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consecutiorerum

Teleologie senza Spirito?

Sui deficit politici della filosofia della storia di Honneth

di Marco Solinas*

14 300x300Riagganciare direttamente la dimensione morale alle dinamiche delle lotte sociali, e viceversa, superando così l’economicismo imperante in larga parte della tradizione filosofico-politica di orientamento socialista, per poi spingersi verso l’adozione di una prospettiva immanentista sempre più radicale nella quale la normatività viene interamente ricostruita dalla dinamica del progresso storico: sono questi alcuni dei tratti di fondo che caratterizzano lo sviluppo del progetto teorico complessivo di Axel Honneth, dalla sua nascita a oggi. Un progetto il cui cuore pulsante è rappresentato dalla attualizzazione della concezione etica della lotta per il riconoscimento di Hegel, interpretata quale motore morale delle lotte sociali, e quindi del progresso storico.

Il baricentro della nuova teoria critica è stato così rispostato su un asse neo-hegeliano. Se infatti già Habermas aveva ripreso la teoria del riconoscimento del giovane Hegel per conferire un fondamento intersoggettivista alla sua reinterpretazione dell’imperativo categorico in chiave di agire comunicativo, l’immanentismo di Honneth punta a bypassare completamente quel costruttivismo kantiano volto a fondare la moralità su procedure formali. Riprendendo la concezione hegeliana della Sittlichkeit quale dimensione che ingloba, superandola, la Moralität, Honneth ritiene infatti di poter dedurre, o meglio ricostruire in modo immanente i criteri per valutare la correttezza e legittimità della dimensione normativa dallo sviluppo storico. La normatività viene così ri-ancorata o meglio calata direttamente e interamente nel flusso del divenire storico. Non si tratta, quindi, di limitarsi all’invero già ambizioso obiettivo di ricostruire la dimensione morale che anima dall’interno la nascita e lo sviluppo delle lotte sociali riconducibili al framework del riconoscimento, superando il quadro economicista fondato sulla categoria di interesse, come Honneth si sforzava di mostrare in Lotta per il riconoscimento, con un andamento per diversi aspetti affine a quello gramsciano[1].

Oltre a questo, ora si tratta anche di ricostruire retrospettivamente l’intero percorso che ha condotto allo sviluppo della dimensione normativa in quanto tale, nelle sue principali articolazioni nelle differenti sfere sociali, adottando in modo sistematico un approccio definito nei termini di ricostruzione normativa – come avviene ne Il diritto della libertà.

Guardando dall’alto questo cammino, emerge allora una condivisione sempre più ampia e ramificata della concezione della normatività di Hegel, e uno speculare e sempre più marcato allontanamento dal kantismo costruttivista di Habermas, tale nel contempo da rovesciare infine radicalmente la priorità conferita al giusto (morale) rispetto al bene (etico). Il normativismo degli ultimi lavori di Honneth si spinge del resto ben oltre la ripresa e l’attualizzazione delle frammentarie intuizioni del periodo jenese di Hegel inerenti alla lotta per il riconoscimento. Se infatti in Lotta per il riconoscimento (Honneth 1992) tali intuizioni venivano riprese criticamente e attualizzate nel quadro di «una teoria sociale normativa, senza con questo voler formulare una teoria normativa delle istituzioni» (Honneth 2002, 84), ora Honneth mira al contrario a fornire una teoria anche in questo secondo senso, spingendosi così ben oltre il pensiero del giovane Hegel: oltre quella «profonda cesura» che aveva individuato nel definitivo prevalere della filosofia della coscienza sancito dalla Fenomenologia dello spirito (Honneth 2002, 77-79). A partire da Il dolore dell’indeterminato (Honneth 2001), e poi soprattutto ne Il diritto della libertà (Honnet 2011), il testo di riferimento per il rilancio sistematico della procedura della «ricostruzione normativa» diviene la Filosofia del diritto.

In breve, si assiste a una radicalizzazione della svolta neo-hegeliana impressa alla nuova teoria critica, che ruota in larga parte sulla strategia immanentista adottata per mezzo della procedura della ricostruzione normativa e sul rilancio della critica immanente. Ed è precisamente questa opzione immanentista a rappresentare uno degli assi portanti della cosiddetta «nuova generazione» della teoria critica tedesca, come si evince chiaramente dai lavori, tra gli altri, di Rahel Jaeggi, Robin Celikates e Titus Stahl (Jaeggi 2013; 2016; Celikates 2009; Jaeggi, Celikates 2018; Stahl 2013). Lavori che si sono infatti concentrati, muovendo da più fronti, sul tema della critica immanente, cercando di far fronte a una serie di difficoltà teoriche correlate al rapporto tra le pratiche sociali nella loro dimensione storica e i criteri di una critica emancipatoria, ad iniziare dal rischio di adottare una postura schiacciata sull’esistente – nonché di depotenziare la questione del posizionamento politico del critico sociale[2]. La strategia immanentista, in altri termini, si espone costitutivamente a quel rischio che Habermas, nelle sue Erläuterungen zur Diskursethik, definiva nei termini «di una dissoluzione storicistica della moralità nella Sittlichkeit (einer historischen Auflösung von Moralität in Sittlichkeit)» (Habermas 1988, 103). Sovrapponendosi perfettamente al divenire storico, la dimensione normativa può infatti risolversi in una mera registrazione dell’esistente o, ancor peggio, fornirne una legittimazione; come recitano del resto le obiezioni rivolte alla Filosofia del diritto e più in generale alla filosofia politica di Hegel fin dai tempi del giovane Marx.

