche: la Pianura Padana e la zona di Anversa. In entrambi i casi la perdita di aspettativa di vita è valutata in poco meno di 36 mesi» (per le persone residenti in tali zone).
Con gli anni questi dati sono stati ampiamente confermati ed espansi. Studi ulteriori hanno aggiunto che più le polveri sono fini più diventano pericolose, riuscendo a veicolare sempre più profondamente nell’organismo sostanze di varia tossicità. Nel frattempo, anche se in Europa la drammaticità dell’inquinamento da polveri si è significativamente ridotta dal 2005 a oggi (grazie soprattutto al miglioramento qualitativo dei combustibili autorizzati nell’UE e dei processi di combustione in uso), in diverse parti di essa gli interventi sono stati decisamente insufficienti e la sostanza della problematica è rimasta quanto mai all’ordine del giorno, come in Italia hanno riportato in varie occasioni anche giornali di ampia diffusione. Ad esempio, come riportava Marco Zatterin sul quotidiano La Stampa il 1° febbraio 2017, «secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, le emissioni di Pm2,5 avrebbero causato 66 mila morti premature in Italia nel 2013», e mediamente tutte queste persone, «a leggere i numeri, avrebbero potuto vivere una decina d’anni in più». E il Corriere della Sera del 28 aprile 2017 ha aggiunto che, sempre secondo i dati della medesima Agenzia, «l’Italia è lo stato membro della UE più colpito in termini di mortalità connessa alle polveri sottili» [1].
Per la grande portata e la persistenza della mancata applicazione delle norme ambientali europee, l’Italia – dopo aver già subito una condanna dalla Corte europea di giustizia relativamente al biennio 2006-7 – ha ricevuto il 27 aprile 2017 l’ultimo avviso della Commissione Europea prima che quest’ultima deferisca di nuovo lo Stato italiano alla Corte di giustizia: e stavolta non solo per l’amplissimo sforamento dei limiti di legge, ma anche per la rinuncia ad adottare provvedimenti capaci di riportare la situazione ambientale italiana all’interno di tali limiti. Questa volta è anche prevista una salata sanzione da parte delle istituzioni europee: in quell’articolo, La Stampa la definiva «stimata in diverse centinaia di milioni, “potenzialmente sino a un miliardo”» di euro. E – in un’intervista apparsa il 2 febbraio 2017 a cura di Maria Corbi sul medesimo quotidiano – il ministro dell’Ambiente Galletti ha sottolineato che, in pratica, «il Bacino padano è la zona in cui stiamo rischiando l’infrazione».
Polveri primarie e polveri secondarie
Una delle maggiori complessità inerenti tanto alle strategie per risolvere questa problematica quanto ai provvedimenti per attuarle efficacemente (anche perché si tratta evidentemente non solo di rientrare nei limiti di legge europei ma anche di intraprendere una politica complessivamente indirizzata verso un tendenziale azzeramento delle polveri sottili, visto che non risulta finora esistere una soglia quantitativa al di sotto della quale il Pm2,5 sia esente da pericoli per la salute umana) è costituita dal fatto che non vi sono solo polveri sospese “primarie”, cioè emesse come tali nell’atmosfera, ma anche polveri sospese “secondarie”.
Le polveri secondarie si formano nell’atmosfera stessa a partire da precursori emessi in forma gassosa e dotati tra l’altro di una rilevante tossicità già per conto loro: soprattutto ossidi di azoto (NOx), anidride solforosa (o biossido di zolfo, SO2) e ammoniaca (NH3). La formazione di questo tipo di polveri è favorita in modo particolare da fattori come l’insolazione, l’umidità e la presenza di molteplici sostanze inquinanti nell’aria. Tra l’altro, gli NOx sono pericolosi anche come precursori dell’ozono troposferico, un composto particolarmente collegato all’insolazione (e quindi alla stagione estiva) e pesantemente tossico sia per la vita animale che per quella vegetale
Di fatto, le fonti e le modalità di origine delle polveri primarie e di quelle secondarie sono ampiamente diverse tra loro: ad esempio, le primarie vengono attualmente prodotte soprattutto dal riscaldamento civile e dal traffico stradale, mentre le secondarie derivano soprattutto dal traffico stesso, da certe pratiche agricole e dalla combustione industriale, ma soprattutto si formano tipicamente a molti chilometri di distanza dal luogo di emissione dei loro precursori.
Dato questo, per giungere a un effettivo abbattimento delle polveri inquinanti – che apportano appunto gravi danni alla salute degli abitanti della pianura Padana e di altre aree del territorio italiano, europeo, ecc. – i primi passi fondamentali appaiono essere l’identificazione del peso rispettivo che, da un lato, i due tipi di polveri hanno dal punto di vista dell’inquinamento atmosferico e della nostra salute e, dall’altro, le varie possibili fonti hanno nella genesi di tali polveri [2].
I dati Inemar e il loro maggiore significato di fondo
Per giungere a una prima valutazione su tutto questo, l’approccio tendenzialmente più esauriente parte dall’utilizzazione dei dati Inemar – acrostico che sta per “Inventario emissioni aria” – presentati istituzionalmente nelle varie regioni padane: si tratta di dati riguardanti le emissioni di sostanze inquinanti in atmosfera nei rispettivi territori regionali, sulla base di rilevazioni e calcoli realizzati dalle competenti strutture di controllo ambientale (in pratica, l’ARPA di ciascuna regione).
Questi dati vanno elaborati per valutare la formazione di polveri secondarie a partire dai loro precursori. A quest’ultimo proposito, un’autorevole analisi supportata dalle istituzioni europee e condotta in collaborazione con vari centri di ricerca europei sull’inquinamento dell’atmosfera e sulla qualità dell’aria ha valutato – per il continente europeo – i coefficienti medi della conversione atmosferica di NOx, SO2 e NH3 rispettivamente in ioni nitrato, solfato e ammonio, dai quali è costituito in pratica il particolato secondario (Frank A.A.M. de Leeuw, A set of emission indicators for long-range transboundary air pollution, in: Environmental Science & Policy, 2002:5, 135–145). Tale conversione coinvolgerebbe mediamente il 65% degli NOx, il 35% dell’SO2 e il 60% dell’NH3; aggiungendo a queste percentuali gli appropriati fattori correttivi per il rispettivo peso molecolare, ne deriverebbe un coefficiente di conversione di 0,88 per gli NOx, di 0,54 per l’SO2 e di 0,64 per l’NH3.
Si tratta di coefficienti medi che ovviamente non possono essere estremamente accurati per quanto riguarda una specifica area dell’Europa come la pianura Padana, ma tenendo appunto presente il loro valore di semplice indicatività generale si può evitare il rischio di pretendere di interpretare in modo eccessivamente preciso e rigoroso le valutazioni che ne conseguiranno. Del resto, in questo campo tutti i dati e i fattori analitici coinvolti (inclusi i dati Inemar) sono semplicemente indicativi. Ciò non toglie che la sostanza dei risultati che se ne possono trarre non è affatto da porre indiscriminatamente in dubbio: occorre solo ricordare che ogni risultato va inteso come un’approssimazione e non come un calcolo preciso, tuttavia come approssimazione appare decisamente – e inequivocabilmente – affidabile.
I coefficienti in questione, applicati dunque ai dati Inemar disponibili più recenti, cioè quelli riguardanti la Lombardia nel 2014 (dati non ancora definitivi, ma ancora nella cosiddetta fase di “revisione pubblica”), il Veneto nel 2013 e l’Emilia-Romagna e il Piemonte nel 2010, mettono tutti in evidenza che in queste regioni le fonti primarie di Pm10 appaiono avere un impatto generale estremamente inferiore a quello delle fonti secondarie. Infatti, da tali dati risulta che nei rispettivi anni in questione:
- il Pm10 primario prodotto in Lombardia è stato di circa 19.000 tonnellate annue, in Veneto 15.000, in Emilia-Romagna 14.000 e in Piemonte 19.000; il rapporto stimato tra le emissioni primarie di Pm2,5 e di Pm10 era circa dell’85% in Lombardia, del 93% in Veneto e del 73% in Piemonte, mentre non era un dato disponibile per l’Emilia-Romagna.
- le emissioni di NOx sono state di circa 118.000 tonnellate annue in Lombardia, 72.000 in Veneto, 107.000 in Emilia-Romagna e 78.000 in Piemonte; moltiplicati per un coefficiente di 0,88, questi valori danno rispettivamente nelle quattro regioni circa 104.000, 63.000, 94.000 e 69.000 tonnellate annue di Pm10 secondario, cioè una quantità corrispondente da sola a circa 5,5 volte il Pm10 primario in Lombardia, 5 volte in Veneto, 6,5 volte in Emilia-Romagna e 3,5 volte in Piemonte;
- le emissioni di NH3 sono state di circa 102.000 tonnellate annue in Lombardia, 50.000 in Veneto, 52.000 in Emilia-Romagna e 41.000 in Piemonte, che moltiplicate per un coefficiente di 0,64 danno rispettivamente circa 65.000, 32.000, 33.000 e 26.000 tonnellate annue di Pm10 secondario, cioè una quantità corrispondente da sola rispettivamente a 3,5 volte, 2 volte, 2,5 volte e 1,5 volte il Pm10 primario;
- le emissioni di SO2 sono state di circa 13.000 tonnellate annue in Lombardia, 8.000 in Veneto, 17.000 in Emilia-Romagna e 9.000 in Piemonte, che moltiplicate per un coefficiente di 0,54 danno rispettivamente circa 7.000, 4.000, 9.000 e 5.000 tonnellate annue di Pm10 secondario, cioè nettamente meno del Pm10 primario;
- complessivamente queste tre fonti principali hanno dato come risultato un Pm10 secondario quantificabile intorno alle 176.000 tonnellate annue in Lombardia, alle 99.000 in Veneto, alle 136.000 in Emilia-Romagna e alle 100.000 in Piemonte, che addizionate al Pm10 primario forniscono un Pm10 totale rispettivamente intorno alle 195.000, 114.000, 150.000 e 119.000 tonnellate annue, totali di cui il particolato secondario appare dunque costituire sistematicamente l’85-90%.
In sintesi, tra le principali fonti di polveri sospese padane, gli NOx appaiono responsabili di una percentuale di queste ultime valutabile intorno al 55-60%, l’NH3 di una percentuale nei pressi del 25-30%, le polveri primarie di una percentuale intorno al 10-15% e l’SO2 di una percentuale intorno al 5% o anche meno.
A questo va aggiunto che una grandissima parte del particolato secondario – pressoché il 100% – è composta inevitabilmente da polveri sottili (Pm2,5), come è stato sottolineato, ad esempio, già nel 2003 in uno studio dell’Agenzia Svizzera per l’Ambiente, le Foreste e il Paesaggio (SAFEL, Modeling of PM10 and PM2,5 ambient concentrations in Switzerland 2000 and 2010) e nel 2004 in uno del CAFE (Second position paper on particulate matter). Dato che, come già si è ricordato, a paragone delle polveri grossolane le polveri sottili hanno una pericolosità nettamente maggiore per la salute, nel complesso tutto ciò significa, sulla base di dati inoppugnabili nella loro sostanza, che nella pianura Padana il Pm10 secondario non solo risulta tra le 5 e le 9 volte maggiore del Pm10 primario come quantità, ma è anche dotato strutturalmente di una pericolosità di fondo ancora maggiore.
Se si guarda appunto specificamente al Pm2,5 (che è il dato più rilevante dal punto di vista della salute umana), la sua frazione secondaria risulta tra le 7 e le 11 volte maggiore di quella primaria. Ma nemmeno questo dato appare del tutto esplicativo, in quanto comunque le polveri sottili secondarie, formatesi nell’atmosfera, tendono a essere mediamente più fini di quelle primarie, emesse come tali. In tal modo, in un territorio come quello padano il maggiore impatto potenziale del particolato secondario sulla salute rispetto a quello primario appare valutabile verosimilmente intorno almeno alla quindicina di volte.
La dinamica dell’inquinamento da polveri e le componenti climatico-ambientali
Un’altra maniera di verificare l’evidente predominanza delle polveri secondarie su quelle primarie in pianura Padana è osservare l’andamento parallelo dei valori del Pm10 nel corso del tempo nelle molte città padane. È sufficiente entrare nei siti Internet curati dalle ARPA delle varie regioni padane per notare appunto come le crescite e i cali di tali valori siano tipicamente pressoché paralleli da un capo all’altro della pianura, tranne nel caso di venti di considerevole intensità soffianti solo in certe parti della pianura stessa. Le polveri secondarie infatti si formano per lo più durante i giorni successivi all’emissione dei loro precursori, e possono anche farlo a decine o centinaia di chilometri di distanza dal luogo di tale emissione.
Se si aggiunge che, come poneva in rilievo anche la Commissione Europea nella sua già citata proposta di direttiva, «il Pm2,5 [...] una volta emesso o formatosi in atmosfera può essere trasportato per migliaia di chilometri», si comprende meglio il quadro di un inquinamento atmosferico da polveri come quello padano, che tende a espandersi in modi notevolmente simili nell’intera pianura. Si ricordi che, tra le caratteristiche climatico-ambientali di quest’ultima, assume palesemente un particolare ruolo la barriera geografica rappresentata dalle Alpi e dagli Appennini settentrionali, che assieme creano una specie di conca in cui tendono a ristagnare e a spargersi tutt’intorno le sostanze inquinanti atmosferiche emesse localmente.
Benché le città siano tipicamente un po’ più colpite delle zone rurali dalle polveri atmosferiche, e benché in particolare le zone urbane a elevata concentrazione di traffico o di certe attività industriali siano alquanto più colpite di tutto il resto del territorio (e ciò a causa di una ben nota e quanto mai percepibile emissione particolarmente spiccata di polveri primarie in loco), l’intera pianura appare insomma “navigare” in un oceano di polveri soprattutto secondarie che si diffondono quasi indipendentemente dai punti specifici di emissione dei loro precursori, dopo essersi formate con un’intensità più o meno grande a seconda delle condizioni climatico-ambientali generali del momento e a distanze più o meno ampie da quei punti di emissione a seconda dei venti. In tal modo, da precursori emessi ad esempio a un capo della pianura Padana e poi trascinati qua e là da venti e brezze, è possibile che si formino polveri sottili che dopo esser state a loro volta trascinate qua e là da venti e brezze finiscono infine con l’avvicinarsi al suolo – raggiungendo la cosiddetta “altezza d’uomo” – all’altro capo della pianura.
I dati della “Commissione nazionale per l’emergenza inquinamento atmosferico”
Ulteriori indicazioni scientifiche di fondo per valutare l’impatto dei vari tipi di polveri sull’aria in pianura Padana si possono trarre dalla colossale Relazione conclusiva pubblicata nel marzo 2006 dalla “Commissione nazionale per l’emergenza inquinamento atmosferico” (Cneia) in merito ai suoi lavori dei mesi e anni precedenti. Dalle mappe della relazione che riassumevano le misurazioni effettuate e le simulazioni correlate emergeva che su scala nazionale le polveri secondarie apparivano responsabili di circa i tre quarti del Pm10. Più in particolare, questa percentuale appariva scendere al 50-60% nelle aree fortemente urbanizzate e salire intorno all’80-90% in quelle decisamente rurali. In specifico, queste misurazioni suggerivano una percentuale complessiva di secondario intorno al 65-70% nell’insieme della pianura Padana.
