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il rasoio di occam

Le insidie della felicità. Note su “Storia economica della felicità”

di Nicolò Bellanca

In Storia economica della felicità (il Mulino, 2017), Emanuele Felice ha ricostruito la storia attraverso cui si è venuta creando una frattura fra sviluppo economico e felicità, progresso economico e dimensione etica. Ma che cosa è la felicità e come la si può conseguire attraverso la politica?

felicità12Molti di noi, fin dai banchi di scuola, sono stati affascinati dalle letture di storia per gli interrogativi di fondo che esse evocano, raccontano e talvolta provano a spiegare: cosa distingue l’Homo sapiens dagli altri animali? Perché l’Occidente ha dominato il mondo nel corso degli ultimi secoli? Quali sono le determinanti profonde di grandi cambiamenti come la Rivoluzione agricola o quella industriale? Perché una collettività ha successo o declina? Le disuguaglianze erano maggiori una volta, oppure lo sono adesso? La storia ha una direzione? Le persone sono diventate più collaborative, più etiche, più felici con il trascorrere del tempo?

Negli anni recenti, simili questioni sono state affrontate da importanti scienziati sociali. Mi limito a ricordare tre libri che hanno suscitato estesi dibattiti; volutamente, menziono gli slogan riassuntivi mediante cui queste opere complesse vengono, di solito, ricordate. I destini delle società umane è il sottotitolo originale del libro nel quale Jared Diamond sostiene che la geografia fisica, in definitiva, spiega l’evoluzione culturale e la crescita economica di alcuni popoli rispetto agli altri.[1] Breve storia dell’umanità è il titolo originario del libro di Yuval Harari, nel quale si enfatizza l’abilità, specificamente umana, d’immaginare simboli, come la moneta o lo Stato, che esistono soltanto intersoggettivamente, ma che consentono la cooperazione tra estranei: tu ed io non ci conosciamo, ma accettiamo di scambiare con la stessa moneta o di obbedire alle stesse leggi.[2] Infine, Daron Acemoglu e James Robinson affermano, in un libro sottotitolato Le origini del potere, della prosperità e della povertà, che il successo delle collettività umane dipende dal carattere inclusivo delle loro istituzioni politiche ed economiche, dove per “inclusività” intendono la capacità di rispettare la libertà e i diritti delle persone.[3]

Nel solco di queste opere si colloca Storia economica della felicità, di Emanuele Felice: un tentativo ambizioso e brillante, da parte di uno studioso preparato e di grande talento, di offrire un’ulteriore chiave di lettura dell’intero percorso della civilizzazione.[4] Il libro «racconta in chiave storica la relazione fra sviluppo economico e felicità» (p.9). Qui non lo riassumo, limitandomi a consigliarne la lettura. Per ragioni di spazio, mi dedico unicamente a discuterne l’impianto concettuale e le tesi conclusive. Procedo schematicamente.

Primo punto: a parere dell’autore, la felicità è la «stella polare che orienta l’intenzionalità degli agenti» (p.23), «il fine che orienta le azioni umane» (p.30), l’«ideale ultimo del nostro agire» (p.341) e quindi «un metro di valutazione della plurimillenaria vicenda umana» (p.19). Non è banale connotare la felicità in termini di finalità. L’autore sottolinea l’esigenza dei Sapiens di conferire senso alla loro vita. Ma cercare un significato e inseguire un fine, sono operazioni diverse. Per dirla con Weber, «siamo esseri culturali, dotati della capacità e della volontà di assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di attribuirgli un senso».[5] Se non gettiamo reti di significati sugli eventi, gli stimoli percettivi rimangono dati sensibili indifferenti e muti. Ne segue che un requisito fondamentale della condizione umana è la ricerca senza fine del significato. Non possiamo fare a meno di produrre significati nemmeno se lo vogliamo.[6] In un famoso esperimento, il computer è programmato per generare sequenze casuali di simboli “0” oppure “1”, e ai partecipanti si chiede di prevedere quale simbolo apparirà la volta prossima: ogni persona, per formulare le proprie congetture, interpreta la sequenza come se presentasse qualche schema regolare.[7] La mente umana traccia collegamenti tra eventi in modo da cogliere strutture organizzate che ne orientino il futuro comportamento, anche dove non esiste alcun ordine.[8] Tuttavia, “colorare” interpretativamente il mondo non equivale a orientare i nostri comportamenti sulla base di uno o più fini: scorgere un ordine dove regna il caso, ad esempio, non equivale a stabilire che dobbiamo assoggettarci a quell’ordine.