Certo Honneth è perfettamente consapevole di tale rischio. La sua risposta, in negativo, rovescia l’obiezione: anche Habermas (e Rawls) postulerebbero una «congruenza» di base tra principi normativi fondativi e sviluppo storico (Honneth 2011; 2014). Tuttavia, si potrebbe fin d’ora sottolineare che tale congruenza non viene certo delineata da Habermas nei termini di una ripresa dell’immanentismo hegeliano. Anche il suo pregresso rilancio del «progetto incompiuto della modernità», del resto, veniva delineato originariamente nel quadro di una contrapposizione politico-culturale tra chi intende restare fedele alle istanze emancipatorie dell’Illuminismo, e chi invece predilige opzioni conservatrici di vario tipo (Habermas 1980). Honneth, viceversa, sembra di fatto abbandonare questo piano politico-culturale per lasciarsi guidare da una concezione della storia teleologica in senso stretto – come cercherò di mostrare in questo contributo. Egli infatti sembra presupporre uno sviluppo progressivo e più o meno continuo della dimensione morale e istituzionale della normatività verso obiettivi determinati: rilanciando il modello hegeliano, del resto, Honneth reintroduce dichiaratamente nel suo framework immanentista un «elemento di pensiero storico-teleologico», una «teleologia della storia» in senso stretto (Honneth 2011, XXXIX). Sebbene debba ora essere scorporata dall’impianto metafisico del divenire dello spirito assoluto che aveva originariamente in Hegel, tale teleologia mi pare nondimeno comportare una serie di problemi teorici difficilmente risolvibili, sia sul piano della concezione della storia adottata, sia rispetto alla capacità di lettura (e fruizione) politica delle dinamiche sociali da parte della nuova teoria critica.

La prospettiva storico-teleologica neo-hegeliana implica in primo luogo una radicale e sistematica marginalizzazione del carattere contingente degli eventi storici; in tal senso il modello neo-hegeliano viene a rappresentare una versione pressoché perfettamente speculare alla genealogia di Foucault, giocata sulla valorizzazione del contingente (Foucault 1971). Marginalizzando questa sfera, la filosofia della storia adottata non può però non incontrare gravi difficoltà nel cogliere e tematizzare tutti quei processi che si presentano come una negazione del cammino teleologico-progressivo di una normatività della quale vengono poste aprioristicamente le forme, seppur astratte e contenutisticamente relativamente indeterminate, degli obiettivi ultimi. In altri termini, la teleologia neo-hegeliana sembra non riuscire a render conto, e persino a essere talvolta contraddetta e falsificata da quella moltitudine di processi che possiamo definire come regressivi. Intendendo con ciò quelle dinamiche che rappresentano l’approdo a forme politiche, sociali e culturali che favoriscono il ritorno a forme di dominio, di violenza e di sfruttamento tali da ledere più o meno apertamente quei principi universali di libertà e uguaglianza dei quali la ricostruzione normativa vorrebbe mostrare lo sviluppo progressivo.

Anche a causa di tale deficit, il modello storico-teleologico neo-hegeliano viene a ridurre ulteriormente lo spazio concesso al politico, nel senso dei conflitti aperti, plurali e appunto non predeterminati delle lotte sociali. Uno spazio che risultava peraltro già piuttosto stretto nel framework della nuova teoria critica, anche in relazione alla questione della presa di posizione del critico, bypassata dal tema della dimensione immanente dei criteri della critica. Si viene così a generare un effetto generale di scollamento della ricostruzione normativa rispetto all’analisi storico-sociale, e della critica immanente dal tema della presa di posizione politica. Effetto che però contrasta con l’intento di fondo di una teoria critica che mira a ricucire lo strappo tra normatività e analisi sociale. Da questo punto di vista, la radicalizzazione della svolta neo-hegeliana mi pare acuire e amplificare una sorta di deficit originario del progetto varato da Honneth, riconducibile tra gli altri elementi alla ripresa dell’eredità della teleologia hegeliana. Già in Lotta per il riconoscimento l’attualizzazione del framework hegeliano delle lotte per il riconoscimento poggiava infatti sulla ripresa di uno schema teleologico in senso stretto, che concedeva a sua volta spazi assai ristretti alla dimensione dell’analisi dei processi regressivi e più in generale alla fera etico-politica. Ed è su tale schema teleologico che vorrei ora soffermarmi, insistendo sul ruolo unilaterale accordato alle esperienze morali dello spregio, per poi ritornare da ultimo sulla teleologia della storia propria della ricostruzione normativa.