Si tratta di dati che appaiono del tutto compatibili con le valutazioni e considerazioni esposte più sopra, e ciò per vari motivi tra i quali principalmente i due seguenti:
- Le misurazioni e le simulazioni correlate si riferivano, naturalmente, allo strato atmosferico prossimo al suolo e, come ricordava anche la relazione della Cneia, «il Pm10 di origine primaria presenta generalmente una granulometria maggiore rispetto al secondario e ciò lo rende più soggetto a processi di deposizione che ne limitano, quindi, il tempo di residenza lontano dalle sorgenti». In altre parole, il primario tende a concentrarsi maggiormente nelle fasce più basse dell’atmosfera e vicino ai luoghi dove è stato emesso, mentre il secondario tende più facilmente a permanere a lungo in strati atmosferici più elevati e a diffondersi anche in aree distanti dai luoghi di emissione dei suoi precursori. E notoriamente, come riferisce ancora la Cneia, è «nelle aree urbane» che vi è una «maggiore densità delle sorgenti primarie di polveri».
- Come già si è accennato, le particelle più fini – che sono anche tendenzialmente le più pericolose per la salute – risultano più difficilmente rilevabili e misurabili di quelle più grossolane. Quindi il secondario tende a essere significativamente più sottovalutato nelle misurazioni di quanto avvenga per il primario. Ciò appare tanto più vero per il fatto che, da un lato, la relazione della Cneia era basata su dati “vecchi” di alcuni anni e, dall’altro, a quell’epoca la misurazione delle polveri sottili era ancora ai suoi “primi passi”. In altre parole, appare quanto mai presumibile che nella realtà la percentuale delle polveri secondarie tendesse a essere effettivamente un po’ più alta di quella riscontrata nelle misurazioni utilizzate dalla Cneia nella sua relazione in questione. Ciò non toglie, naturalmente, l’evidenza dell’importante ruolo specifico che le polveri primarie appaiono avere in particolare nei centri urbani, dove dunque risulta nodale intervenire non solo sul particolato secondario ma anche su quello primario.
Anche riguardo alla composizione delle polveri secondarie, le misurazioni e le stime riportate dalla Cneia corrispondevano fortemente ai calcoli effettuabili all’epoca utilizzando le emissioni padane di sostanze inquinanti e i valori di conversione suggeriti dalla letteratura internazionale. In particolare, le rilevazioni sintetizzate dalla Cneia riguardo a tali polveri vedevano in pianura Padana un peso relativo degli NOx intorno al triplo di quello dell’NH3 e a quasi una decina di volte quello dell’SO2. E, ad esempio, i dati Inemar lombardi relativi al 2003 (tra i primi a essere stati resi disponibili) davano, tra le principali fonti di polveri sospese, agli NOx la responsabilità di una percentuale di tali polveri valutabile intorno al 60%, all’NH3 una percentuale intorno al 20-25% e all’SO2 una percentuale intorno al 10% (praticamente pari a quella delle polveri primarie). Tra l’altro, questo mostra anche che la composizione percentuale delle polveri sospese appare essere mutata di pochissimo da allora, se non per una netta riduzione del contributo dell’anidride solforosa (una sostanza particolarmente tossica e irritante) grazie all’abbattimento del contenuto di zolfo autorizzato nei combustibili dalle normative europee.
Per completezza, si può aggiungere che quei rapporti trovati dalla Cneia tra le tre componenti principali delle polveri secondarie padane erano sostanzialmente validi anche per gran parte del resto dell’Italia, mentre soltanto nelle regioni più meridionali (Sicilia, Calabria e la parte estrema della Puglia) l’SO2 raggiungeva un peso relativo vicino o anche leggermente superiore a quello dell’NH3, assorbendo in pratica una parte del peso degli NOx. Ciò – indicava la relazione – in quanto i «solfati [...] diventano importanti nelle regioni meridionali a causa della presenza di sorgenti vulcaniche». In altre parole, le componenti di origine antropica – e quindi non naturali – apparivano avere pesi relativi alquanto simili nell’ambito del particolato secondario in tutta Italia [3].
I dati prodotti dalla Cneia, dunque, suffragano chiaramente la validità complessiva dei calcoli basati sui dati Inemar e confermano che per abbattere il fenomeno “polveri atmosferiche” nella pianura Padana in generale – così come verosimilmente in diverse altre aree – vi è la necessità di abbattere in primo luogo le emissioni di ossidi di azoto e in secondo luogo quelle di ammoniaca, aggiungendo a questi centri focali di interesse anche le polveri primarie nei centri urbani.
Ogni territorio ha la sua economia sostenibile
I fattori principali che uniscono tra loro tutta la pianura Padana appaiono così, da un lato, l’elevata antropizzazione (inclusi l’elevato traffico stradale e l’elevata industrializzazione) e, dall’altro, le già citate caratteristiche geografico-climatiche che rendono la pianura una sorta di conca accumulatrice di inquinamento atmosferico.
Inevitabile conseguenza di questo è che come abitanti della pianura Padana dobbiamo riconoscere che ai grandi vantaggi agricoli, idrogeologici, climatici e infrastrutturali associati ad essa va collegato, come sempre, anche qualche “lato debole”: in particolare, una fragilità dal punto di vista dell’inquinamento e dei suoi effetti sanitari e ambientali, a causa della quale lo sviluppo economico padano andrebbe progettato con una peculiare attenzione per l’ambiente.
In altre parole, nella nostra pianura le attività produttive andrebbero effettuate ponendo limiti particolarmente restrittivi alle forme di inquinamento a esse collegate, e quelle attività che non intendessero o potessero conformarsi a limiti di tale tenore dovrebbero essere costrette a mutare radicalmente i loro processi produttivi o a spostarsi in altre zone.
Stati che hanno concretamente fatto scelte di quel tenore per una loro simile fragilità dal punto di vista dell’ambiente e degli ecosistemi – come ad esempio l’Austria e la Svizzera col loro territorio in gran parte montano o la California con la sua insolazione e la sua posizione geografica che facilitano fortemente la formazione di polveri secondarie e di ozono nell’aria – sono riusciti a trasformare quel loro “lato debole” in un loro punto di forza anche dal punto di vista economico, attraverso una serie di rigorose normative e di innovazioni infrastrutturali e tecnologiche. Un tale percorso si impone ormai anche nell’intera pianura Padana, che è da tempo una delle zone più pesantemente inquinate di tutto il pianeta, come mostrano ampiamente anche le mappe dell’inquinamento mondiale realizzate attraverso i satelliti.
Conferme europee
Dati simili a quelli padani (e a quelli italiani in genere) provengono anche da ricerche compiute su scala europea, mettendo in evidenza che da simili tendenze economico-produttive e normative discendono simili tendenze in campo ambientale.
Già nel 2002 de Leeuw nel suo studio già citato osservava che nell’Unione Europea (allora formata da 15 paesi e corrispondente in pratica all’Europa occidentale eccettuate Svizzera, Norvegia e Islanda) i contributi relativi dei vari tipi di polveri di origine antropica al Pm10 potessero essere stimati, per l’anno 1995, in un 52% proveniente dagli NOx, un 24% dall’SO2, un 13% dall’NH3 – per un 89% complessivo da fonti secondarie – e un 11% da fonti primarie. In un volume molto recente dell’Agenzia europea per l’ambiente, Air Quality in Europe - 2016 Report (EEA, 2016), si valuta che in generale nell’attuale UE formata da 28 paesi «la percentuale del Pm2,5 secondario arriva intorno al 70% nelle zone urbane non caratterizzate da un’elevata presenza di traffico o di attività industriali e a più dell’80% nelle zone rurali» (mentre evidentemente dove impera il traffico o l’industria la percentuale del secondario può essere significativamente minore ma in modo alquanto diversificato a seconda delle locali condizioni produttive, climatiche, ecc.) e si conferma che – come nella pianura Padana e in generale in Italia – in tutta Europa le polveri secondarie di origine antropica derivano soprattutto dagli NOx, in misura alquanto minore dall’NH3 e in maniera sempre meno rilevante dall’SO2.
A questo proposito, peraltro, nel volume si aggiunge che, «per quanto riguarda il Pm secondario, la riduzione delle emissioni sulfuree ha contribuito a uno spostamento dal solfato di ammonio al nitrato di ammonio nella composizione del Pm, di modo che la riduzione delle emissioni non si è trasferita direttamente a un calo delle concentrazioni». In altre parole, tra ioni nitrato e ioni solfato può anche esserci una mera sostituzione se vi sono circostanze sostanzialmente favorevoli alla formazione di una certa quantità di polveri secondarie (così che la riduzione di uno di questi due tipi di ioni può indurre un incremento del coefficiente di conversione atmosferica dei gas precursori dell’altro tipo).
In sintesi, le caratteristiche delle polveri sospese padane appaiono ampiamente simili a quelle delle polveri sospese del resto d’Europa [4]. La differenza principale sta nel fatto che le polveri che in quasi tutto il resto dell’Europa occidentale tendono con una facilità molto maggiore a spostarsi sulla spinta dei venti finiscono invece, per motivi geografico-climatici, con l’accumularsi localmente molto più a lungo nella pianura Padana. Risultato di questo è che nell’intera Europa occidentale la pianura Padana è oggi l’unica vasta area diffusamente e pesantemente al di fuori dei parametri europei riguardanti le polveri atmosferiche, mentre le uniche altre ampie zone che fuoriescono – ma in maniera minore – da tali parametri sono la piana costiera laziale-campana e verosimilmente alcuni tratti della Grecia (dove però il monitoraggio dell’aria è più carente e su buona parte del territorio non si hanno dati sufficientemente affidabili). Qua e là fuoriescono anche diversi singoli centri urbani, più frequentemente nella penisola italica e in quella iberica.
Nell’Europa orientale, invece, appaiono fuoriuscire pesantemente da tali parametri molte vaste aree, specialmente in Bulgaria, Polonia, Slovacchia e Repubblica ceca e in diverse delle nazioni formatesi dalla dissoluzione della Jugoslavia.
Le valutazioni sulla mortalità in Europa
Se l’Italia paga presumibilmente il maggior prezzo in vite umane nell’intera UE a seguito dell’inquinamento da polveri atmosferiche (circa 66.600 su un totale di 436.000 nel 2013, secondo le valutazioni riportate in Air Quality in Europe - 2016 Report), soprattutto nell’Europa orientale vi sono diversi paesi che soffrono ancor più dell’Italia se si guarda ai dati indipendentemente dal numero degli abitanti di una nazione. Prendendo in considerazione quasi tutto il continente europeo (con l’eccezione di Bielorussia, Moldavia, Ucraina, Russia europea e Turchia europea), gli anni di vita persi per le polveri atmosferiche ogni 100.000 abitanti nel 2013 sono stati approssimativamente, secondo appunto l’Agenzia europea per l’ambiente, 1.900 in Kosovo e Bulgaria, 1.700 nella ex Macedonia, 1.500 in Polonia e Serbia, 1.400 in Ungheria, 1.300 in Romania, 1.200 in Grecia, Repubblica ceca, Slovacchia e Italia e 1.100 in Croazia, Lettonia, Montenegro e Lituania. Tra gli altri paesi dell’Europa occidentale, i più colpiti appaiono essere stati intorno ai 900 Germania, Belgio e Austria, agli 800 la Francia e ai 700 l’Olanda. I meno colpiti di tutto il territorio considerato erano intorno ai 300 le tre nazioni scandinave e l’Islanda, ai 400 l’Irlanda e ai 500 Cipro.
A questi dati andrebbero poi aggiunti quelli collegati alla tossicità da biossido d’azoto (NO2, il più pericoloso degli NOx) e da ozono (O3) troposferico: il secondo associato a danni soprattutto all’apparato respiratorio e il primo anche a danni cardiovascolari. L’interconnessione tra questi tre fattori inquinanti è evidente dal fatto che sono tutti strettamente in relazione tra loro, in quanto i diversi NOx si trasformano piuttosto facilmente l’uno nell’altro all’interno dell’atmosfera e attualmente in Europa sono anche i principali precursori tanto delle polveri sospese quanto dell’ozono troposferico (seguiti a quest’ultimo proposito dai Cov e dal monossido di carbonio, anch’esse sostanze che – quando di origine antropica – derivano come gli NOx soprattutto dai processi di combustione). Dal punto di vista della mortalità, nel 2013 nell’UE sono state stimate circa 68.000 morti premature per l’NO2 e 16.000 per l’O3 (delle quali rispettivamente 21.000 e 2.400 in Italia, di nuovo il paese più colpito in entrambi i casi). La stima degli anni di vita persi ogni 100.000 abitanti ha posto in particolare evidenza per l’NO2 l’Italia stessa (circa 370), seguita – con ampio distacco – intorno ai 210 dal Belgio, ai 200 dalla Gran Bretagna, ai 190 dalla Serbia, ai 160 dal Lussemburgo, ai 150 dalla Svizzera, ai 140 da Francia e Germania e ai 130 da Grecia e Kosovo, mentre per l’O3 la più colpita era la Grecia (circa 80), seguita intorno ai 60 da Montenegro, Italia, Kosovo, Croazia, ex Macedonia e Slovenia.
Per quanto riguarda l’Italia, una grandissima parte delle località con inquinamento superiore nel 2014 alle norme europee riguardanti l’NO2 o l’O3 è risultata concentrata nel primo caso in pianura Padana e nella piana laziale-campana e nel secondo caso nella pianura padano-veneta. Quest’ultima era evidentemente la zona più colpita dall’O3 in tutta Europa, anche se si riscontravano molte località fuori norma pure nel resto dell’Europa mediterranea (specialmente in Spagna) e in quella centrale. In riferimento all’NO2, anche delle zone al di fuori dell’Italia erano colpite in modo simile alle due italiane in questione, specialmente in Germania, e vi erano svariate località fuori norma qua e là in numerosi paesi, quasi sempre in aree ad alto traffico veicolare.
Le fonti concrete delle polveri sospese in pianura Padana e in Europa in generale
Dai dati Inemar si possono trarre informazioni di base anche sulle fonti dirette e indirette delle polveri aventi origine in un certo territorio, come ad esempio appunto quello padano (dove le polveri di origine locale appaiono essere di gran lunga predominanti rispetto alle polveri originarie di altri luoghi, dal momento che molti dei venti di passaggio che possono trasportare queste ultime sono deviati altrove da Alpi e Appennini).
Per quanto riguarda gli ossidi di azoto, che derivano soprattutto da ogni processo di combustione, i dati attribuiscono la loro origine principalmente al traffico (per il 53% in Lombardia, il 47% in Veneto, il 57% in Emilia-Romagna e il 51% in Piemonte), all’industria (rispettivamente, 18%, 17%, 13% e 19% nelle quattro regioni), alle fonti mobili – inclusi i macchinari – diverse dai trasporti stradali (11%, 18%, 11% e 12%), al riscaldamento civile (9%, 10%, 8% e 10%) e al settore energetico (5%, 7%, 9% e 6%). Per un confronto, nell’intera UE a 28 paesi l’Agenzia europea per l’ambiente – nello European Union Emission Inventory Report 1990-2014 – attribuisce le emissioni di NOx del 2014 per il 39% al traffico, per il 20% al settore energetico, per il 16% all’industria, per il 14% al riscaldamento civile, per il 7% ai trasporti non stradali e per il 4% all’agricoltura.
Dell’ammoniaca è indicata come quasi unica responsabile l’agricoltura (98%, 98%, 96% e 95% nelle quattro regioni), oltre alla gestione dei rifiuti (1%, meno dell’1%, meno dell’1% e 3%). Nell’UE, la percentuale attribuita nel 2014 all’agricoltura è del 94% e ai rifiuti del 2%, mentre nessuno degli altri settori produttivi raggiunge la percentuale del 2%. Come metteva in evidenza ad esempio già la citata comunicazione della Commissione Europea, il contributo agricolo alle emissioni di ammoniaca deriva quasi completamente dall’allevamento di bovini, suini e pollame e dall’uso di fertilizzanti azotati.