Perché importa rimarcare, come ho appena fatto, la distinzione tra significati e fini? Perché gli studiosi che attribuiscono ai Sapiens un dominante intento teleologico, spesso finiscono per caratterizzare i Sapiens come “animali etici”, bisognevoli di essere orientati da valori e da ideali. Al contrario, quelli che si concentrano sui Sapiens come “animali ermeneutici”, tendono a indagarne i comportamenti in modi laicamente disincantati: come nota Ernest Hemingway, «è morale quello che ti appare buono dopo che lo hai fatto, mentre è immorale quello che ti sembra cattivo dopo che lo hai fatto».[9]

Secondo punto: per l’autore, «la felicità consiste nella capacità di coltivare una vita libera, fondata sulla qualità delle relazioni umane che contribuiscono a orientarla» (pp.306-07). Oggi, nelle scienze sociali, vi sono due accezioni prevalenti di felicità: l’una si focalizza sulle esperienze positive in quanto tali; l’altra afferma che la felicità autentica va trovata nell’autorealizzazione, in conformità al proprio vero sé. Chiamiamo felicità-soddisfazione l’una, e felicità virtuosa l’altra. I sostenitori della felicità virtuosa argomentano di solito che la loro felicità è qualitativamente superiore, che è l’unica sostenibile nell’arco intero della vita e che è l’unica in grado di creare benefici collettivi. Tuttavia, questo confronto è poco pertinente, poiché la felicità virtuosa può avere nulla a che fare con la felicità-soddisfazione: in un celebre esempio, risalente a Stuart Mill, Socrate è più saggio-virtuoso di un maiale, ma la sua maggiore consapevolezza può ridurne la soddisfazione, facendolo stare peggio dell’altro; e questo può valere anche per l’(in)soddisfazione di lungo periodo.[10] Dunque, semplicemente, tra perseguimento della soddisfazione e ricerca delle virtù può non esservi nesso. Azioni poco virtuose possono suscitare felicità-soddisfazione, sia immediata che durevole. Lo osserva Frank Abagnale, protagonista del film di Steven Spielberg Prova a prendermi, a proposito della sua prima truffa: «Ero inebriato di felicità. Dal momento che non avevo ancora assaggiato l’alcool, non ho potuto paragonare quel sentimento a un bicchiere di champagne, ma, anche così, è stata la sensazione più piacevole che abbia mai provato».

In apparenza, la definizione sopra riportata dell’autore si presenta così ampia e duttile da essere inattaccabile. Chi obietta alla libertà, positiva e negativa? Chi alla centralità delle relazioni interpersonali di reciprocità? Eppure, i dubbi sorgono non appena consideriamo l’orientamento della vita, ovvero il fine, menzionato nella definizione. Cosa vuol dire che la felicità è il nostro fine ultimo? Segnala che, tendendo alla felicità, “fioriamo”, ossia ci autorealizziamo. Siamo indubbiamente dalla parte dell’accezione della felicità virtuosa. Ma perché entrano in scena le virtù? Per evitare la tautologia (la felicità mi realizza, ma tutto ciò che mi realizza, mi rende felice); e, allo stesso tempo, per evitare lo scandalo di tesi come quella, appena citata, di Frank Abagnale: che ci si possa autorealizzare – in modi che i virtuosi, ovviamente, condannano – coltivando rapporti di comando e di odio verso gli altri, attizzando la gelosia propria e altrui, esasperando il narcisismo o accumulando “roba” che nemmeno si riesce a usare.[11] Piaccia o meno, sarebbe possibile scrivere una storia dei Sapiens, parallela a quella narrata nel libro di Felice, nella quale la ricerca della felicità sia rimpiazzata da quella del potere o da quella del riconoscimento sociale. Sarebbe, probabilmente, una storia non meno rilevante, e riguarderebbe anch’essa la felicità, sebbene la felicità-soddisfazione. L’autore non accetta questa possibilità, stabilendo che la felicità-soddisfazione possa essere sussunta alla felicità virtuosa: «che quest’ultima possa servire a dare compimento e significato alla prima» (p.311).[12]