 

1. Lo schema teleologico delle lotte per il riconoscimento

«In questo libro, che riprende la mia tesi di abilitazione, intendo sviluppare i fondamenti di una teoria sociale normativa a partire dal modello concettuale hegeliano di una ‘lotta per il riconoscimento’»; un modello desumibile dagli «scritti jenesi di Hegel», sebbene «lo sguardo retrospettivo sul modello teorico del giovane Hegel rivela che le sue riflessioni devono una parte della loro validità a presupposti idealistici non più mantenibili nelle condizioni del pensiero post-metafisico», sì che diviene necessario «dare all’idea hegeliana una valenza empirica» (Honneth 2002, 9). Fin dalla prima pagina di Lotta per il riconoscimento, Honneth delinea in questo modo chiaramente obiettivi e metodi della sua attualizzazione della teoria del riconoscimento del giovane Hegel.

Uno dei pregi di questa operazione complessiva su cui più insiste Honneth è rappresentato dalla possibilità di superare quegli approcci alla normatività fondati sull’adozione di strategie costruttive, proceduralistiche e de-storicizzate, come nei casi emblematici di Habermas e Rawls, grazie a un ancoraggio alla dimensione storica: grazie all’attualizzazione del modello hegeliano «diventerà possibile gettare uno sguardo sul significato storico di esperienze di spregio che possono essere generalizzate fino a far emergere la logica morale dei conflitti sociali. Dal momento che solo chiarendo il suo riferimento normativo un simile modello può essere assunto come quadro per un’interpretazione critica di processi di sviluppo storico (für geschichtliche Entwicklungsprozesse)». Un piano, questo della storia, grazie al quale Hegel sarebbe appunto riuscito a «togliere all’idea kantiana dell’autonomia individuale il carattere di una semplice esigenza normativa, presentandola sul piano teorico come un elemento della realtà sociale già operante nella storia (als ein historisch bereits wirksames Element der sozialen Wirklichkeit)» (Honneth 2002, 15). La ripresa di questa visione storica deve però affrontare di petto la teleologia metafisica di Hegel; teleologia che Honneth, in un brano particolarmente significativo, espone nei termini seguenti: 

L’esistenza di vincoli intersoggettivi è già presupposta come una condizione quasi naturale di ogni processo di socializzazione; il processo che Hegel deve poter spiegare non è quindi rappresentato dalla genesi dei meccanismi costitutivi della comunità, ma dalla trasformazione ed estensione (Umbildung und Erweiterung) delle forme originarie di comunità organizzata in più ampi rapporti di interazione sociale. Anche nella risposta alla questione qui sollevata Hegel si riallaccia in un primo momento all’ontologia di Aristotele (greift Hegel zunächst wieder auf die aristotelische Ontologie); da essa ricava l’idea secondo cui il percorso che si tratta di determinare deve presentarsi come un processo teleologico attraverso il quale una sostanza originaria giunge progressivamente a dispiegarsi (zu bestimmende Vorgang die Gestalt eines teleologischen Prozesses besitzen muß, durch den eine ursprüngliche Substanz schrittweise zur Erfahrung gelangt). Nello stesso tempo, però, egli sottolinea con tanta decisione il carattere negativo, conflittuale di questo processo teleologico (den negativen, konfliktuösen Charakter dieses teleologischen Prozesses) da far presentire l’idea di fondo che negli anni successivi verrà elaborando in sempre nuovi progetti con l’aiuto del concetto di riconoscimento. Hegel cerca di capire il percorso lungo il quale ‘la natura etica perviene al suo vero diritto’ come un processo di ripetute negazioni che con il loro succedersi permettono ai rapporti etici della società di liberarsi progressivamente dalle unilateralità e dai particolarismi ancora sussistenti: è l’ ‘esistenza delle differenze’, come egli dice, a far emergere l’eticità dallo stadio naturale iniziale e a condurre infine, attraverso reintegrazioni successive di un equilibrio alterato, all’unità di universale e particolare. In positivo ciò significa che la storia dello spirito umano viene concepita come un processo di universalizzazione conflittuale di potenziali ‘morali’ già insiti nell’eticità naturale come alcunché di ‘avviluppato e non spiegato’ (Eingehülltes und Unentfaltetes); nel medesimo contesto Hegel parla del ‘divenire dell’eticità’ come di una ‘progressiva soppressione del negativo, in quanto soggettività’ (fortgehenden Aufheben des Negativen oder Subjektiven). (Honneth 2002, 25)