L’anidride solforosa è attribuita principalmente all’industria (64%, 54%, 82% e 84% nelle quattro regioni), al settore energetico (22%, 31%, 2% e 3%), al riscaldamento civile (6%, 8%, 7% e 8%), alle altre fonti mobili già ricordate (2%, 5%, 6% e 1%), alla gestione dei rifiuti (6%, meno dell’1%, 1% e 2%) e al traffico (1%, meno dell’1%, 2% e 1%). In pratica, le emissioni di anidride solforosa derivano soprattutto dall’uso di combustibili contenenti zolfo. Nell’UE, le emissioni di SOx (anidride solforosa e altri ossidi di zolfo) sono attribuite per il 2014 al settore energetico (57%), all’industria (25%), al riscaldamento civile (16%) e al traffico (2%).
I dati Inemar attribuiscono infine il Pm10 primario principalmente al riscaldamento civile (44%, 68%, 40% e 49% nelle quattro regioni), al traffico (25%, 13%, 33% e 31%), all’industria (12%, 4%, 12% e 3%), all’agricoltura (6%, 4%, 3% e 12%), alle altre fonti mobili (3%, 5%, 11% e 3%) e all’uso di solventi (5%, 3%, meno dell’1% e 1%). Le fonti indicate per il Pm10 primario nel 2014 nell’UE sono il riscaldamento civile (40%), l’industria (22%), l’agricoltura (17%), il traffico (12%), il settore energetico (6%) i trasporti non stradali (2%) e i rifiuti (1%).
Guardando al Pm2,5 primario, si notano alcuni cambiamenti significativi dovuti al fatto che il Pm10 primario emesso in varie attività agricole e in diversi processi industriali appare tipicamente composto solo per il 20% o anche meno da Pm2,5, mentre la quota di quest’ultimo tende ad essere intorno al 70% nelle varie combustioni industriali, all’80% nei trasporti stradali, al 90% nell’uso di solventi e al 95-100% nel riscaldamento e nelle altre fonti mobili. In sintesi, la responsabilità del Pm2,5 primario è attribuita principalmente al riscaldamento civile (50% in Lombardia, 72% in Veneto e 67% in Piemonte), al traffico stradale (22%, 12% e 17%), all’industria (10%, 3% e 3%), all’agricoltura (3%, 2% e 7%), alle altre fonti mobili (3%, 5% e 3%) e all’uso di solventi (5%, 3% e meno dell’1%). Nell’UE le fonti indicate per il Pm2,5 primario nel 2014 sono il riscaldamento civile (56%), l’industria (17%), il traffico (13%), il settore energetico (5%), l’agricoltura (5%), i trasporti non stradali (2%) e i rifiuti (2%).
Le serie di cifre qui riportate riguardo alle regioni padane si riferiscono ovviamente a tutto il loro territorio, ma, dato il particolare significato delle polveri primarie prodotte specificamente nelle aree urbane, appaiono particolarmente degni di nota i risultati riferiti dalla Cneia a proposito delle analisi compiute sulle fonti comunali di Pm10 primario in diverse grandi città italiane. Approssimativamente, nelle tre maggiori città padane (Milano, Torino e Bologna), il traffico risultava responsabile del 70-80% delle emissioni, il riscaldamento civile del 20-25%, il trasporto aereo dell’1-4% e le attività industriali dell’1-3%. Per un confronto con dati Inemar vicini a quell’epoca, si può ricordare che le fonti principali cui essi attribuivano il Pm10 primario prodotto nel 2003 nell’intera Lombardia erano il traffico per il 32%, il riscaldamento civile per il 28%, l’industria per il 17%, le altre fonti mobili per il 12% e l’agricoltura per l’8%. Rispetto ai risultati metropolitani riportati dalla Cneia, va sottolineato che in città più piccole (dove più facilmente le zone industriali non vengono allontanate verso comuni limitrofi), si può assistere molto probabilmente ad un significativo incremento delle polveri primarie di origine industriale.
In sostanza, dal punto di vista pratico, le polveri primarie emesse nelle città appaiono provenire in grandissima parte dai motori a scoppio e dall’eventuale uso civile e industriale di combustibili di bassa “qualità ambientale”, tra i quali si possono annoverare gasoli, legna, carbone, scarti di raffineria, oli combustibili densi, rifiuti più o meno pretrattati, ecc. (oltre tutto – con l’eccezione della legna naturale, cioè non trattata con prodotti chimici – tipicamente tali combustibili non si limitano a causare l’emissione di polveri primarie e di NOx, ma provocano anche la dispersione di svariate altre sostanze pesantemente tossiche nell’atmosfera).
A questo proposito vale anche la pena di sottolineare che, rispetto a combustibili aventi una migliore “qualità ambientale” (come in particolare il gas naturale e il GPL), la legna da ardere offre un decisivo vantaggio da un punto di vista che si sta rivelando di importanza sempre più cruciale per l’intera società umana, e cioè la questione dell’effetto serra. In questo senso, la combustione della legna da ardere appare oggi effettivamente sconsigliabile nelle città (a meno che, come sarebbe auspicabile, non si sviluppino e diffondano tecnologie a basso costo capaci di bloccare la sua caratteristica emissione di polveri primarie sin dal processo di combustione o – più verosimilmente – attraverso un efficace “lavaggio” o filtraggio dei fumi prima della loro fuoriuscita dal camino), ma in ambienti meno intensamente urbanizzati non appare certamente il caso di vietarla.
Anche in tali ambienti, comunque, andrebbero incoraggiate e incentiate le modalità di combustione della legna più “pulite” e meno inquinanti, tanto più che – come si metteva in evidenza nel già citato Air Quality in Europe - 2016 Report – «i risultati riportati nella letteratura scientifica mostrano chiaramente che la combustione di legna per riscaldamento civile ha un impatto negativo sulla qualità dell’aria su scala locale e regionale» (non soltanto locale, dunque). Nel rapporto si aggiungeva che, in base ai dati europei disponibili sugli effetti di tale combustione (che, essendo a scopo di riscaldamento, è ovviamente legata soprattutto all’inverno), «i contributi invernali più elevati sono stati riscontrati in vallate alpine, nella pianura Padana, a Oslo, a Zurigo e in aree rurali austriache e tedesche».
Se si considera che tra le tecnologie commercialmente comuni – secondo ad esempio gli ultimi rapporti Inemar relativi alle regioni padane – rispetto al caminetto aperto tradizionale l’emissione di Pm10 innescata dalla combustione di una data quantità di legna si riduce approssimativamente a metà col caminetto chiuso e con le varie stufe tradizionali o innovative e a meno di un decimo con le stufe automatiche a cippato o a pellet (e che parallelamente si possono ottenere forti riduzioni anche nelle emissioni di Cov e di monossido di carbonio), si può avere un’idea di quale valore possano avere appunto per la qualità dell’aria modalità di combustione della legna più “pulite”.
Lo spostamento transfrontaliero di polveri atmosferiche nel mondo
e, più in particolare, tra l’Europa occidentale e quella orientale
Come si riporta in un colossale volume realizzato nel 2010 dalla United Nations Economic Commission for Europe (UNECE), Hemispheric Transport of Air Pollution 2010 - Part A: Ozone and Particulate Matter, «verso la metà degli anni ’90 è diventato chiaro che il trasporto di particolato su lunghe distanze potrebbe influire negativamente su un continente sottovento e accrescervi in modo significativo le concentrazioni atmosferiche di fondo. A partire da quel periodo, diversi studi incentrati sui livelli raggiunti dal particolato in ambiti regionali suggeriscono con forza che i contributi transfrontalieri predominano nelle concentrazioni che vengono rilevate in molte aree».
Mentre l’UNECE si è concentrata sugli aspetti di questo fenomeno rappresentati dai meccanismi generali di fondo operanti a livello mondiale e dai flussi di sostanze inquinanti trasportate dai venti su scala intercontinentale, un recente vasto studio di scienziati e ricercatori operanti in Cina, Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna (Transboundary health impacts of transported global air pollution and international trade, di Qiang Zhang et al.) si è focalizzato su una serie di aree subcontinentali molto più funzionale dal punto di vista analitico: Europa occidentale, Europa orientale, Russia, Medio Oriente & Nordafrica, India, Cina, resto dell’Estremo Oriente, resto dell’Asia, Africa sub-sahariana, Stati Uniti, Canada, America latina, Oceania. Lo studio, pubblicato il 30 marzo 2017 sull’autorevole rivista Nature (vol. 543:705-9) ha reso ineludibile quanto appariva alquanto evidente già a un’osservazione attenta dei dati climatico-geografici, ambientali e sanitari riguardanti il territorio europeo: una parte consistente delle polveri sospese (primarie e soprattutto secondarie) che danno luogo agli alti livelli di inquinamento atmosferico diffusamente riscontrati in Europa orientale e all’alta mortalità a essi collegata ha avuto origine in Europa occidentale, spostandosi poi in base ai venti.
Questo fatto dipende dalla presenza di venti occidentali che, per motivi legati alla rotazione terrestre, predominano nella fascia temperata di entrambi gli emisferi della Terra, riducendo comunemente la loro forza man mano che si allontanano dai mari e si addentrano nei continenti. Oltre ai venti occidentali, la fascia temperata è caratterizzata anche dalle cosiddette “celle cicloniche” – portatrici di perturbazioni, piogge, ecc. – che localmente durante il loro tipico moto da ovest a est provocano in maniera temporanea venti che vanno in tutte le direzioni (con una particolare spinta nella direzione longitudinale rivolta verso l’equatore) e correnti atmosferiche sia ascensionali che discendenti. Ciò fa sì che – per quanto riguarda l’Europa – si abbia una dispersione di polveri non solo verso est, ma, sia pure in misura nettamente minore, anche in altre direzioni (soprattutto verso sud). A volte, inoltre, la circolazione atmosferica subtropicale spinge verso l’Europa polveri provenienti dall’Africa settentrionale. A tutto questo si aggiungono poi – ma con un peso molto scarso nell’attuale situazione europea – polveri nordamericane che hanno travalicato l’oceano Atlantico e, talvolta, addirittura polveri che dall’Estremo Oriente hanno “trasvolato” il Pacifico e il continente americano e in seguito anche l’Atlantico. L’eventuale presenza di mari o addirittura oceani sul percorso delle polveri sospese in movimento può ridurre il loro impatto ambientale sulle terre emerse, dove vive ovviamente la popolazione umana.
In quello studio si è stimato, così, che nel 2007 le polveri originate in Europa occidentale siano state responsabili anche del 24% della mortalità da polveri riscontrabile in Europa orientale, dell’8% di quella riscontrabile nel Medio Oriente & Nordafrica e del 6,5% di quella riscontrabile in Russia (ovviamente questo dato si alzerebbe nettamente se si prendesse in considerazione la sola Russia europea) e che, di converso, alla mortalità da polveri riscontrabile nella stessa Europa occidentale abbiano contribuito per il 10% polveri originate in Europa orientale [5]. Quasi trascurabili erano i contributi indirizzati nel “resto dell’Estremo Oriente”, in Canada e nell’Africa sub-sahariana (con circa lo 0,5% ciascuno) e quelli provenienti dal Medio Oriente & Nordafrica (1,5%), dalle Americhe (1,5%, soprattutto Usa), da altre parti dell’Asia (1%, soprattutto Cina) e dalla Russia (0,5%).
D’altro canto, le stime indicavano che le polveri originate in Europa orientale fossero responsabili – oltre al già citato 10% della mortalità da polveri riscontrabile in Europa occidentale – anche del 21% di quella riscontrabile in Russia e dell’8% di quella riscontrabile nel Medio Oriente & Nordafrica e che, di converso, alla mortalità da polveri riscontrabile nella stessa Europa orientale contribuissero per il 5% polveri originate in Russia e per il 2,5% polveri originate in Medio Oriente & Nordafrica, oltre al già citato 24% attribuibile all’Europa occidentale. Anche qui vi erano contributi quasi trascurabili indirizzati nel “resto dell’Estremo Oriente”, nel “resto dell’Asia”, nell’Africa sub-sahariana e in Canada (con circa lo 0,5% ciascuno) e provenienti da America e Asia (con percentuali analoghe a quelle già riportate qui per l’Europa occidentale).
Per maggiore completezza – lasciando da parte i contributi quasi trascurabili – si può aggiungere che la Russia riceveva considerevoli quantità di polveri atmosferiche anche dal Medio Oriente & Nordafrica (4%), dal “resto dell’Asia” (4%) e dalla Cina (3%) e contribuiva anche alla mortalità da polveri riscontrabile in Medio Oriente & Nordafrica (per il 2%) e in Cina (per lo 0,5%, un dato che dal punto di vista percentuale ricadrebbe tra quelli “quasi trascurabili” e che però per il vastissimo numero degli abitanti della Cina ha invece un concreto impatto sanitario addirittura maggiore del 3% della mortalità russa che poteva essere attribuito alle polveri di origine cinese). A sua volta, il Medio Oriente & Nordafrica era all’origine di considerevoli contributi alla mortalità da polveri riscontrabile nell’Africa sub-sahariana (per il 5%), nel “resto dell’Asia” (per il 4%) e in India (per il 2%).
Tra i risultati di tutti i vari spostamenti di polveri sospese da una parte del mondo ad un’altra vi è il fatto che lo scambio netto tra polveri esportate e polveri importate può portare in ciascuna parte del mondo a danni alla salute umana alquanto maggiori o minori di quelli effettivamente innescati nel mondo dalle polveri aventi origine in quel territorio. In particolare – secondo queste stime – paragonando la mortalità da polveri riscontrabile nel 2007 in Europa occidentale con la mortalità provocata in tutto il mondo dalle polveri originate nell’Europa occidentale stessa si poteva quantificare in estrema sintesi come effetto dei venti una riduzione locale della mortalità nei pressi del 20%. Stessa cosa nel Medio Oriente & Nordafrica (anche lì, -20% circa). In Europa orientale, al contrario, come risultato di tali scambi era quantificabile un aumento della mortalità intorno al 10%. E in Russia l’effetto era ancora più forte e drammatico: +25% circa. Tra le altre parti del mondo, profondamente sfavoriti dagli spostamenti di polveri sospese risultavano essere il “resto dell’Estremo Oriente” (approssimativamente +45% nella mortalità, a causa di polveri provenienti soprattutto dalla Cina) e il “resto dell’Asia” (+15%, a causa di polveri provenienti principalmente da India e Cina), mentre ampiamente favoriti erano l’Oceania (-25%, con scambi di polveri a proprio “vantaggio” principalmente con l’Asia sud-orientale, inserita in questo studio nel “resto dell’Asia”) e il Canada (-20%, in “vantaggio” negli scambi di polveri principalmente con l’Europa sia occidentale che orientale).
In termini assoluti, la zona geografica che più veniva a pesare su altre era nettamente l’Europa occidentale, dal momento che al suo confronto le altre zone che risultavano ampiamente “avvantaggiate” in questi scambi erano tutte e tre molto meno emettitrici complessive di polveri, risultando avere quindi un impatto molto minore sulla situazione ambientale e sanitaria mondiale.
Analizzando i dati relativi alle varie zone geografiche in questione, emergeva anche che nel 2007 la zona con le emissioni pro-capite aventi il maggiore impatto stimato sulla mortalità da polveri complessiva appariva essere piuttosto nettamente l’Europa orientale, seguita dalla Cina (circa 20-25% in meno rispetto all’Europa orientale), dalla Russia (40-45% in meno), dall’Europa occidentale (50% in meno), dall’India (60% in meno), da Canada e Usa (70% in meno), dal “resto dell’Asia” e dal Medio Oriente & Nordafrica (75-80% in meno), dal “resto dell’Estremo Oriente” (85% in meno), dall’America latina (90% in meno), dall’Oceania (96% in meno) e dall’Africa sub-sahariana (97% in meno). In altre parole, si stimava che in Europa orientale per ogni abitante si desse localmente origine a una quantità di polveri avente nel complesso un impatto sanitario approssimativamente maggiore del 35-40% rispetto alla quantità originata in Cina e del 70-80% rispetto a quella russa, doppio rispetto all’Europa occidentale, 2,5 volte maggiore rispetto all’India, triplo rispetto a Canada e Usa e maggiore 4-5 volte rispetto al “resto dell’Asia” e al Medio Oriente & Nordafrica, 7 volte rispetto al “resto dell’Estremo Oriente”, una decina di volte rispetto all’America latina, 25 volte rispetto all’Oceania e 35 rispetto all’Africa sub-sahariana.