Terzo punto: per l’autore, l’epoca attuale è connotata dal sorgere congiunto di quattro condizioni: «uguaglianza giuridica, attenzione al sapere pratico, idealizzazione dell’arricchimento individuale e diritto alla felicità» (pp.139-40). Tali condizioni costituiscono «un nuovo paradigma, incardinato nel mondo industriale, proprio dell’ordine liberal-democratico a tutt’oggi prevalente» (p.194). Se dunque l’ordine sociale moderno si forma tenendo insieme le quattro coordinate liberal-democratiche (p.140), e se la ricerca della felicità è una di esse, appare arduo comprendere le ragioni dell’«abisso fra progresso scientifico e dimensione etica, fra sviluppo economico e felicità» (p.180). Infatti, quando le quattro condizioni si uniscono sinergicamente, ciascuna di esse dovrebbe essere valorizzata e il diritto alla felicità, che qui c’interessa, dovrebbe essere esaltato. Perché non succede? Dove sta la radice dell’infelicità dell’uomo contemporaneo? L’autore risponde descrivendo il dilagare dell’individualismo e il contrarsi dei rapporti interpersonali basati sulla reciprocità. D’accordo, ma a sua volta perché accade? Al riguardo, anche se vintage, a mio parere nessuna analisi eguaglia quella di Marx. Nel capitalismo qualsiasi azione è mediata dal mercato, i beni vengono considerati non per ciò che sono (valore d’uso), ma per quello che valgono (valore di scambio). Si realizza così il conferimento alle relazioni tra persone degli attributi tipici delle relazioni tra cose (“reificazione”), oppure alle relazioni tra cose degli attributi tipici delle relazioni tra persone (“feticismo”). L’estraniazione dei rapporti intersoggettivi comporta che la realtà sociale abbia due livelli. Quello fenomenico corrisponde al denso spessore dell’alienazione, mentre quello strutturale realizza le più profonde asimmetrie di potere. Gli agenti sociali sono “infelici” non per il diffondersi di qualche ideologia inadeguata, o per avere smarrito qualche “retta via” (l’economia civile, p.296), bensì perché hanno coscienza immediata soltanto del primo livello, essendo così incapaci di governare la realtà in cui sono immersi. Questa analisi apre a una prospettiva d’intervento che è politica, non etica. Nelle parole di Claudio Napoleoni, «non si tratta di uscire dal capitalismo per entrare in un’altra cosa, ma di allargare nella massima misura possibile la differenza tra società e capitalismo, di allargare cioè la zona di non identificazione dell’uomo con la soggettività capovolta».[13]

Quarto punto: secondo l’autore, «l’ambizione sarà sostituire, nel paradigma dominante, all’esaltazione dell’arricchimento personale la valorizzazione delle relazioni umane: è la “rivoluzione etica”» (p.290). In termini sostanzialmente ottimistici, egli suggerisce che stiamo assistendo ad una «trasformazione nell’etica e nella visione del mondo» (p.9) volta a «ricongiungere etica e economia» (p.341).[14] Forse. Ma, ammesso che stia accadendo, perché i Sapiens assumono disposizioni più gentili, tra loro e nei riguardi di tutti gli esseri senzienti? L’autore risponde che i Sapiens reagiscono accorgendosi di essere infelici: è la loro crescente autoconsapevolezza di specie e ecologica che apre alla speranza. Si tratta nondimeno di un fondamento piuttosto labile e astratto, di fronte alle ricerche secondo cui i Sapiens sono altruisti per il 10 per cento e autointeressati per il 90.[15]

Una spiegazione che mi sembra più solida prescinde, anche stavolta, dall’etica. Essa riguarda le passioni. Non ho lo spazio per svolgere il tema. Accenno soltanto questo: le passioni sono incontrollabili ed esagerate. Se e finché i Sapiens nutrono passioni, nessun meccanismo di estraneazione, come quello analizzato e criticato da Marx, può cancellare il mondo della vita a vantaggio dei mercati. La speranza politica sta nei comportamenti appassionati: sia quelli che assecondano le virtù, comunque qualificate, sia tutti gli altri; sia quelli eticamente virtuosi, sia tutti gli altri. La ribellione non accetta regole. È la politica, casomai, a progettare e dirigere il flusso delle passioni, quando esso frantuma lo status quo.[16]

Lo spazio è finito, mi fermo qui. La quantità di stimoli provocati dal libro di Emanuele Felice ne segnala l’importanza. Il dibattito è appena cominciato.