Posta una tale struttura teleologica in senso pieno e forte, Honneth esplicita a chiare lettere che per attualizzare il modello hegeliano bisogna abbandonare la «presupposizione idealistica» di Hegel «secondo cui la dinamica conflittuale da analizzare è determinata da un corso oggettivo della ragione che sviluppa o – aristotelicamente – la natura comunitaria dell’uomo o – coscienzialmente – l’autorelazione dello spirito» (Honneth 2002, 83). Più da vicino, Honneth premette che la riattualizzazione del modello hegeliano deve includere due tesi «per così dire ‘forti’: anzitutto che il presupposto di uno sviluppo riuscito dell’Io è costituito da una determinata sequenza di forme di reciproco riconoscimento la cui mancanza, in secondo luogo, si comunica ai soggetti attraverso l’esperienza di uno spregio (Missachtung), che li sospinge a una lotta per il riconoscimento»; tesi che debbono appunto essere scorporate dal quadro metafisico originario: 

Entrambe le ipotesi restano legate alle premesse della tradizione metafisica, in quanto sono inserite nel quadro teleologico di una teoria evolutiva (daß sie in den teleologischen Rahmen einer Entwicklungstheorie eingespannt sind) per la quale il processo ontogenetico di formazione dell’identità trapassa nella costituzione della struttura sociale. (Honneth 2002, 86)

Honneth sottolinea quindi con insistenza il carattere teleologico del modello hegeliano nell’accezione riconducibile alla teoria politica di Aristotele secondo cui il fine, nel senso appunto del telos dell’uomo, è quello di realizzarsi nella comunità politica[3]; un piano certamente assai problematico quanto alla tematizzazione delle correlazioni tra piano psico-antropologico e socio-politico.

Tuttavia, oltre a questa accezione, lo schema hegeliano delle lotte per il riconoscimento è teleologico anche nel senso della dinamica immanente dello spirito sintetizzato dallo stesso Honneth nel primo brano sopra riportato; ed è su questo che vorrei concentrarmi. Nel modello hegeliano la successione preordinata e progressiva di forme, o meglio di «stadi» (Stufen) di riconoscimento intersoggettivo, conquistati gradualmente per via conflittuale a partire da una esperienze negativa di lesione, è intesa alla luce del modello dinamico di quella «progressiva soppressione del negativo», tale da condurre infine al telos predeterminato dell’«unità di universale e particolare», che è appunto strettamente teleologica. Honneth del resto insiste di continuo sul fatto che «la dinamica del riconoscimento posta alla base di un rapporto etico tra soggetti consiste in un processo di successivi stadi (Prozeß der einander ablösenden Stufen) di conciliazione e conflitto» (Honneth 2002, 27). Da questa prospettiva, la transizione hegeliana che dalla teoria politica aristotelica tradizionale giunge alla nuova teoria sociale intersoggettivistica deve essere considerata quale passaggio che da una teleologia della natura umana conduce a una teleologia delle lotte per il riconoscimento. Lo schema dinamico-progressivo degli stadi preordinati del riconoscimento intersoggettivo è a sua volta teleologico: segue una dinamica che ha un inizio e dei fini predeterminati.

Allorché Honneth si adopera per attualizzare il modello hegeliano scorporandolo dalla metafisica dello spirito entro il quale era stato plasmato, mi pare però concentrarsi esclusivamente sul tentativo di fornire delle prove «empiriche», scientifiche allo schema dei differenti stadi raggiunti per via conflittuale[4], senza problematizzarne adeguatamente la dinamica teleologica strutturale. Di fatto, la struttura teleologica di matrice hegeliana viene riadottata, seppur appunto parzialmente attualizzata empiricamente, conducendo così una serie di problemi teorici sistematici difficilmente superabili. Mi limito a segnalarne uno doppio che credo particolarmente evidente, direttamente correlato al fatto che lo schema dello sviluppo progressivo presuppone un inizio negativo, una sorta di punto zero, da cui sembrerebbe innescarsi una dinamica propulsiva, discontinua ma ininterrotta, tale da inibire o persino escludere movimenti regressivi di ampia portata.