Questo genere di impatto dipende ovviamente da due fattori di fondo: da un lato, la quantità di polveri originata pro-capite in ciascuna zona geografica (e, naturalmente, la loro tipologia); dall’altro, il numero di persone esposte di fatto a tali polveri, di modo che più popolose sono le regioni in cui finiscono le polveri più tende ad aumentare l’impatto di queste ultime.
Nella prospettiva di un confronto tra le due zone principali che in quello studio sono state attribuite al nostro continente, è chiara la popolosità complessiva alquanto simile delle varie regioni in cui finiscono le polveri aventi origine rispettivamente nell’Europa orientale e in quella occidentale (una popolosità che nel complesso è, anzi, leggermente maggiore per quest’ultima). La causa della grande differenza di impatto tra le due zone sta dunque – in base a questi dati del 2007 – in un sistema economico-produttivo (quello dell’Europa orientale) con una tendenza molto più forte dell’altro a emettere polveri e loro precursori: una tendenza confermata del resto dai dati storici, che hanno visto l’Europa occidentale iniziare a operare molto prima di quella orientale nella direzione di una consistente riduzione dello smog e delle altre maggiori forme di inquinamento atmosferico. Non a caso, mezzo secolo fa tale inquinamento era ampiamente diffuso in tutto il mondo industrializzato senza grandi differenze tra una regione e l’altra, fatta eccezione per le diversità climatico-geografiche e produttive.
Come si rileva dai dati riportati ad esempio nel già citato European Union Emission Inventory Report 1990-2014, nel periodo dalla metà degli anni Duemila alla metà dell’attuale decennio i paesi membri dell’UE facenti parte dell’Europa orientale hanno ridotto in media le proprie emissioni di polveri e dei loro precursori in modo significativamente meno marcato di quanto sia stato fatto in Europa occidentale, anche se non si tratta di andamenti fortemente dissimili. Considerato anche che, nelle vicende storiche delle varie nazioni dell’Europa orientale dopo la caduta del “muro di Berlino”, il percorso di avvicinamento dei loro sistemi economico-produttivi a una tutela sanitaria e ambientale che possa essere degna di questo nome ha ricevuto tipicamente un’accelerazione se e quando esse sono entrate nell’UE, se ne ricava palesemente che le dinamiche di fondo delineate da Qiang Zhang et al. a proposito dell’inquinamento europeo da polveri atmosferiche appaiono decisamente valide a tutt’oggi.
Un’ecatombe senza sosta
Vale la pena di aggiungere che diversi studi negli ultimi anni hanno stimato gli effetti planetari che l’inquinamento da polveri sospese ha sulla salute, e più in particolare sulla mortalità: oltre a Qiang Zhang et al., in precedenza S. S. Lim et al. (A comparative risk assessment of burden of disease and injury attributable to 67 risk factors and risk factor clusters in 21 regions, 1990-2010: a systematic analysis for the global burden of disease study 2010, nel 2012 nella rivista medica The Lancet: 380, 2224-2260) e J. Lelieveld et al. (The contribution of outdoor air pollution sources to premature mortality on a global scale, nel 2015 di nuovo nella rivista scientifica Nature: 525, 367-371). I risultati sono stati simili: 3.220.000 nel 2010 secondo lo studio pubblicato nel 2012; 3.150.000 nel 2010 secondo lo studio pubblicato nel 2015; 3.450.000 nel 2007 secondo lo studio pubblicato nel 2017. Poiché una grandissima parte delle polveri sospese nell’atmosfera provengono da attività umane, ne deriva che una grandissima parte di queste morti premature sono innescate appunto da attività umane (ovviamente vari aspetti dello stile di vita delle persone – come l’alimentazione, l’attività fisica, lo stress, eventuali abitudini come il fumo o l’abuso di alcool, ecc. – possono aiutare a difendere la propria salute o al contrario renderla più “attaccabile” da fattori come l’inquinamento, tuttavia non si può in alcun modo negare che l’inquinamento abbia per lo meno un pesante ruolo di innesco in una serie di malattie, tra le quali quelle che risultano più collegate appunto alle polveri atmosferiche sono state già ricordate qui nella parte iniziale).
E per avere una maggiore idea della tragica drammaticità della questione, si possono citare qui le stime della mortalità legata alle polveri sospese in un solo anno come tanti altri (il 2007 appunto) in base al particolarmente ampio studio di Qiang Zhang et al.: circa 1.185.000 morti premature in Cina, 584.000 in India, 89.000 nel “resto dell’Estremo Oriente”, 447.000 nel “resto dell’Asia”, 277.000 nel Medio Oriente & Nordafrica, 130.000 nell’Africa sub-sahariana, 224.000 nell’Europa orientale, 200.000 nell’Europa occidentale, 134.000 in Russia, 94.000 negli Usa, 76.000 nell’America latina, 8.000 in Canada e 2.000 in Oceania [6]. Una continua ecatombe su cui le élite politiche delle varie parti del mondo tendono comunemente a glissare – a quanto pare – senza alcuna remora veramente degna di nota....
La crescente inadeguatezza delle norme comunitarie
europee riguardanti la qualità dell’aria e le emissioni
I dati messi sinora qui in rilievo suggeriscono con estrema evidenza che il complesso delle attuali normative dell’UE in tema di polveri atmosferiche e di emissioni inerenti a queste ultime, lungi dall’essere intrinsecamente adeguato almeno per quella grandissima parte dell’Europa occidentale che rispetta di fatto tali normative, possa invece essere adeguato solo apparentemente anche per essa.
In primo luogo, emerge una grave insufficienza delle attuali norme europee sulla qualità dell’aria, con specifico riferimento ai limiti di concentrazione del particolato che sono considerati accettabili nell’aria che respiriamo. Un palese riscontro di questa insufficienza lo si ha col fatto che, nel complesso delle sei nazioni dell’UE in cui nessuna stazione di rilevamento è risultata fuori norma per le polveri nel 2013 (Finlandia, Estonia, Irlanda, Gran Bretagna, Lussemburgo e Danimarca, tutte nazioni monitorate in maniera ampia o per lo meno notevole) [7], la valutazione riportata nel già citato Air Quality in Europe - 2016 Report è stata approssimativamente di ben 45.000 morti premature in quell’anno a causa dell’inquinamento da polveri atmosferiche, per una perdita complessiva di circa 485.000 anni di vita. Ovviamente sono dati stimati e approssimati, ma nell’insieme appaiono scientificamente incontestabili nella loro sostanza e nel loro significato di fondo.
Peraltro, è un’insufficienza che si poteva prevedere indirettamente anche dall’evoluzione storica delle norme in questione e dalle sue modalità. La prima direttiva europea a fissare dei limiti sul particolato atmosferico fu la n. 30 del 1999, e successivamente vi fu la n. 50 del 2008, ancora in vigore. Ha riassunto ad esempio, a questo proposito, la Corte europea di giustizia nella sua sentenza del 19 dicembre 2012 (relativa alle polveri atmosferiche italiane): «Al fine di garantire la protezione della salute umana, l’allegato III della direttiva 1999/30 fissa due tipi di limiti per le particelle Pm10, distinguendo due fasi». Nella «fase 1, che si estende dal 1° gennaio 2005 al 31 dicembre 2009, da un lato, il valore giornaliero di 50 µg/m3 non deve essere superato più di 35 volte per anno civile e, dall’altro, il valore annuo da non superare è di 40 µg/m3» (valore annuo inteso ovviamente come media dei rilevamenti giornalieri). Nella «fase 2, a partire dal 1° gennaio 2010, da un lato, il valore giornaliero da non superare più di 7 volte per anno civile è di 50 µg/m3 e, dall’altro, il valore limite annuo è di 20 µg/m3». Questa fase 2, tuttavia, prima ancora di avere inizio è stata abolita dalla «direttiva 2008/50, entrata in vigore l’11 giugno 2008», il cui «allegato XI [...] non ha modificato i valori limite fissati per le particelle Pm10 dall’allegato III della direttiva 1999/30 per la fase 1» e ha stabilito che rimanessero indefinitamente vigenti anche dopo il 2009. Al posto di tale fase 2, che doveva avviarsi nel 2010, la direttiva 2008/50 ha invece aggiunto ai due limiti ormai “storici” riguardanti il Pm10 un limite annuo di 25 µg/m3 per il Pm2,5 a partire dal 2015. Tuttavia, i dati degli ultimi anni mostrano che nei fatti questo limite risulta ancora meno restrittivo di quelli in vigore da tempo per il Pm10: nel 2014 ad esempio – come riporta il già ricordato rapporto europeo del 2016 – il valore-soglia annuo relativo al Pm2,5 è stato superato in almeno una stazione di rilevamento soltanto in 4 dei 27 paesi dell’UE che hanno monitorato tale dato (Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca e Italia), mentre il valore-limite annuo del Pm10 è stato superato in almeno una stazione di rilevamento in 8 di quei 27 paesi (i quattro appena nominati più Spagna, Slovacchia, Cipro e Francia) e il valore-limite giornaliero del Pm10 è stato superato in una o più stazioni di rilevamento in ben 20 di quei 27 paesi (tutti cioè tranne Estonia, Lussemburgo, Irlanda, Finlandia, Olanda, Gran Bretagna e Danimarca) [8].... In altre parole, il limite annuo di 25 µg/m3 per il Pm2,5 è estremamente inefficace perché troppo elevato: se lo si vuole rendere efficace bisogna o abbassarlo nettamente o farlo diventare un limite giornaliero da superare non molte volte in un anno.
Per un confronto con le linee-guida dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sulle polveri atmosferiche, si può ricordare qui che sono previsti per il Pm10 un limite annuo di 20 µg/m3 e un limite giornaliero di 50 µg/m3 da superare non più di 3 volte all’anno, mentre per il Pm2,5 un limite annuo di 10 µg/m3 e un limite giornaliero di 25 µg/m3 da superare – come l’altro – non più di 3 volte all’anno. Ovviamente l’Oms – diversamente dall’UE – non ha poteri sanzionatori e quindi i suoi valori-limite relativi all’inquinamento da polveri (definiti su scala mondiale per la prima volta nel 2006 e mai cambiati da allora) hanno un valore non giuridico ma semplicemente scientifico, etico, socio-culturale. Si può notare che i limiti europei che erano previsti nella futura fase 2 dalla direttiva 1999/30 si rivelarono molto vicini alle linee-guida adottate in seguito dall’Oms, mentre i limiti europei correnti e futuri che sono stati stabiliti nella direttiva 2008/50 si sono decisamente allontanati da tali linee-guida (benché nel 2008 queste ultime fossero state approvate e rese note già da un paio d’anni assieme a tutta la documentazione scientifica che le giustificava ampiamente), evidenziando un atteggiamento dei vertici dell’UE quanto mai lassista e privo di reali giustificazioni sanitarie, scientifiche, sociali, ecc..
Non è difficile scorgere in questo passaggio – analogamente a quanto è avvenuto in molti altri campi d’azione degli organi direttivi dell’UE, a partire dal campo sociale ed economico – un mutamento di orientamento di fondo: da una linea di condotta tendenzialmente attenta soprattutto ai cittadini, al loro benessere complessivo, ad una congrua tutela generale della loro salute e dell’ambiente e a un sostanziale accordo con la scientificità e all’occorrenza col suo “principio di precauzione” (il tutto in maniera comunque compatibile col necessario mantenimento anche di un’economia fiorente), a un’altra linea di condotta che sempre più spesso è sensibile soprattutto al punto di vista delle maggiori lobby economiche.
Per rendere le cose più chiare ed esplicite si può mettere in luce qualche aspetto di come sono andate le cose nell’UE nel 2014 rispetto ad alcuni dei valori-limite previsti dall’Oms. Come ha riportato il consueto rapporto europeo del 2016, nei 28 paesi dell’UE soltanto in uno (l’Estonia) tutte le stazioni di rilevamento hanno rispettato il limite annuo dell’Oms per il Pm10 (che era il valore-limite che avrebbe dovuto entrare in pieno vigore nell’UE nel 2010 se non fosse intervenuta in senso contrario la direttiva 2008/50...), mentre dei 27 paesi che hanno monitorato il Pm2,5 solo 3 hanno rispettato in tutte le loro stazioni il relativo limite annuo dell’Oms (oltre all’Estonia, l’Irlanda e la Finlandia)....
In secondo luogo, appare evidente che nell’UE andrebbero rese più restrittive anche le norme generali sulle emissioni. Ciò in quanto, da un lato, non risulta accettabile che la diffusa capacità dell’Europa occidentale – fatta eccezione, come si è visto, per la pianura Padana e per poche altre aree – di rispettare i limiti di legge correnti sulla presenza di polveri nell’aria appare dipendere più dai venti che portano altrove le polveri stesse o i loro precursori che da un’effettiva capacità di creare un sistema produttivo coerente con tali limiti e davvero valido dal punto di vista ambientale e sanitario. La questione, oltre tutto, spicca come ancor più vera e significativa se si considera appunto che quei limiti risultano palesemente poco efficaci, come emerge da un confronto con – ad esempio – le indicazioni dell’Oms e quelle della già citata direttiva 1999/30, annacquata molto pesantemente nel 2008. Dall’altro lato, la situazione particolarmente grave della parte orientale dell’UE mostra che norme più restrittive sono comunque una necessità quanto mai palese per questi paesi, date le loro tante e vaste aree in cui si superano nettamente quei limiti e considerato anche che, nel complesso, questi superamenti sono certamente causati più dalle attività umane locali che dai venti (peraltro, di una riduzione delle emissioni in Europa occidentale grazie a norme più restrittive beneficerebbe comunque anche l’Europa orientale, a causa appunto degli effetti dei venti). Tra l’altro, non si dimentichi che questa parte del continente comprende paesi che sono membri dell’UE da quasi 15 anni (Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria), mentre altri lo sono da un decennio (Bulgaria e Romania) o da quasi cinque anni (Croazia).
A tutto questo è da aggiungere che eventuali aree particolarmente sensibili e sofferenti dal punto di vista dell’inquinamento atmosferico avrebbero il diritto-dovere di approvare – riguardo alle emissioni consentite alle varie attività produttive locali – delle norme regionali alquanto più restrittive rispetto a quelle generali dell’UE. Ciò a ovvia tutela della salute delle popolazioni locali, evidentemente sfavorite in questo senso dal punto di vista geografico-ambientale rispetto alle “condizioni medie” che si registrano nell’UE. Più in particolare, nell’Europa occidentale questo diritto-dovere appare valere per la pianura Padana in modo chiaro e incontrovertibile, mentre per alcune altre zone fortemente urbanizzate e industrializzate nella stessa Italia e in altri paesi – come specialmente Grecia, Belgio, Germania, Spagna, Portogallo e Francia – la cosa appare poter essere discussa e approfondita caso per caso.