NOTE
[1] Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino, 1997. Un documentario che illustra le tesi dell’autore in https://www.youtube.com/watch?v=dgGw8kZn...
[2] Yuval Noah Harari, Sapiens. Da animali a dei: breve storia dell’umanità (2011), Bompiani, Milano, 2015. Una vivace videoesposizione in https://www.ted.com/talks/yuval_noah_har...
[3] Daron Acemoglu e James A. Robinson, Perché le nazioni falliscono: alle origini di potenza, prosperità e povertà (2012), Il Saggiatore, Milano, 2013. Il libro in 5 minuti: https://www.youtube.com/watch?v=2z5RAZlv...
[4] Emanuele Felice, Storia economica della felicità, Il Mulino, Bologna, 2017. D’ora in avanti, quando indicherò un numero di pagina tra parentesi, esso si riferirà sempre al libro di Felice.
[5] Max Weber, “L’ ‘oggettività’ conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale” (1904), in Id., Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 1958, p.96.
[6] Vedi Steven J. Heine, Travis Proulx & Kathleen D. Vohs, “The meaning maintenance model: on the coherence of social motivations”, Personality and social psychology review, 10, 2006, pp.88-110; Travis Proulx & Michael Inzlicht, “The five “A”’s of meaning maintenance: finding meaning in the theory of sense-making”, Psychological inquiry, 23, 2012, pp.317-335.
[7] Vedi Julian Feldman, “Simulation of behavior in the binary choice experiment”, in Edward A. Feigenbaum & Julian Feldman (eds.), Computers and thought, New York, McGraw-Hill, 1963, pp.329-346.
[8] Vedi Matteo Motterlini, Trappole mentali, Milano, Rizzoli, 2008, pp.57-62.
[9] Questa citazione, così come quella successiva di Frank Abagnale, è riportata in Nicole E. Ruedy, Celia Moore, Francesca Gino & Maurice E. Schweitzer, “The Cheater’s High: The Unexpected Affective Benefits of Unethical Behavior”, Journal of Personality and Social Psychology, 105(4), 2013, pp.531–548.
[10] Vedi Sarah J. Ward & Laura A. King, “Socrates’ Dissatisfaction, a Happiness Arms Race, and the Trouble with Eudaimonic Well-Being”, in Joar Vittersø (Ed.), Handbook of Eudaimonic Well-Being, Springer, Switzerland, 2016, pp.523-529.
[11] Frances Stewart, “Against Happiness: A Critical Appraisal of the Use of Measures of Happiness for Evaluating Progress in Development”, Journal of Human Development and Capabilities, 15(4), 2014, p.296.
[12] Non appare dunque convincente la tesi che l’autore enuncia poco prima nel libro, secondo cui la felicità-soddisfazione e quella virtuosa vanno fuse, senza sacrificare la prima (pp.308-10).
[13] Claudio Napoleoni, “Critica ai critici” (1986), poi in Id., Dalla scienza all’utopia, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, pp.215-16.
[14] Per un verso, l’autore sostiene che i tentativi recenti di fondare un’etica immanente sono tutti sfociati in idolatrie, e che, «illusione per illusione, verrebbe da dire, meglio quella della religione» (p.301). Per l’altro verso, esalta l’etica atea di Denis Diderot (p.302) e ammette che «paesi oggi largamente atei come il Giappone e l’Olanda – e a volte anche spiccatamente multiculturali – si rivelano fra i più pacifici al mondo; e molto meno violenti delle società religiose del passato» (p.338). Sulle pagine di questa rivista, è facile trovare argomenti a favore del secondo versante.
[15] Vedi Jonathan Haidt, Menti tribali (2012), Codice, Torino, 2013, Parte III. La metafora usata da Haidt è: «siamo per il 90 per cento scimpanzé e per il 10 per cento api». La tesi racchiusa in questa metafora è ampiamente condivisa oggi nella comunità degli psicologi sperimentali.
[16] Rimando su questo a Nicolò Bellanca, Isocrazia. Le istituzioni dell’eguaglianza, Castelvecchi/Micromega, Roma, 2016, capitolo IV. Nell’ambito della recente letteratura sulle passioni, richiamo due tra i testi più importanti, per l’approccio adesso suggerito: Jesse J. Prinz, Gut reactions. A perceptual theory of emotion, Oxford University Press, Oxford, 2004; Robert J. Vallerand, The psychology of passion. A dualistic model, Oxford University Press, Oxford, 2015.

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