 

2. Spregio, affetti e regressi

Il punto di avvio delle lotte per il riconoscimento è quello che Hegel individua nei termini di una «lesione» delle relazioni etiche (cfr., p. es., Honneth 1992, 28-29), e che Honneth, riprendendo la psicologia sociale di Mead, traduce nei termini di spregio (Missachtung): «L’esperienza dello spregio è così ancorata al vissuto affettivo dei soggetti umani da dar loro la spinta motivazionale all’opposizione e al conflitto sociale, cioè a una lotta per il riconoscimento» (Honneth 2002, 159). Sarebbe questo il motore affettivo che innesca il processo progressivo-teleologico delle lotte per il riconoscimento. Tuttavia, l’unilateralità di tale schema teleologico, che presuppone sempre uno stadio negativo iniziale da cui si innesca un processo progressivo, emerge non appena si consideri il fatto che esclude a priori la possibilità che alcune lotte sociali interpretabili in chiave di una lotta morale per il riconoscimento (tralasciando quindi il caso delle lotte mosse da “interessi”)[5] possano essere innescate da esperienze morali e politiche dal carattere positivo. Viceversa, sul piano storico-empirico è difficile negare che movimenti e lotte sociali e politiche non siano mai state innescate e sostenute da affetti e sentimenti positivi, per esempio dalla speranza.

A ben vedere, si può del resto problematizzare anche lo schema mediante il quale Honneth (riprendendo Dewey) attribuisce una sorta di priorità teorica e temporale alla dimensione affettiva rispetto a quella cognitiva: si può sostenere – in modo assai schematico – che la percezione di determinate esperienze di spregio da parte di determinati attori sociali, in tutta una serie di casi (non tutti), possa e debba essere ricondotta al fatto che essi abbiano preliminarmente adottato una visione politico-morale innovativa, tale per cui una serie di esperienze che fino ad allora non erano considerate di spregio morale da quel momento vengono interpretate da questa nuova prospettiva[6]. In questi casi, si deve allora invertire l’ordine stabilito da Honneth secondo cui si dovrebbe sempre partire dai sentimenti negativi, per giungere al piano cognitivo: nei casi suddetti, sembra si debba invece partire dal piano cognitivo di una determinata visione positiva, per poi eventualmente transitare al piano emotivo-affettivo, che a sua volta può essere sia negativo sia positivo. In breve, il rigido schema teleologico neo-hegeliano che presuppone sempre uno sviluppo preordinato che dal negativo procede progressivamente verso il positivo, e nella fattispecie verso delle mete perlomeno formalmente predeterminate, mostra qui un tasso piuttosto alto di arbitrarietà e di unilateralità: riduce lo spettro ermeneutico, deformandolo.

Si tratta del resto del rilancio di una filosofia della storia neo-hegeliana in senso stretto, come emerge ove Honneth, discutendo l’idea di fondo di Hegel e Mead secondo cui «la forza morale che determina gli sviluppi e i progressi (Entwicklungen und Fortschritte) nella concreta vita sociale dell’uomo è quella che viene espressa da una lotta per il riconoscimento», rimarca: 

Per dare una configurazione teorica sostenibile a un’idea così impegnativa, che a volte dà l’impressione di possedere una valenza di filosofia della storia (mitunter geschichtsphilosophische anmutenden Idee), bisognerebbe fornire la dimostrazione empirica del fatto che l’esperienza dello spregio è il punto di partenza cognitivo, ma collegato alla sfera affettiva, dell’opposizione sociale e delle rivolte collettive. (Honneth 2002, 169)

Dimostrazione che Honneth ritiene di poter fornire, senza però appunto problematizzare la struttura interna della dinamica teleologica ereditata dal modello hegeliano, che fa sentire il suo peso anche rispetto all’effetto propulsivo-progressivo attribuito alle esperienze morali dello spregio. Insistendo sui potenziali emancipatori di tali esperienze, Honneth riduce infatti piuttosto drasticamente lo spazio accordato alla dimensione delle interpretazioni politico-culturali di queste esperienze stesse. Certo si richiama ripetutamente alla necessità di «tradurre» queste esperienze mediante un lessico «politico-morale», tale per cui il «torto» subito possa innescare una dinamica conflittuale emancipatoria (cfr., p. es., Honneth 1992, 166, 192 ss.). Tuttavia, così come lo schema hegeliano induce a escludere a priori la possibilità che i movimenti sociali e politici possano nascere anche da visioni, esperienze e affetti positivi, questo stesso schema teleologico conduce a trascurare sistematicamente (seppur non a escludere) il fatto che le esperienze morali di spregio e gli affetti negativi correlati spesso non conducano affatto a innescare delle dinamiche emancipatorie. Sul piano empirico, o se si preferisce fenomenologico, avviene però assai di frequente precisamente il contrario: offese e umiliazioni possono condurre non a innescare movimenti di lotta, ma piuttosto a generare o ad esacerbare stati di sottomissione[7]. Da questa prospettiva, il piano della «traduzione» politica, o come preferirei dire della interpretazione e attribuzione di un senso morale determinato a particolari esperienze e vissuti, viene allora a dipendere in larghissima parte dal contesto politico-culturale storico di riferimento. In tal senso, bisognerebbe allora operare in direzione di una de-teleologizzazione dello schema neo-hegeliano, proporzionale all’innalzamento del tasso di politicità e storicità delle analisi socio-politiche proposte. Una prospettiva che credo permetterebbe di cogliere e tematizzare più adeguatamente tutti quei processi storici di tipo regressivo di larga portata e durata riscontrabili non solo rispetto alle differenti epoche dell’umanità, ma anche all’interno del corso della modernità, e che qui in Occidente negli ultimi decenni sono divenuti invero piuttosto appariscenti.