Abbattere le polveri atmosferiche
In pratica, per dare finalmente luogo a una vera ed efficace svolta nell’abbattimento dell’inquinamento da polveri atmosferiche nelle regioni padane, appaiono quindi fondamentali le seguenti prospettive (che sostanzialmente possono essere considerate nel contempo un punto di partenza per elaborare sulla questione, anche nelle altre parti del mondo, strategie adeguate di volta in volta alla situazione ambientale, climatica, produttiva e tecnologica del luogo) [9]:
- imporre bruciatori a bassa produzione di NOx a tutte le attività industriali in cui avvengano processi di combustione, associando a questi bruciatori anche dei filtri anti-NOx nel caso delle attività industriali in cui tali processi raggiungano una dimensione rilevante nell’ambito produttivo (dal punto di vista amministrativo tutto questo si potrebbe ottenere più semplicemente imponendo alle emissioni industriali di NOx, e soprattutto agli impianti di medie o grandi dimensioni, limiti più restrittivi di quelli attualmente previsti dalle leggi regionali, che solitamente si limitano ad attuare le leggi nazionali e le direttive europee);
- imporre bruciatori a bassa produzione di NOx anche ai nuovi impianti termici per riscaldamento civile, e verificare la possibilità di imporre, o per lo meno incentivare, questi bruciatori anche negli impianti termici già esistenti, prevedendo nel contempo controlli ciclici che mantengano in buona efficienza tutti questi impianti;
- verificare la possibilità di porre filtri anti-NOx anche sui veicoli;
- regolamentare e incentivare il passaggio a veicoli a basso consumo energetico [10] e – possibilmente – a veicoli “ambientalmente puliti” (come quelli a elettricità proveniente da fonti energetiche rinnovabili, o a pannelli solari fotovoltaici, o a celle in cui si consuma idrogeno proveniente dall’energia solare applicata all’elettrolisi dell’acqua), prevedendo anche obblighi specifici in questo senso nell’ambito dei trasporti pubblici e favorendo l’istituzione di “magazzini di rapido interscambio” per il trasporto merci alle porte delle città, nei quali i normali camion cedano il loro contenuto a “furgoni urbani ecologici” aventi un’emissione di gas di scarico particolarmente bassa o addirittura nulla;
- incentivare e favorire il traffico su rotaia e per vie d’acqua, le piste ciclabili e, nell’ambito specifico dei trasporti su strada, quelli pubblici rispetto a quelli privati, ad esempio mantenendo bassi i prezzi dei biglietti sui treni e prevedendo la possibilità – eventualmente su prenotazione – di trasportare facilmente veicoli stradali di ogni genere a un costo conveniente e per distanze medio-lunghe su dei vagoni ferroviari destinati a questo scopo [11];
- mirare a ridurre in modo sostanziale il traffico veicolare nei centri urbani (attraverso ad esempio corsie preferenziali per biciclette e autobus, biglietti a basso prezzo su autobus, tram e metropolitane, una rete di “parcheggi scambiatori” per pendolari e turisti in ogni città, zone a transito limitato, isole pedonali, l’applicazione locale delle leggi sulla tutela dall’inquinamento acustico, ecc.) [12];
- abolire nell’industria e nel riscaldamento civile l’uso di combustibili diversi dal gas naturale e dal GPL, con l’eccezione dalla legna da ardere (ma – come già si è notato – solo al di fuori delle città, a meno che non si rendano disponibili tecnologie che abbattano in misura molto ampia le sue polveri primarie) ed eventualmente del gasolio a bassissimo tenore di zolfo (ma solo nei casi in cui vi siano effettive impossibilità pratiche di utilizzazione o di approvvigionamento per gli altri combustibili presi in considerazione in questo punto);
- incentivare le ricerche e le applicazioni nel settore del risparmio energetico e in quello degli impieghi industriali e civili dell’energia solare, utilizzando anche gli edifici pubblici come esemplificazione e traino di una serie di possibilità esistenti in questi campi;
- abbassare notevolmente i limiti di emissione per le polveri primarie relativi agli impianti industriali;
- richiedere alle competenti autorità nazionali ed europee la fissazione di limiti particolarmente rigorosi per le emissioni di polveri da parte dei veicoli, prevedendo eventualmente – in attesa di tali nuovi limiti – che i veicoli che rispettano i limiti attuali e che però non corrisponderebbero ai nuovi requisiti possano essere sostanzialmente esclusi dal traffico urbano nelle località in cui nell’anno precedente non erano state rispettate le norme europee sulle polveri atmosferiche (ciò salvaguardando ovviamente il diritto dei residenti possessori di un tale autoveicolo di raggiungere e lasciare la loro abitazione e di compiere eventuali tragitti urbani d’emergenza) [13];
- incentivare ulteriormente l’agricoltura biologica, che non fa uso di fertilizzanti azotati;
- disincentivare l’allevamento intensivo e incentivare al suo posto gli allevamenti che sono basati su un rapporto armonico tra territorio, animali e difesa dell’ambiente naturale (inclusa l’eventuale fruizione del territorio stesso da parte di popolazione locale e turisti), e che oltre a proteggere ambienti spesso “a rischio” – come quelli collinari e montani – tendono a produrre ecosistemi aventi una certa corrispondenza con quelli naturali e con i loro equilibri di fondo e a ridurre nettamente le problematiche idrogeologiche tanto su scala locale quanto nei territori più a valle [14];
- ridurre ulteriormente anche le altre forme di inquinamento atmosferico (anidride solforosa, Cov, benzene e altri idrocarburi, metalli pesanti, ecc.) che possono dare origine esse stesse a delle polveri secondarie oppure facilitare la formazione di polveri secondarie a partire dai loro precursori, o che accentuano gli effetti sanitari delle polveri sospese;
- diffondere adeguate informazioni tra la popolazione sia sui danni sanitari causati dalle polveri atmosferiche, sia sulle principali fonti secondarie e primarie di tali polveri, sia sui modi per ridurre le emissioni connesse a queste fonti;
- giungere il più possibile ad ampie forme di coordinamento e di collaborazione tra le varie regioni della pianura Padana nell’attuazione di questa serie di iniziative, che avrebbero uno scarso significato se non coinvolgessero la pianura intera (in quanto le polveri non conoscono confini amministrativi) e che evidentemente potrebbero e dovrebbero includere anche l’approvazione e l’attuazione di norme regionali più restrittive di quelle europee in merito alle emissioni di agenti inquinanti concesse alle varie attività produttive, ai trasporti, ecc.;
- come già si è argomentato, richiedere all’UE di rendere nettamente più restrittive le normative comunitarie che definiscono i valori di Pm10 e Pm2,5 considerati accettabili nell’aria (come punto di partenza, l’UE potrebbe fare propri i valori-limite indicati dall’Oms già nel 2006); dato il ruolo cruciale che sostanze come NOx, SO2, NH3 e Cov hanno nella formazione di polveri secondarie, anche per queste sostanze andrebbero analogamente rivalutati i loro valori considerati accettabili nell’aria; parallelamente, in generale andrebbe richiesto all’UE di rendere più restrittive anche le sue normative sulle emissioni di tali sostanze e di Pm10 primario (prevedendo comunque la possibilità di eccezioni su piccola scala per situazioni come ad esempio l’uso domestico della legna da ardere, specialmente al di fuori delle città);
- un ulteriore contributo alla tutela della salute delle persone dovrebbe provenire dal diffondere tra la popolazione adeguate conoscenze sulla prevenzione generale delle malattie e, più in particolare, sugli aspetti dello stile di vita che risultano indiscutibilmente positivi come un’alimentazione sana e nutrizionalmente adeguata, un’attività fisica salutare (con caratteristiche come in special modo l’essere principalmente di tipo aerobico e il mantenere possibilmente una certa armoniosità e piacevolezza), i possibili modi per difendersi dallo stress (incluso l’impegnarsi a livello sociale per rendere il mondo più umano e più vivibile...), l’eliminare – o per lo meno mantenere a un basso livello – abitudini tendenzialmente debilitanti come il fumo o l’abuso di alcool, e così via [15].
Inquinamento ed economia: un approfondimento specifico
su polveri atmosferiche e produzione per l’esportazione
Qiang Zhang et al. hanno indagato anche su quanto le polveri che avevano origine in ciascuna delle zone geografiche subcontinentali prese in esame nel loro studio fossero dovute alla produzione e distribuzione di beni consumati localmente e quanto a quella di beni esportati per il loro consumo in altre parti del mondo. In estrema sintesi, ne è risultato che in certe zone gli scambi commerciali hanno condotto ad un aumento netto della mortalità da polveri a causa appunto di un maggiore peso complessivo – nel “bilancio polveri” – dei beni prodotti in loco ma consumati altrove rispetto ai beni consumati in loco ma prodotti altrove: la zona più svantaggiata da questo punto di vista è risultata la Russia (per la quale si è stimato che circa il 25% della sua mortalità da polveri fosse collegata a questo effetto netto degli scambi commerciali), seguita da Europa orientale (20%), Cina e “resto dell’Asia” (15%) e India (6%). La zona più “avvantaggiata” è risultata invece l’Oceania (per la quale si è stimato che una quota della mortalità mondiale da polveri pari circa al 1200% della propria mortalità interna da polveri fosse collegata all’effetto netto dei propri scambi commerciali), seguita da Usa (105%), Canada (95%), Europa occidentale (80%), Medio Oriente & Nordafrica e Africa sub-sahariana (55%), e America latina e “resto dell’Estremo Oriente” (20%).
In altre parole, le zone in cui l’importazione di determinati beni (quelli che tendono a implicare processi produttivi che rilasciano nell’atmosfera polveri o loro precursori) supera la produzione locale di beni di quel tipo destinati all’esportazione hanno la tendenza a scaricare su altre popolazioni gli impatti inquinanti di produzioni effettuate in pratica proprio per abitanti di quelle zone importatrici. Questo effetto, che sostanzialmente sacrifica la salute – e spesso la vita – degli abitanti di una zona in nome del consumo e del benessere materiale degli abitanti di un’altra zona viene ulteriormente accentuato quando le popolazioni importatrici hanno leggi abbastanza rigorose a tutela del proprio ambiente mentre le popolazioni esportatrici subiscono molto più facilmente varie forme di inquinamento avendo leggi ambientali molto più permissive. È tipico che in queste ultime popolazioni il frutto economico della produzione vada in percentuali particolarmente basse alle classi lavoratrici e in percentuali particolarmente elevate a delle élite economiche formatesi localmente o aventi base altrove e operanti con modalità soprattutto speculative. E ciò benché quelle classi lavoratrici siano tipicamente molto più esposte di quelle élite all’inquinamento.
Va notato che tipicamente le nazioni che nel senso in questione sono più importatrici sono quelle che hanno un Prodotto interno lordo pro-capite (e quindi un reddito pro-capite) particolarmente elevato e che possono così “permettersi” di acquistare merci un po’ da tutto il mondo; nel contempo, vi sono nazioni moderatamente importatrici dove vi è una industrializzazione particolarmente scarsa e per avere accesso a molti tipici prodotti moderni si deve necessariamente importarli da zone più industrializzate.
Gli effetti di tutte queste dinamiche (tenore di vita dei vari ceti sociali in ciascuna parte del mondo, industrializzazione, tendenza dei sistemi economico-produttivi a emettere polveri e loro precursori, import-export di beni, norme ambientali locali più o meno permissive) traspaiono nelle stime su quanto grande sia l’impatto dei consumi complessivi pro-capite di ciascuna zona geografica sulla mortalità da polveri planetaria: di nuovo, l’impatto più alto è quello dell’Europa orientale, seguita da Europa occidentale (circa 15% in meno), Cina (30% in meno), Usa (40% in meno), Russia (45% in meno), Canada (50% in meno), India e Oceania (60% in meno), Medio Oriente & Nordafrica e “resto dell’Estremo Oriente” (70% in meno), “resto dell’Asia” (75% in meno), America latina (90% in meno) e Africa sub-sahariana (96% in meno).
Per quanto riguarda più in dettaglio le due principali zone geografiche europee, nello studio in questione si è stimato che in Europa orientale la mortalità da polveri sia stata accresciuta del 20% circa dall’effetto netto degli scambi commerciali con l’Europa occidentale e del 2% ciascuno dall’effetto degli scambi con gli Usa e col Medio Oriente & Nordafrica, mentre le parti del mondo svantaggiate dagli scambi con l’Europa orientale sono risultate la Russia (con un aumento della sua mortalità da polveri equivalente circa al 7% di quella dell’Europa orientale stessa) e la Cina (2%). Con l’Europa occidentale sono risultate svantaggiate in modo consistente dagli scambi commerciali numerose parti del mondo: Cina (con un aumento della sua mortalità da polveri equivalente circa a ben il 30% di quella dell’Europa occidentale stessa), India (8%), Russia (7%), “resto dell’Asia” (5%) e “resto dell’Estremo Oriente” (1%), oltre appunto all’Europa orientale (25%). Solo con gli Usa l’Europa occidentale è risultata significativamente svantaggiata dai commerci, con un aumento stimato della sua mortalità da polveri intorno al 2%.
Sulla “questione polveri”, l’Europa orientale e la Russia soffrono così non solo di svantaggi legati ai venti ma anche di una posizione svantaggiosa negli scambi commerciali. Di fatto, entrambe queste situazioni aggravano ulteriormente una problematica sanitaria e ambientale già grave per conto suo. Essendo difficilmente giustificabile il proporre alle popolazioni di queste parti del mondo di rinunciare in una certa misura alla loro tendenza esportatrice, molto più sensato appare l’incoraggiare in tutti i modi possibili la realizzazione di tecniche e metodologie economico-produttive capaci di tutelare la salute umana molto più di quanto sia stato fatto sinora durante l’era industriale.
Il finto nodo della concorrenzialità economica europea
Tra le righe, i vertici politici dell’UE e dei vari governi nazionali dei paesi che costituiscono l’UE adducono comunemente la presenza di pressanti e fortissime motivazioni economiche dietro alla sostanziale permissività e insufficienza delle attuali normative europee sulle polveri atmosferiche e sui loro precursori, nel senso che per difendere la concorrenzialità dell’economia europea rispetto a economie che nel Terzo mondo (e non solo) tollerano da tempo livelli di inquinamento nettamente più elevati di quelli tollerati in Europa negli anni della fase 1 della direttiva 1999/30, quei vertici sono giunti alla conclusione che per trovare un bilanciamento tra esigenze economiche ed esigenze sanitarie e ambientali era meglio far sparire la fase 2 e accettare diverse centinaia di migliaia di morti ampiamente premature ogni anno pur di tutelare l’economia europea.
Tuttavia, a questo proposito si può ricordare che – come si riportava ad esempio verso la metà degli anni ’90 in Pensare e agire globalmente e localmente (Ecologia Politica - CNS, gennaio-giugno 1996, pagg. 85-103, e novembre 1996, pag. 159) – «nell’ultimo paio d’anni i governi della Francia, degli Usa e di altri paesi industrializzati hanno proposto che negli accordi commerciali internazionali venga inserita una “clausola sociale”, comprendente per lo meno alcune “prescrizioni minime” riguardanti la libertà sindacale e il divieto del lavoro infantile, del lavoro forzato e delle discriminazioni lavorative». E in quegli anni sia la “società civile” che strutture dell’Onu come ad esempio l’Organizzazione internazionale del lavoro chiesero ripetutamente e con forza l’attuazione non solo di “clausole sociali” di quel tipo ma anche di “clausole ambientali” che impedissero alle economie pressoché prive di rispetto per la salute umana e per l’ambiente di commerciare in piena libertà i loro prodotti anche nei paesi dove le imprese produttrici si accollavano dei costi considerevoli proprio al fine di dare più o meno corpo a tale rispetto.
Ovviamente, per porre in atto entrambe quelle forme di clausole – e difendere così la concorrenzialità internazionale di economie come quella europea senza rinunciare a un tutela efficace e puntuale del benessere sociale, della salute umana e dell’ambiente – vi erano dei modi ampiamente possibili (in quell’articolo si presentava appunto una sintesi di alcuni di tali modi). Ma a cavallo tra XX e XXI secolo i governi dei maggiori paesi industrializzati (e in fondo anche gli altri governi...) decisero infine di appoggiare non gli interessi complessivi e generali della popolazione umana, ma gli immediati interessi materiali delle ristrettissime élite economiche che speculavano internazionalmente – arricchendosi enormemente – sugli scarsissimi diritti dei lavoratori e sulla scarsissima tutela dell’ambiente e della salute umana imperanti in molti paesi del Terzo mondo solitamente poverissimi anche di diritti umani e di democrazia. Su queste dinamiche e sul loro contesto socio-culturale si vedano ad esempio altri due articoli come Da Seattle alla crisi dei mutui (Rocca, 15 aprile 2009) e Lavoratori e globalizzazione (La Civetta, settembre 2010).