Tale difficoltà sistematica inerente alla tematizzazione di processi regressivi di ampio respiro sul piano politico-sociale (che corre parallela al piano analitico delle regressioni psico-individuali) risulta dunque determinata dalla dinamica teleologica intrinseca allo schema neo-hegeliano rilanciato da Honneth: le regressioni contraddicono lo schema di uno sviluppo progressivo più o meno discontinuo ma pressoché inarrestabile. La difficoltà pertiene dunque alla teleologia neo-hegeliana dal punto di vista dinamico, non a quello assiologico inerente al fatto che «per distinguere, nelle lotte storiche, tra motivi progressivi e regressivi (zwischen vorwärtsweisenden und rückschrittlichen) è necessario un criterio normativo (eines normativen Maßstabe) che consenta di tracciare una direzione di sviluppo sulla base del riferimento ipotetico a un’approssimativa condizione finale (Endzustand)» (Honneth 2002, 198). Un tale criterio normativo di valutazione è difatti necessario anche per poter definire e individuare quegli stessi processi per l’appunto regressivi tali da mettere in discussione la teleologia neo-hegeliana dal punto di vista dinamico. Più in generale, posta la necessità di ampliare in senso politico-morale il framework etico-normativo di riferimento, diviene cruciale anche la questione delle modalità politiche inerenti non solo alla definizione, ma alla scelta di specifici criteri normativi. Data la pluralità delle opzioni etico-politiche date storicamente, si tratta in breve di contemplare anche il piano delle prese di posizione da parte dei critici sociali. Una scelta motivata e deliberata, pertinente a una altrettanta consapevole configurazione normativa di una data «condizione finale», quindi alla volontà politica di perseguire un certo modello di società e non un altro. Scelte e opzioni morali, etiche e politiche da inscrivere entro un quadro di possibilità alternative e radicalmente conflittuali, mai risolvibili nella ricostruzione apparentemente neutrale di un criterio normativo immanente a una teleologia della storia in senso stretto, come sembra invece avvenire ne Il diritto della libertà. 

 

3. Geschichtsteleologie

Il tasso di teleologia della storia presente nell’impianto della nuova teoria critica aumenta esponenzialmente con la radicalizzazione della svolta neo-hegeliana rappresentata dall’adozione sistematica del metodo della ricostruzione normativa avviata ne Il dolore dell’indeterminato (cfr. Honneth 2001, 104 ss.) e sancita ne Il diritto della libertà. Questa nuova strategia concettuale oltrepassa infatti in modo evidente due dei limiti strutturali che Honneth aveva delineato a chiare lettere in Lotta per il riconoscimento in relazione all’hegelismo.

1) Il primo limite concerne i testi di riferimento: Honneth aveva rimarcato la «profonda cesura» rappresentata dall’affermarsi della filosofia della coscienza varata in modo sistematico nella Fenomenologia dello spirito, e si era pertanto limitato agli scritti jenesi. Già nella Realphilosophie emergeva del resto «al posto dei rapporti intersoggettivi subentrano di regola le relazioni tra un soggetto e i suoi momenti di alienazione. In breve, l’etica è diventata una figura dello spirito che si viene perfezionando monologicamente e non rappresenta più una forma particolarmente esigente di intersoggettività» (Honneth 2002, 76). Oltre la soglia della Fenomenologia, la concezione hegeliana si rivela così non più fruibile per l’attualizzazione perseguita da Honneth, poiché alla lotta per il riconoscimento viene assegnata «la sola funzione di contribuire al formarsi dell’autocoscienza» (Honneth 2002, 78).

2) Il secondo limite pertiene alle istituzioni; in Lotta per il riconoscimento leggiamo infatti che qui «si intende recuperare il suo modello originario di una lotta per il riconoscimento rimanendo all’interno di una prospettiva di teoria sociale normativa senza con questo voler formulare una teoria normativa delle istituzioni» (Honneth 2002, 84); Honneth inseriva quindi una nota in cui spiegava tale esclusione: 

Intendo così la prospettiva assunta da Ludwig Siep nella sua eccellente ricostruzione della teoria del riconoscimento contenuta negli scritti jenesi di Hegel: Siep, Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie, cit. Siep è convinto che come criterio del riconoscimento completo possa servire una sorta di ‘genesi normativa’ della formazione delle istituzioni sociali: in riferimento al ‘quadro valutativo’, tracciato dal principio di riconoscimento che Hegel esplicita teleologicamente (teleologisch explizierte Prinzip der Anerkennung), si può giudicare ricostruttivamente (rekonstruktiv beurteilen) se alle istituzioni realizzate storicamente attenga una funzione necessaria e in tal senso legittima nel quadro del processo di formazione della specie umana (ivi, pp. 259 sgg). Di questo proposito condivido l’idea di intendere la teoria hegeliana del riconoscimento, peraltro solo dopo la sua completa trasformazione entro un quadro postmetafisico, come una teoria della condizione necessaria della socializzazione umana. Tuttavia, ritengo sbagliato voler trarre direttamente da ciò un criterio normativo di valutazione delle istituzioni (daraus allerdings direkt einen normativen Maßstab der Beurteilung von Institutionen ableiten zu wollen, halte ich deswegen für falsch), poiché per principio non siamo in grado di conoscere la forma istituzionale che può assumere l’attuazione di determinate, necessarie modalità di riconoscimento. (Honneth 2002, 219-220, n. 2; trad. mod.)

Abbandonare queste riserve per adottare una metodologia che intende appunto ricostruire in modo immanente i criteri della normatività, includendovi la formazione delle istituzioni sociali, significa dunque misurarsi direttamente con la spiegazione «teleologica» della dinamica del principio del riconoscimento[8]; più precisamente, con quella che Honneth stesso definisce quale teleologia della storia. L’ancoraggio diretto della normatività alla storia rappresenta del resto il pilastro del metodo ricostruttivo, quindi la leva che permetterebbe di superare il costruttivismo di Habermas e di Rawls: «Riallacciandosi a Hegel, si evita di anteporre a un’analisi con un approccio immanentistico il passaggio di una fondazione autonoma e costruttivistica delle norme di giustizia; questo ulteriore passaggio giustificativo si rivela superfluo se, chiarendo il significato dei valori dominanti, si è già in grado di mostrare che essi sono normativamente superiori agli ideali di società o agli ultimate values storicamente precedenti» (Honneth 2011, XXXIX); un tale approccio ha però l’onere di farsi carico di una visione teleologica: 

Questo procedimento immanente finisce di nuovo per ricorrere a un elemento di pensiero storico-teleologico (ein Element geschichtsteleologischen Denkens); ma questo tipo di teleologia della storia (Geschichtsteleologie) è inevitabile proprio nella misura in cui viene presupposto anche da altre teorie della giustizia che partono ad una congruenza tra la ragione pratica e la società esistente. (Honneth 2011, XXXIX)

Questo richiamo alla teleologia della storia sembra a sua volta rimandare a due piani convergenti ma differenti, come del resto già avveniva nell’interpretazione della teleologia hegeliana presentata in Lotta per il riconoscimento. 1) Per un verso, la concezione normativa è intesa come «teleologica» in un senso assiologico per cui viene posto una sorta di parametro ultimo: deve essere possibile disporre di criteri che permettano di valutare il grado relativo di moralità delle istituzioni storiche in gioco, disponendole quindi lungo una linea di sviluppo progressivo ascendente. È in questo senso che determinati valori e ideali possono essere considerati «normativamente superiori» a quelli «storicamente precedenti»; ed è in questo senso lato che si può forse sostenere che vi sia una certa affinità rispetto alla «congruenza» habermasiana. 2) La concezione ricostruttiva qui presentata, però, ricorre ad una «teleologia della storia» anche nel senso stretto, ereditato inevitabilmente da Hegel, tale per cui viene presupposta una dinamica di sviluppo della normatività immanente al divenire storico che ha un certo telos. Si tratta della medesima dinamica teleologica adottata rispetto allo schema di sviluppo delle lotte per il riconoscimento; posto che sono sempre queste lotte, a monte, a rappresentare il motore dello sviluppo progressivo della normatività, e posto che anche in questo caso Honneth mira a una attualizzazione del modello sul piano storico-empirico, senza nel contempo problematizzarne la struttura finalistica interna (così come mi pare accadesse di fatto al profilo dell’attualizzazione dell’impianto hegeliano abbozzato in chiusura da Ludwig Siep)[9]. È pertanto su questo piano che si riscontrano le maggiori difficoltà metodologiche a tematizzare processi regressivi di ampio respiro, come avviene per esempio nell’analisi del «regresso del movimento delle cooperative dei consumatori» (Honneth 2011, 289), allorché leggiamo che «per il tentativo di una ricostruzione normativa delle forme mediate dal mercato assunte dalla libertà sociale coincide quasi con la confessione di un fallimento definitivo» (Honneth 2011, 293).