Riprendere in mano con maggiore consapevolezza e decisione la rivendicazione di una corposa e incisiva concretizzazione di quelle due forme di clausole nella vita economico-commerciale internazionale può costituire dunque, da parte della “società civile” e dei movimenti politici che si dicono sensibili alla sfera sociale e a quella ambientale, un profondo contributo anche a favorire nelle varie parti del mondo un’efficace tutela della qualità dell’aria che respiriamo. Per di più, è un contributo che potrebbe essere non solo indiretto (attraverso appunto una complessiva tutela della concorrenzialità internazionale delle economie maggiormente attente al piano sociale e a quello ambientale), ma anche diretto: in tali clausole infatti si potrebbero inserire specificamente alcuni parametri – che ovviamente dovrebbero essere propositivi, socialmente efficaci e scientificamente ben fondati (come sono solitamente ad esempio gli attuali parametri definiti dall’Oms) – riguardanti da un lato la qualità locale dell’aria e dall’altro la protezione degli ambienti di lavoro dalla presenza di sostanze aeriformi nocive. Un altro consistente contributo indiretto potrebbe provenire in senso analogo dall’ulteriore rivendicazione che gli Stati si indirizzino con decisione verso la deliberata scelta di tutelare i lavoratori e l’economia del paese dalla sempre più frequente evenienza rappresentata da progetti drammatici e contestati di delocalizzazione o chiusura di stabilimenti – o di un’ampia parte di qualcuno di essi – da parte dei loro proprietari o amministratori, che in questi casi appaiono evidentemente intenzionati a spostare semplicemente gli impianti produttivi in luoghi dove siano molto meno tutelati e rispettati i lavoratori e l’ambiente.... In pratica, per le pubbliche istituzioni che governano e amministrano i paesi “colpiti” da quei contestati progetti, si tratterebbe di volgersi esplicitamente verso la prospettiva di percorsi di momentanea nazionalizzazione di tali stabilimenti prevedendo nel contempo per la proprietà indennizzi dimensionati solamente all’osso.
In altre parole, in una società pressoché inevitabilmente sempre più intrecciata con l’industrializzazione e con lo sviluppo tecnico-scientifico come è quella odierna, non si può pensare di isolare sostanzialmente dall’economia (che in pratica è la maggiore forza trainante di questa società) qualche aspetto della vita sociale – come appunto la dimensione ambientale e sanitaria – e riuscire a far fiorire ampiamente e profondamente tale aspetto senza nel contempo intervenire anche sull’economia e più in particolare sui rapporti che essa ha con l’aspetto in questione.... Se si vuole migliorare intensamente tale dimensione, bisognerà occuparsi anche dei meccanismi della vita economica mondiale, attualmente impostata da più di due decenni secondo i dettami della globalizzazione neoliberista. Come si è accennato anche in ulteriori articoli – tra i quali specialmente Due Nobel per lo Stato sociale (La Civetta, gennaio 2012) e Oltre Keynes (Rocca, 1° luglio 2017) – si tratta di dettami che si sono rivelati in modo palese estremamente carenti e distruttivi dal punto di vista sociale ed ecologico e che andrebbero quindi chiaramente “sostituiti” con un approccio economico più integrato e più aperto ad una efficace “visione d’insieme” dell’essere umano, della società e del complessissimo ecosistema planetario.
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Appendice 1
Un po’ di storia istituzionale e di riflessioni critiche a proposito
delle procedure d’infrazione dell’UE per le polveri italiane
Il 5 maggio 2010, dopo due anni di insoddisfatte richieste sia di chiarimenti che di adeguati provvedimenti, la Commissione Europea ha inviato un ultimatum (di 60 giorni) al governo italiano informandolo del prossimo avvio di una procedura d’infrazione per l’ormai annoso perpetuarsi della mancata osservanza delle norme UE sulla qualità dell’aria, incluso in particolare il Pm10. Gran parte delle regioni italiane era coinvolta in questa mancata osservanza, ma nelle regioni padane si trattava di una situazione particolarmente grave e generalizzata. Nel febbraio 2011, a distanza di più di sette mesi dalla scadenza del citato ultimatum, la Commissione Europea ha ritenuto del tutto inadeguati i dati, le spiegazioni e le prospettive che le erano stati forniti dallo Stato italiano e ha trasmesso la documentazione alla Corte europea di giustizia, perché sancisse un procedimento sanzionatorio nei confronti dell’Italia.
Particolarmente illuminante è la sentenza con cui il 19 dicembre 2012 la Corte europea di giustizia ha riconosciuto lo Stato italiano colpevole di inadempienza riguardo alle concentrazioni di Pm10 in un’ampia parte del territorio italiano per gli anni 2006 e 2007, mentre per il 2005 e per gli anni successivi al 2007 la Corte ha aggiunto di non aver potuto deliberare in modo analogo soltanto per un’insufficienza della documentazione scientifica consegnatale, dal momento che i rappresentanti del governo italiano avevano praticamente ammesso di avere rinunciato per il momento a cercare di porre fine in Italia al superamento dei limiti di legge relativi alle polveri atmosferiche. Ecco alcuni passi della sentenza, incentrati sui più recenti dati italiani del Pm10 e sul confronto in merito ad essi tra Commissione Europea e governo italiano: «Secondo le informazioni trasmesse» dallo Stato italiano «per l’anno 2009, il superamento» dei «valori limite perdurerebbe in 70 zone situate» in ben 14 regioni del paese. «In effetti, secondo la Repubblica italiana», l’«obiettivo» di «assicurare il rispetto dei valori limite applicabili alle concentrazioni di Pm10 [...] era impossibile da raggiungere. Per riuscirvi, sarebbe stato necessario adottare misure drastiche sul piano economico e sociale e violare diritti e libertà fondamentali, quali la libera circolazione delle merci e delle persone, l’iniziativa economica privata e il diritto dei cittadini ai servizi di pubblica utilità».... «A proposito dell’argomento relativo alla necessità di adottare misure drastiche sul piano economico e sociale e di violare diritti fondamentali, la Commissione rileva che nessuno Stato membro ha proposto ricorsi di annullamento contro le direttive» europee implicate. «La Commissione aggiunge che la Repubblica italiana riconosce, nel suo controricorso, che i valori limite applicabili alle concentrazioni di Pm10 continuano a non essere rispettati e che tale situazione non sarà risolta a breve o a medio termine. La Commissione ne deduce che la situazione di superamento di tali valori limite presenta un carattere costante e sistemico».
Colpisce decisamente l’ipocrisia dei governanti italiani del periodo 2005-2012, che in pratica hanno accettato gli altissimi livelli di inquinamento da polveri atmosferiche caratteristici della pianura Padana e di numerose altre parti del paese e sono arrivati addirittura a sostenere ufficialmente l’impossibilità di rispettare in Italia le direttive europee su tali polveri, ma si sono ben guardati dal chiedere l’annullamento di tali direttive, sapendo che la discussione pubblica internazionale che sarebbe seguita a questa richiesta avrebbe mostrato a tutti quanto fosse ingiustificabile la posizione assunta dalle élite politiche italiane. Inevitabile era dunque la sentenza della Corte europea.
In altre parole, se a partire dal 2008 gli organi direttivi dell’UE hanno scelto sull’inquinamento atmosferico una linea di condotta esplicitamente sensibile soprattutto al punto di vista delle maggiori lobby economiche (ma in effetti hanno avuto l’accortezza di non seguire questo punto di vista sino alle estreme conseguenze), nel frattempo i governi italiani hanno invece sposato una linea sensibile pressoché soltanto a tale punto di vista, sino appunto alle estreme conseguenze per i “cittadini comuni” [16]....
Come era ampiamente prevedibile vista la sentenza del 19 dicembre 2012, nei primi mesi del 2013 la Commissione europea ha avviato una nuova azione legale nei confronti dello Stato italiano per il continuo superamento dei limiti di legge relativi alle polveri atmosferiche durante gli ultimi anni. Il 27 aprile 2017 l’azione è arrivata a un ultimatum analogo a quello del 5 maggio 2010. Questa volta la documentazione scientifica relativa agli ultimi anni sembrerebbe inoppugnabile e quindi, in caso di effettivo deferimento alla Corte di giustizia, è verosimile una condanna dello Stato italiano non più limitata al passato ma riguardante in pratica anche il presente, di modo che appare verosimile anche la conclusiva irrogazione di una pesante sanzione economica.
Nel frattempo si attende la determinazione concreta della sanzione per le infrazioni italiane relative agli anni 2006 e 2007, determinazione che le autorità europee continuano a rimandare forse perché si rendono conto della sostanziale assurdità insita nell’infliggere sanzioni pecuniarie a degli Stati a seguito di inadempienze di cui le prime a soffrire gravemente sono le popolazioni degli Stati stessi: dato che poi le sanzioni vengono sistematicamente trasferite dagli Stati ai loro contribuenti, cioè in pratica alle popolazioni stesse che già soffrono di quelle inadempienze, per i “cittadini comuni” di tali Stati al danno dunque si aggiunge pure la beffa....
Esiste pertanto una sostanziale contraddizione giuridica nelle procedure d’infrazione europee che si riferiscono a inadempienze che danneggiano direttamente la popolazione. Dal punto di vista giuridico è evidente che in tali casi le sanzioni andrebbero inflitte personalmente ai governanti di quegli Stati, non alle popolazioni (oppure andrebbero inflitte agli Stati, ma in un contesto normativo europeo in cui gli Stati siano autorizzati – o meglio obbligati – a rivalersi immediatamente sui loro governanti per queste sanzioni). Un’ulteriore lacuna, dato appunto questo danneggiamento causato dai governanti all’interesse della collettività del loro proprio paese, è il fatto che le procedure non prevedono allo stato attuale un intenso processo di informazione rivolto dall’UE alla popolazione del paese in merito alla situazione in questione e ai suoi rimedi: mancando questa informazione, in teoria i governanti potrebbero continuare a infrangere silenziosamente pressoché ad infinitum le norme europee e i diritti della popolazione....
Nonostante il plateale superamento dei valori-limite europei anno dopo anno e le inevitabili gravissime conseguenze sanitarie sulla popolazione, i governi che si sono succeduti in Italia in questi anni, così come le giunte regionali che hanno amministrato le varie regioni padane nell’ultimo quinquennio, si sono occupati solo superficialmente e, in definitiva, in modo fittizio di questa drammatica questione
Neanche i vari passi in avanti compiuti di volta in volta dalle procedure d’infrazione europee sono riusciti a far sì che la politica italiana cominciasse a interessarsi davvero alla salute delle decine di milioni di persone che in Italia sono esposte a livelli pesantemente eccessivi di polveri atmosferiche. Anche negli anni successivi all’inizio di queste procedure i dati relativi a queste polveri hanno continuato a superare di gran lunga i limiti di legge europei in buona parte d’Italia, e soprattutto in pianura Padana (e ciò malgrado il fatto che – come si è visto – scientificamente si tratti di limiti chiaramente inadeguati in quanto troppo elevati e “lassisti”...). Ancora non esiste nel territorio italiano alcun effettivo progetto pubblico per una sostanziale riduzione delle emissioni di gas come gli ossidi di azoto e l’ammoniaca (che sono oggi le principali cause delle polveri secondarie e, in generale, del Pm10). A occuparsi – ma comunque molto limitatamente – di questo tema in tempi abbastanza recenti vi sono stati soltanto dei provvedimenti europei che prevedono che in determinati impianti di combustione si utilizzino alcune tecnologie relativamente nuove che riducono gli ossidi di azoto, tra le quali in particolare certi tipi di bruciatori low-Nox (cioè a bassa produzione di Nox). Addirittura, gli amministratori pubblici italiani non parlano praticamente mai di polveri secondarie in occasioni pubbliche....
Nella già citata intervista apparsa il 2 febbraio 2017 sul quotidiano La Stampa, il ministro dell’Ambiente Galletti ha “finalmente” riconosciuto che occorre «una serie di interventi coordinati tra le regioni. Se Milano fa una politica di riduzione del traffico o strutturale da sola, non serve a nulla, perché lo smog non riesci a recintarlo. [...] Dobbiamo fare una politica coordinata tra tutte e 4 le regioni». E analogamente, riguardo in particolare al traffico, «se il blocco lo fa Bologna e non Casalecchio di Reno, l’intervento serve a poco». Evidentemente, di fronte alle molteplici (e sempre più stringenti) procedure d’infrazione europee in corso, il ministro – in carica ormai da circa tre anni, prima nel governo Renzi e poi in quello Gentiloni – non poteva più limitarsi a far finta di niente e a glissare il più possibile sulla questione delle polveri atmosferiche come del resto è abitudine governativa in Italia ormai da una quindicina d’anni.... Sinora comunque da parte sua si è trattato solo di parole quanto mai vaghe e generiche, più simili a delle “chiacchiere da bar” di persone poco informate su ciò di cui parlano che a un discorso scientificamente lucido e soprattutto consapevole (e per di più sono parole di un esponente della categoria dei politici di professione, che in Italia e in molti altri paesi sono purtroppo abituatissimi a non passare dalle parole ai fatti quando esprimono qualche preoccupazione di tipo ambientale...). Cambierà mai qualcosa di veramente significativo – in meglio, s’intende – nell’aria che respiriamo...?
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Appendice 2
Una nota sul percorso storico di questo studio
Questo intervento riprende, rielabora, puntualizza e aggiorna lo studio realizzato tra il 2006 e il 2007 dall’autore col Codiamsa (“Comitato per la difesa dell’ambiente e della salute” di Mantova) e col Coordinamento dei Comitati Ambientalisti Lombardia. Una prima versione di quello studio, datata 30 marzo 2006, è stata diffusa pubblicamente e consegnata in particolare al Consiglio regionale della Lombardia, col titolo L’inquinamento atmosferico da polveri sospese in Lombardia e in pianura Padana: le sue origini e i provvedimenti adeguati per ottenere una sua netta riduzione. Una breve presentazione di questa versione è stata pubblicata sul Corriere della Sera del 13 aprile 2006 a firma di Ruggiero Corcella (nelle pagine del “Corriere Lombardia”), anche se purtroppo nell’articolo vi era un evidente errore di distrazione che rendeva difficile la comprensione del testo. A differenza di quanto è avvenuto nella rielaborazione qui presentata, la maggior parte dei calcoli matematici condotti sui dati Inemar si basava allora su dei coefficienti nazionali tratti da una “Valutazione d’impatto ambientale” (VIA) del 2006 relativa ad un impianto progettato a Imola, in provincia di Bologna.
Una seconda versione datata 20 febbraio 2007, aggiornata in alcuni aspetti e comprendente in più i dati contenuti nel rapporto 2006 della Cneia, è stata a sua volta consegnata in particolare a ministri e parlamentari così come alle istituzioni europee, col titolo L’inquinamento atmosferico da polveri sospese in Lombardia e pianura Padana: le sue origini e i provvedimenti per dar luogo ad una sua netta riduzione.
Un’analisi aggiuntiva è stata poi realizzata – come aggiornamento dei dati dello studio – dalle medesime due organizzazioni e diffusa dalle stesse in data 15 giugno 2010, col titolo Il permanere dell’inquinamento atmosferico da polveri sospese in Lombardia e pianura Padana malgrado le incombenti sanzioni europee. In questo aggiornamento si mettevano a confronto i dati Inemar della Lombardia disponibili per gli anni 2003, 2005 e 2007, e si notava che tali dati suggerivano che nei quattro anni tra il 2003 e il 2007 fosse avvenuta una riduzione del 10% nelle emissioni lombarde di ossidi di azoto, del 46% in quelle di anidride solforosa e del 23% in quelle di Pm10 primario, mentre apparivano aumentate del 2% quelle di ammoniaca. Nell’insieme, rispetto ai calcoli qui presentati ne conseguiva una riduzione di poco superiore al 10% sia nella formazione di polveri secondarie che in quella di Pm10 totale. In pratica, le riduzioni apparivano collegate a due sole iniziative: un «impegno [...] per migliorare la qualità media dei combustibili in uso» (passando da combustibili che provocavano un maggior rilascio di Pm10 primario e di composti notoriamente tossici ad altri più “puliti” da questi punti di vista) e la «sostituzione di veicoli e impianti ormai datati, e più inquinanti, con veicoli e impianti più moderni e meno inquinanti». Nel complesso, il provvedimento di gran lunga più significativo e più efficace era costituito dalla «riduzione del tenore di zolfo nel gasolio», soprattutto in quello per gli autoveicoli. E nelle conclusioni del documento ci si chiedeva, riguardo ovviamente alla “questione polveri”: «Serviranno le incombenti sanzioni europee a risvegliare da questo irresponsabile “sonno voluto” gli amministratori pubblici della nazione italiana e di gran parte delle Regioni del paese?». A questa domanda i fatti hanno poi risposto molto chiaramente di no.
Nel frattempo, realizzando nella primavera del 2008 una sintesi del documento del 2007 per una rivista locale, ci si rese conto che si poteva presumibilmente migliorare in modo significativo l’affidabilità analitica dello studio utilizzando sistematicamente i coefficienti di de Leeuw al posto di quelli tratti dalla VIA imolese del 2006 (ciò in quanto i risultati matematici ottenuti basandosi interamente su quei coefficienti mostravano una corrispondenza alquanto più profonda e puntuale con le rilevazioni concrete riportate dalla Cneia in quel suo voluminoso rapporto). Ne nacque quindi una terza versione, che è stata realizzata nel 2008 modificando alcuni calcoli matematici e che – peraltro – è rimasta tuttora inedita dal momento che comunque i miglioramenti apportati avevano cambiato non di molto l’essenza dei risultati. La terza versione ha costituito comunque la base di questo intervento, che a tale base ha aggiunto in particolare alcuni ulteriori aggiornamenti ed approfondimenti e una serie di dati e ricerche riguardanti l’Europa e il mondo.
Note
[1] Si tratta di dati tratti da un rapporto pubblicato da tale Agenzia nel 2016 e qui citato più ampiamente in seguito. Pm (o PM) sta per l’espressione inglese particulate matter, cioè “particolato”. Essendo il Pm2,5 più difficile da rilevare e da misurare precisamente del Pm10, tuttora rimane quest’ultimo il dato principale riguardante le polveri nelle reti di monitoraggio e controllo della qualità dell’aria. Ciò non costituisce comunque un problema, dal momento che dove si sono studiati accuratamente Pm10 e Pm2,5 si è comunemente trovato un tipico andamento parallelo dei due dati, di modo che l’uno tende ad essere un indicatore sufficientemente efficace anche per quanto riguarda l’altro. Tuttavia, a seconda delle fonti coinvolte il rapporto tra Pm2,5 e Pm10 tende a diversificarsi, potendo aggirarsi – a seconda dei luoghi e delle attività locali – intorno a percentuali comprese tra il 40% e il 100%. Per avere un’idea più precisa dei valori che questo rapporto tende ad assumere in una data località, è quindi opportuno poter avere almeno qualche rilevazione locale del Pm2,5 nel corso del tempo, così da poter appunto utilizzare il monitoraggio possibilmente quotidiano del Pm10 come verosimile indicatore di massima anche del Pm2,5. Il diretto monitoraggio di quest’ultimo sta comunque diffondendosi nel corso del tempo e in un futuro più o meno prossimo potrebbe dunque prendere il posto del Pm10 come dato principale nel rilevamento e nello studio dell’inquinamento atmosferico da polveri.
[2] Ogni territorio colpito dalle polveri atmosferiche va evidentemente studiato in riferimento alla sua effettiva situazione corrente dal punto di vista ambientale, climatico, produttivo, ecc.. Le presenti valutazioni si applicano pertanto al territorio padano e non ad altri, anche se ovviamente potranno offrire suggerimenti e riferimenti utilizzabili anche altrove.
[3] I diagrammi riassuntivi della Cneia distinguevano anche il carbonio elementare e il particolato secondario organico. Il primo dei due registrava percentuali del 10-15% del Pm10 totale in tutta la pianura padano-veneta e del 5% o anche meno nel resto del paese. Il secondo mostrava sul territorio italiano una percentuale media intorno al 10% (con un minimo intorno al 5% in gran parte della pianura Padana e punte intorno al 15% o poco più in Calabria e Sardegna, ma si trattava di un andamento inverso al dato complessivo del Pm10, evidenziando che la presenza di questo tipo di polveri è in pratica un fatto piuttosto stabile in tutto il paese). Il carbonio elementare è costituito da particelle carboniose emesse direttamente come tali – non in forma di gas – ed è quindi una frazione del Pm primario (e per questo non viene qui preso in esame in modo specifico, ma si rimanda per esso alla trattazione delle polveri primarie). Il particolato secondario organico è invece costituito da polveri secondarie formatesi attraverso reazioni atmosferiche che coinvolgono dei composti organici volatili (Cov), che sono molecole gassose contenenti carbonio. Come si osservava già nel citato studio di de Leeuw, «l’elevato contenuto organico» che si può spesso rilevare nelle «polveri atmosferiche va attribuito in parte a dei Cov di origine biologica [cioè, in pratica, non derivanti da attività umane, N.d.R.] e in parte a delle polveri di tipo organico emesse come parte del particolato primario». Poiché il diretto contributo delle attività umane alle polveri secondarie organiche appare appunto molto basso, solitamente non se ne tiene conto in modo specifico nelle valutazioni sulle polveri atmosferiche e su come ridurle. L’argomento è tuttavia significativo dal punto di vista degli “addetti ai lavori” specialmente perché, nelle misurazioni che si realizzano a partire dal monitoraggio dell’inquinamento atmosferico, il particolato secondario organico va distinto dal carbonio elementare, e ciò tipicamente attraverso delle complesse analisi chimico-fisiche.
[4] Fa sostanzialmente eccezione la percentuale rappresentata dalla quota del Pm10 primario costituita dal Pm2,5 primario, quota che è considerevolmente dissimile nella media dell’UE rispetto alla pianura Padana. L’Agenzia europea per l’ambiente – in un ulteriore e parallelo rapporto realizzato nel 2016 (European Union Emission Inventory Report 1990-2014) – sulla base dei dati Inemar dell’intera UE a 28 paesi ha valutato in 65% il valore di tale quota nel 2014. Nei paesi dell’Unione maggiormente emettitori di Pm2,5 primario, il valore calcolato di questa quota sulla rispettiva scala nazionale era del 61% in Francia, del 72% in Italia, del 58% in Polonia, del 75% in Romania, del 71% in Gran Bretagna, del 47% in Germania e del 56% in Spagna. A confronto, era del 77% nel Benelux e del 66% nel territorio scandinavo interno all’UE (cioè nella coppia di paesi Finlandia-Svezia). In pianura Padana il valore medio appare alquanto superiore a tutti questi valori nazionali o internazionali (situandosi intorno all’80-85%, come si è già visto sulla base dei dati disponibili per tre delle regioni padane). Si tratta peraltro di un dato che riguarda appunto soltanto il particolato primario, il quale costituisce una frazione nettamente minoritaria nell’insieme delle polveri atmosferiche.
[5] Lo studio si è focalizzato sulle polveri sottili (Pm2,5), dato che sempre più queste appaiono essere l’indicatore di gran lunga più efficace riguardo ai danni sanitari del particolato. Per semplicità qui ci si limiterà al termine “polveri” parlando di questo studio, ma è inteso che i suoi dati e le sue stime si riferiscono sempre al Pm2,5.
[6] Tra le aree subcontinentali utilizzate da Qiang Zhang et al. nella loro ricerca, si trovano nell’attuale UE gran parte dell’Europa occidentale e circa una metà dell’Europa orientale, il che dal punto di vista del numero di abitanti corrisponde a una grandissima parte della popolazione dell’Europa occidentale e a poco più della metà della popolazione dell’Europa orientale. Nonostante le cifre enormi sulla “mortalità da polveri” emerse nei tre studi in questione svolti su scala planetaria, le valutazioni su tale mortalità compiute in questi studi appaiono in sintesi un po’ più conservative e “ottimistiche” di quelle dell’Agenzia europea per l’ambiente. Ma non fa una grande differenza una stima intorno alle 300-350.000 morti premature all’anno nell’UE o una di 400-450.000. La sostanza è comunque una tragedia estrema. Può essere utile notare che a queste stime relativamente differenti può aver contribuito l’impiego – da parte dell’Agenzia europea per l’ambiente – di un modello analitico sui rischi per la salute associati alle polveri atmosferiche più complesso e completo di quello utilizzato da Qiang Zhang et al., i quali hanno preso in considerazione solo le quattro cause principali di mortalità associate a tali polveri (cioè le ischemie cardiache e cerebrali, il cancro polmonare e la bronco-polmonite cronica ostruttiva).
[7] I dati sui rilevamenti riscontrati nel 2013 in questi e negli altri paesi dell’UE si trovano nell’analogo rapporto precedente dell’Agenzia europea per l’ambiente: Air Quality in Europe - 2015 Report (EEA, 2015).
[8] Tra i 28 paesi dell’UE, la Grecia nel 2014 non è riuscita ad ottenere per il Pm2,5 un monitoraggio sufficientemente continuativo in nessuna delle sue stazioni di rilevamento. C’era riuscita però nel 2013 in una particolare stazione (come riportava il rapporto 2015 ricordato qui nella nota 7). Possono essere indicativi quindi i dati greci del 2013 presentati nel rapporto in questione: per il Pm2,5 un ampio rispetto del valore-soglia annuo prescritto dall’UE, ma – sia in quella particolare stazione che in quasi tutte le altre del paese – un netto superamento del valore-limite giornaliero prescritto per il Pm10. In pratica, è un’ulteriore conferma della tendenza riscontrata in generale nell’UE.
[9] I punti da a) a c) riguardano gli NOx, da d) a h) sia gli NOx che le polveri primarie, da i) a j) le polveri primarie, da k) a l) l’ammoniaca; i punti seguenti riguardano l’insieme.
[10] Le vicende di riusciti prototipi automobilistici presentati pubblicamente come la Vesta 2 della Renault (del 1987), la Smile realizzata dalla Wenko nel 1996 su incarico dell’associazione ambientalista Greenpeace e la 1-liter Car della Volkswagen (del 2002) mostrano in modo inequivocabile come da decenni siano disponibili tecnologie in grado di ridurre molto ampiamente i consumi di carburante negli autoveicoli senza aumentarne in modo sostanziale i costi di produzione e, d’altro canto, come né le case automobilistiche, né i governi, né istituzioni sovranazionali come l’UE abbiano voluto fare i passi necessari perché venissero messe in atto tali tecnologie. Tutto ciò a dispetto degli enormi vantaggi che una generalizzata diffusione delle tecnologie implicate in questi prototipi avrebbe apportato in termini di minore inquinamento (anche specificamente da NOx e da polveri sospese), di maggiore salute umana e di risparmio sia di risorse che di costi economici. Le uniche che ci hanno guadagnato – e moltissimo, se si considera quanti veicoli circolano sul pianeta – sono le compagnie petrolifere. Non si può che trarne la conclusione che i petrolieri continuino da diversi decenni a pagare profumatamente sottobanco molti manager di case automobilistiche e molti politici pressoché nell’intero mondo perché facciano in modo che quelle tecnologie restino inutilizzate....
[11] Negli ultimi anni, nella politica si è imposto sempre di più l’uso di pretendere dalle società di treni, autobus, metropolitane, ecc. il pareggio di bilancio senza la presenza di contributi pubblici, oppure con una presenza di questi ultimi minore possibile (e sempre più ridotta). Tuttavia, questo approccio ai mezzi pubblici sottovaluta pesantemente – o meglio tende ad ignorare – gli enormi vantaggi che vengono arrecati all’intera popolazione e agli stessi bilanci pubblici da un ampio uso di tali mezzi e da un minore uso dei mezzi privati. Si tratta di vantaggi ambientali (un molto minore inquinamento dell’aria e, per ricaduta, dei terreni e delle acque), sanitari (per il molto minore impatto che ne deriva sulla salute della popolazione), climatici (un minor effetto serra), esistenziali (per il tendenziale miglioramento della qualità della vita, grazie verosimilmente anche ad un minor numero di incidenti stradali, con il loro carico di morti, feriti, danni, ecc.), economici (per i minori costi sanitari, per un minor consumo di carburanti, per il conseguente miglioramento della bilancia commerciale nazionale con l’estero, per minori danni provocati da “eventi climatico-meteorologici” estremi, per un minor effetto degli incidenti e per un minor bisogno di manutenzione delle strade) e in linea di massima territoriali (grazie a un presumibile minor bisogno di strade nuove o più larghe, con un conseguente “risparmio di territorio” a vantaggio di altri possibili usi come ad esempio le colture agricole o forme di rimboschimento).
Dato tutto ciò, un ampio abbassamento del costo dei biglietti rispetto a quello che potrebbe essere considerato il loro “normale prezzo commerciale” (una scelta al fine appunto di incentivare l’uso dei mezzi pubblici) e la parallela disponibilità a fornire mediante questi mezzi un più ampio servizio alla popolazione dovrebbero nel medio termine dare luogo a tutti i vantaggi in questione, giustificando pienamente il fatto che nei bilanci di quelle società una parte consistente dell’importo della voce “biglietti” venga sostituita con dei contributi pubblici. Non facendo questo, non si fa che ottenere di fatto un danneggiamento dell’insieme della popolazione e di diverse altre sezioni dei bilanci pubblici stessi.
Ovviamente, questo approccio – che incentiva l’uso dei mezzi pubblici prevedendo consistenti contributi della pubblica amministrazione a questo fine – non deve diventare una scusa per un’elargizione scriteriata e corrotta di finanziamenti pubblici ad aziende corrotte e mal gestite. Occorre sorvegliare in modo accurato la correttezza e l’efficacia della spesa pubblica. Uno dei mezzi principali per farlo nei paesi – come purtroppo l’Italia – dove il mondo politico non è abituato al senso civico, al senso di responsabilità, alla trasparenza e all’onestà è la democrazia partecipativa: in altre parole, la partecipazione della “società civile” (cioè dei cittadini stessi, dei loro comitati locali e delle loro associazioni) alla vita amministrativa, a fianco delle istituzioni elettive e delle attività delle aziende a partecipazione pubblica.
[12] Sui biglietti a basso prezzo si veda la nota precedente. Spesso il traffico veicolare produce nei centri urbani un inquinamento acustico che va ben oltre i limiti che sarebbero previsti dalle leggi vigenti. Mentre molte giunte cittadine preferiscono cercare di non applicare localmente le leggi sulla prevenzione di tale inquinamento (allo scopo di non infastidire il traffico e di non dover quindi riorganizzare in maniera alternativa l’intera struttura della viabilità, dei parcheggi e dei trasporti pubblici locali), sacrificando in tal modo – sia dal punto di vista dell’inquinamento acustico sia solitamente anche da quello dell’inquinamento dell’aria – gli abitanti delle zone più trafficate, l’attuazione delle leggi in questione può essere in molti casi un modo molto efficace per riuscire a salvaguardare certe zone urbane da una eccessiva tendenza al passaggio locale di veicoli.
[13] Uno dei modi per soddisfare tali limiti maggiormente restrittivi potrebbe essere l’installazione di filtri antiparticolato sui veicoli, ma a questo proposito va sottolineata l’attuale esistenza di filtri antiparticolato (per veicoli a gasolio) che agiscono “sminuzzando” le polveri che i veicoli stanno per emettere, rendendole così ancora più fini, al punto che gli attuali strumenti di misurazione faticano a rilevarle dopo questo “sminuzzamento”. Il fatto però, a quanto pare, è che quest’operazione, non riuscendo a produrre dei gas, si limita semplicemente a produrre delle polveri particolarmente fini, che per la salute risultano ancor più dannose di quelle originarie precedenti allo “sminuzzamento”. Filtri del genere andrebbero decisamente vietati, in quanto non solo non compiono in realtà ciò che col loro nome dichiarano di fare, ma trasformano sostanze già pericolose in sostanze ancor più pericolose. Si tratta dunque di strumenti inequivocabilmente controproducenti. E la legislazione dovrebbe giungere a occuparsi esplicitamente della faccenda.
[14] In questo modo si può unire la salvaguardia dall’inquinamento atmosferico con altre forme di tutela ambientale come in particolare la fondamentale salvaguardia dal rischio idrogeologico.
[15] Essendo purtroppo particolarmente difficile che le élite politiche, anche locali o regionali, prendano ampiamente posizione su queste tematiche in senso efficacemente favorevole ai “cittadini comuni” e che quindi indirizzino solidamente in questa direzione le pubbliche istituzioni, appare particolarmente opportuno per i cittadini stessi interessarsi comunque anche per proprio conto alle tematiche in questione. Tra gli scritti disponibili in lingua italiana, eccone alcuni che possono risultare particolarmente efficaci a questo proposito: da un punto di vista più strettamente medico-epidemiologico, L’invecchiamento, di Alexander Leaf (Le Scienze, settembre 1974), gli estratti dal rapporto ufficiale del National Research Council statunitense Diet, Nutrition and Cancer riproposti nell’articolo Studiano l’alimentazione per prevenire il cancro: un rapporto completo promosso dal governo Usa (AAM Terra Nuova, marzo/aprile 1985), Sani fino a cent’anni, di John Robbins (Corbaccio, 2008), e Stress e risposte immunitarie, di Enzo Ottaviani e Claudio Franceschi (Le Scienze, settembre 1992); da un punto di vista più esistenziale, Intelligenza emotiva, di Daniel Goleman (Rizzoli, 1996), L’arte di ascoltare, di Erich Fromm (Mondadori, 1995), Il buon selvaggio: educare alla non-aggressività, a cura di Ashley Montagu (Elèuthera, 1987), Il piacere è sacro, di Riane Eisler (Frassinelli, 1996, Forum, 2012; titolo originale Sacred Pleasure, cioè semplicemente “Piacere sacro”), Massaggio totale, di Jack Hofer (Red, 1982), e Per una nascita senza violenza, di Frédérick Leboyer (Bompiani, 1975). E da un punto di vista più generalmente ambientale può essere considerato una sorta di pietra miliare il libro Primavera silenziosa, di Rachel Carson (Feltrinelli, 1963), mentre in tempi più recenti possono essere davvero preziosi per cercare di difendere la nostra salute dall’invadenza dei materiali inquinanti il contenuto della Convenzione di Stoccolma del maggio 2001 sulla “sporca dozzina” dell’inquinamento chimico (se ne parla ampiamente ad esempio in Inquinanti organici persistenti, di Pasquale Spezzano, nel numero di settembre-ottobre 2004 della rivista dell’Enea Energia, ambiente e innovazione) e – anche se non in italiano – i ciclici rapporti dell’International Agency for Research on Cancer (IARC) sulla mutagenicità e cancerogenicità di una vasta serie di sostanze chimiche.
[16] Può essere utile rammentare che nell’ultima quindicina d’anni i governi italiani che si sono susseguiti sono stati presieduti da Berlusconi (2001-2006), Prodi (2006-2008), Berlusconi di nuovo (2008-2011), Monti (2011-2013), Letta (2013-2014), Renzi (2014-2016) e Gentiloni (dal dicembre 2016). Nell’UE il potere legislativo si basa su delle forme di collaborazione tra Consiglio, Commissione e Parlamento (forme che peraltro sono cambiate considerevolmente nel corso del tempo), quindi dietro alla formulazione di ogni direttiva ci sono appunto diversi organi istituzionali. Poiché comunque gli equilibri politici della Commissione Europea corrispondono notevolmente a quelli che nel contempo sono in atto nell’insieme delle istituzioni dell’UE, si può qui ricordare che nell’ultima ventina d’anni tale Commissione è stata presieduta da Santer (1995-1999), Prodi (1999-2004), Barroso (2004-2014) e Juncker (dal 2014).
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Postfazione (giugno 2024)
Nel 2017 questo testo rimase leggermente incompleto, prima per l’emergere di altre tematiche sociali, economiche e culturali che in quel momento mi parvero più impellenti per il mio lavoro, e poi anche per dei motivi di salute che ebbero l’effetto esistenziale di spingermi ancor più a concentrarmi su quelle tematiche “più nuove”. A questo “spostamento di interesse” contribuì anche una certa amarezza per la scarsa attenzione mostrata sistematicamente in quegli anni dalla grande maggioranza della popolazione padana per una questione (le polveri atmosferiche) così importante per la salute della popolazione stessa, malgrado l’impegno profuso da vari comitati e associazioni impegnati in campo ambientale nelle varie parti della pianura. Si tratta anche di un argomento molto stressante su cui scrivere, sia per la dolorosità dei dati implicati sia soprattutto per questa diffusa tendenza della gente a una scarsa rispondenza: quest’ultima a sua volta tende a limitare e soffocare la spinta positiva ai miglioramenti concreti che – quando invece tra la gente si trova una corposa e incoraggiante rispondenza – può ampiamente compensare nello scrivere quella dolorosità.
Ora – anche in considerazione di altre cose che sto scrivendo e che hanno a che fare con una serie di problematiche inerenti anche all’ambiente – mi è parso che valesse la pena di riprendere in mano quel testo al punto in cui ero nell’agosto 2017 e sistemarne la seconda metà, che appunto in alcuni punti non era conclusa (così da poterlo rendere disponibile a chi potesse essere interessato alle molte ricerche in esso citate e sintetizzate, che per di più sono anche generalmente non disponibili in italiano). Oltre che a valutare in che ordine disporre le varie parti della seconda metà, i miei interventi di quest’anno sul testo si sono limitati a una breve ed essenziale “risistemazione” delle poche questioni che allora erano state abbozzate ma non completate e a sfrondare qualche punto poco consistente. A proposito di amarezza e di stress, aggiungo soltanto che scrivendo le parti di questa postfazione più analitiche ed economiche (si veda più oltre) mi sono ritrovato a un certo punto a piangere letteralmente di tristezza e di intimo dolore, ma mi è parso il caso di continuare ugualmente.
Ovviamente un pieno aggiornamento di questo testo fino al presente richiederebbe un lavoro piuttosto grosso. Anche per questo mi sembra, per lo meno per il momento e da parte mia, il caso di non avventurarmi in una tale impresa. In futuro – o da parte di altri che potrebbero essere stimolati dalle ricerche condensate in questo scritto – chissà...
Anche quanto messo in luce e argomentato qui nel 2017 appare comunque molto efficace e pertinente ancora oggi [1]. Basti sottolineare che i valori-limite per le polveri atmosferiche deliberati dall’UE nel 2008 – e appunto molto più annacquati di quelli che erano stati approvati in visione prospettica nel 1999 – sono a tutt’oggi ancora totalmente in vigore e che nelle valutazioni sulla mortalità in Europa contenute nell’ultima serie di rapporti dell’Agenzia europea per l’ambiente (EEA) si stima che nell’attuale UE a 27 paesi (nella quale ovviamente non c’è più la Gran Bretagna) si possano attribuire a tali polveri approssimativamente 432.000 morti per quanto riguarda il solo anno 2021, come riporta l’ampia pagina Internet Harm to human health from air pollution in Europe: burden of disease 2023 (pubblicata ufficialmente dalla stessa EEA il 24 novembre 2023 e poi aggiornata in seguito in qualche punto). E, nonostante quell’annacquamento dei valori-limite, le ultime rilevazioni disponibili indicano che nel 2021 e/o nel 2022 li si continua a superare in zone dell’UE molto simili a quelle in cui ciò avveniva nel 2014: praticamente l’intera pianura Padana, alcune aree dell’Italia centro-meridionale, ampie aree di Polonia, Bulgaria, Romania, Slovacchia, Croazia, Grecia e Spagna e qualche località in Lettonia, Malta, Cipro, Ungheria, Repubblica Ceca, Svezia, Francia, Belgio e Portogallo (come è stato riportato nell’altra ampia pagina Internet Europe’s air quality status 2023, pubblicata sempre dall’EEA il 24 aprile 2023 con qualche aggiornamento inserito successivamente). La scarsissima efficacia di quei valori-limite traspare anche dal fatto che la Germania risulta non aver superato quei valori in nessuna delle sue tante stazioni di rilevamento in quel paio d’anni, ma – come l’EEA metteva in rilievo nella pagina del novembre scorso già ricordata – «le cifre assolute più elevate riguardanti le morti attribuibili nel 2021 al Pm2,5 [termine che ormai nell’uso scientifico è diventato sinonimo di “polveri atmosferiche in generale”, N.d.R.] si sono presentate in Polonia, Italia e Germania»: ciò dipende ovviamente anche dalla particolare numerosità della popolazione tedesca (dopo la riunificazione del paese negli scorsi anni ’90), ma la situazione illustra inequivocabilmente la drammatica realtà di valori-limite ufficiali enormemente inadeguati.... Insomma, a dispetto dei frequenti appelli di scienziati, medici e movimenti ambientalisti, il quadro generale della “questione polveri atmosferiche” si è modificato di pochissimo nell’UE durante l’ultimo decennio.... Tra l’altro, l’impressione è che negli ultimi anni la burocrazia dell’UE abbia anche cercato di rendere più complicato e difficile l’accesso dei “non addetti ai lavori” ai dati scientifici sulla qualità dell’aria e sui suoi rapporti con la salute umana.
In conclusione – richiamandosi a quanto si sottolineava nel paragrafo finale del testo del 2017 [2] – continua a non essere minimamente vero che in fondo la tutela dell’economia europea (con i suoi vari aspetti di lavoro, occupazione, reddito, benessere, ecc.) “richieda” questo costante sacrificio di diverse centinaia di migliaia di vite ogni anno: è la tutela degli immediati interessi materiali di alcune ristrettissime élite economiche internazionali che tende pervicacemente a richiederlo.... Purtroppo però gran parte della gente, in Europa e altrove, continua ad essere incline a credere a quello che le raccontano (o non le raccontano, giacché persiste la tendenza dei politici ad evitare il più possibile di parlare pubblicamente di cose come gli effetti sanitari dell’attuale inquinamento atmosferico) i governi di questo periodo, generalmente “imboccati” in modo pesantissimo da tali élite....
Tra l’altro, quest’atteggiamento tendenzialmente passivo e indifferente di gran parte della gente appare a sua volta collegato alle profonde delusioni generate nelle classi popolari durante l’ultima cinquantina d’anni dai vari partiti politici (non solo di destra e di centro, ma anche della cosiddetta sinistra, sempre più incapace di esprimersi in modo complessivamente efficace e costruttivo), al comprensibile desiderio di non stressarsi ulteriormente con complicate e preoccupanti problematiche ambientali e politiche cui i partiti odierni appaiono generalmente incapaci di rispondere congruamente e solidamente e, in modo piuttosto paradossale, alla diffusa tendenza risultante in base alla quale – come notava ad esempio Claudio Cagnazzo in Le strade tortuose della nuova politica (Rocca, 15 aprile 2019) – moltissime persone per quanto riguarda la politica «vogliono semplicemente delegare a qualcuno i singoli problemi, da qualsiasi parte egli stia»....
In altre parole, è estremamente presumibile che non basterà neanche ciò cui si accennava in quel paragrafo finale del testo del 2017, cioè il riuscire a riannodare tra loro sul piano rivendicativo una consapevole sensibilità ambientale ed una sana e umana progettualità economica: come si è messo più recentemente in evidenza ad esempio in Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali [3], occorrerà presumibilmente riannodare a queste due dimensioni della vita sociale anche la dimensione politica, che allo stato attuale è – stabilmente e da tempo – così subalterna ai maggiori poteri economici e/o istituzionali da risultare pressoché ovunque del tutto incapace di un rapporto effettivo con la profonda e intima aspirazione popolare ad una fiorente e creativa “qualità della vita quotidiana” e con tutto ciò che è connesso a tale aspirazione, inclusa la salubrità dell’ambiente in cui viviamo.
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il traffico aereo è incluso generalmente - a seconda delle fonti qui citate - nelle "fonti mobili diverse dai trasporti stradali" o nei "trasporti non stradali". Ovviamente fa anche parte in generale delle attività basate sulla combustione e degli usi dei combustibili fossili. Ma quello che forse è il motivo principale della difficoltà di focalizzarsi localmente sull'inquinamento provocato dai trasporti aerei l'hanno messo in evidenza p.es. Qiang Zhang et al., che nel loro lavoro hanno osservato che solo il 73% circa delle 3.450.000 morti da essi attribuite all'inquinamento da polveri atmosferiche poteva essere associato ad attività produttive aventi luogo in qualche specifica regione, mentre la parte restante (il 27%) risultava associabile ai trasporti marittimi e aerei internazionali, che sono difficilmente assegnabili a una particolare regione, o a fonti di tipo naturale non collegate direttamente ai consumi (fonti come le emissioni derivanti da flora o fauna selvatiche, gli incendi campestri o forestali e le polveri di tipo minerale, le quali - posso aggiungere - mi pare che possano derivare soprattutto da delle eruzioni vulcaniche o dall'erosione di aree non coltivate). In tal modo, se si studia l'inquinamento riguardante regioni specifiche (e non tutto il pianeta come un unico insieme), un'ampia parte del traffico aereo (quella cioè che travalica i confini delle particolari regioni che si stanno studiando) diviene qualcosa di piuttosto sfuggente e difficilmente quantificabile con precisione... Almeno così mi pare che possa essere. In altre parole, non penso che gli scienziati che stanno lavorando su questa ruvidissima tematica concedano un privilegio particolare ai trasporti aerei. Del resto, a tendenziale conferma di questo, i trasporti marittimi sono generalmente ancor meno identificati come categoria particolare in questi studi: come dire che la difficoltà appare stare proprio nell'aspetto internazionale di molti trasporti per via aerea o per via d'acqua, ben più che in una sottomissione culturale alle élite che viaggiano spesso in aereo.
E poi aggiungerei che il vero e tremendo "grande assente" continua ad essere la politica, che - di fronte a questi diversi milioni di morti premature ogni anno - fa sistematicamente orecchie da mercante e guarda da tutt'altre parti, e questo praticamente in tutto il mondo: nell'Occidente caratterizzato dalla "democrazia rappresentativa", nei regimi del cosiddetto "socialismo reale", nei regimi pseudo-islamici, nella Russia putiniana che rivendica la sua diversità culturale dall'Occidente e che infatti si permette di invadere i suoi "vicini di casa" ucraini come se fosse un'impresa sportiva di cui vantarsi (cosa che appunto in Occidente, per fortuna, si è finalmente smesso sostanzialmente di fare), ecc.. Dovunque, le élite politiche fingono di interessarsi profondamente della vita delle classi popolari, ma in realtà ascoltano soprattutto ben altre voci: le proprie e/o quelle delle lobby più ricche... In breve, tutto questo mette in evidenza che - per il popolo (comunque lo si voglia chiamare: "popolazione comune", "cittadini comuni", "classi lavoratrici", "classi popolari", o che altro) - delegare a lungo ai politici gli aspetti essenziali della politica è uno degli errori più colossali che si possano fare nella vita sociale, qualsiasi sia la forma di governo del proprio paese in quel momento storico...