Rispetto alle due accezioni della teleologia in gioco, si tratta certo di due piani correlati: la teleologia dinamica ha una meta, se si preferisce un telos; meta che fornisce nel contempo il parametro di riferimento del criterio valutativo, quindi di taglio assiologico, per valutare retrospettivamente progressi e regressi storici. Tuttavia, la sfida rappresentata dalla strategia immanentista neo-hegeliana della ricostruzione normativa poggia interamente sul piano dello sviluppo storico della normatività nel primo senso: quello della teleologia dinamica, non assiologica (che poi quest’ultima letteralmente potrebbe essere considerata una prospettiva non «teleologica», ma appunto semplicemente assiologica); ché altrimenti si tratterebbe semplicemente di un criterio in definitiva esterno, sovrapposto al divenire storico, come avviene appunto negli approcci costruttivisti. Viceversa, l’approccio hegeliano rilanciato da Honneth dovrebbe avere il pregio di lavorare su quanto è già operante nella storia. Del resto, il metodo ricostruttivo neo-hegeliano non può non essere teleologico anzitutto in questo senso: 

[Hegel] non intende affatto l’esposizione dell’ordine etico come una ‘costruzione’, ma come una ‘ricostruzione’, non come la delineazione di un ideale, ma come il ricalco di rapporti storicamente sussistenti. Le istituzioni che devono servire ai soggetti come tappe (als Stationen) della libertà sociale non vengono progettate da Hegel al tavolo da disegno delle idealizzazioni teoriche; al contrario, come abbiamo già visto con la sua determinazione degli scopi generali, egli intende distillarle, per così dire, dalla realtà storica cercando di identificare e illustrare, guidato dal filo conduttore del suo concetto di libertà, quelle strutture istituzionali che corrispondono il più possibile alle aspettative. Naturalmente, in questo procedimento metodico adottato da Hegel, assume un certo rilievo la concezione teleologica (die teleologische Vorstellung) secondo cui in ogni presente ci troviamo sempre in un punto più avanzato di un processo storico nel quale viene realizzata gradualmente la libertà razionale; Hegel, cioè, può essere tanto sicuro che nella società del suo tempo si possano ritrovare istituzioni che danno spazio e sostegno alla forma sociale, ossia evoluta, della libertà, solo perché è convinto di questo progresso nella storia (von einem solchen Fortschritt in der Geschichte). Poi, però, di tale fiducia nella storia rimane una traccia abbastanza vistosa anche quando essa viene privata dei suoi fondamenti metafisici e deve fare a meno di una teleologia oggettiva (objektive Teleologie); infatti, in queste mutate condizioni la fiducia di Hegel significa solo che nella conservazione vitale delle istituzioni si riflette la convinzione dei membri della società di appartenere a una realtà sociale che, in confronto con il passato, merita un energico sostegno. In questo senso ancora soltanto ‘trascendentale’ Hegel può assumere come indicatore di una consapevolezza universale del progresso nella storia il fatto che le strutture istituzionali da lui ritenute incarnazioni della libertà siano riempite di ‘vita’. (Honneth 2011, 69)

Con questo passaggio che dalla teleologia oggettiva metafisica in senso stretto transita ad una teleologia “trascendentale” tale da relativizzare la concezione del progresso storico alla percezione che ne hanno gli attori sociali, Honneth cerca quindi di salvare la dinamica immanente teleologico-progressiva della sua impostazione ricostruttiva svincolandosi dalle ipoteche metafisiche tradizionali. Si àncora chiaramente a Kant, come si evince dal rimando in nota a un suo precedente saggio intitolato L’irriducibilità del progresso; così com’è sempre a Kant che si àncora quando, in un altro passaggio de Il diritto della libertà, scrive che «la fusione della rappresentazione della giustizia con l’idea di autonomia costituisce una conquista irrevocabile della modernità, che può essere revocata solo al prezzo di un imbarbarimento cognitivo; e là dove una simile regressione avviene effettivamente, suscita un’indignazione morale ‘negli animi di tutti gli spettatori (che sono coinvolti essi stessi in questo gioco’» (Honneth 2011, 9); per poi sottolineare: «Con questa prospettiva teleologica che costituisce un inevitabile elemento dell’autocomprensione della modernità, la realtà di fatto fin qui delineata perde il suo carattere storico-contingente» (Honneth 2011, 9).

Avremmo quindi a che fare con una teleologia della storia tale da polverizzare la dimensione storico-contingente, ma nel contempo in grado di superare la «teleologia oggettiva» hegeliana grazie a un ripresa dell’idea kantiana di una consapevolezza universale del progresso di stampo trascendentale, interpretata quale teleologia nei termini di una «costruzione» degli attori, come veniva spiegato ne L’irriducibilità del progresso

I traguardi morali devono essere concepiti come la risultante del lavoro prodotto da sforzi umani federativi. Kant come Hegel suppone ci sia una teleologia alla direzione del progresso (eine Teleologie des gerichteten Fortschritt); al contrario di Hegel, non la consegna però all’anonimato di un processo nel quale si dispiegano le forze dello spirito. Kant considera la teleologia una sorta di costruzione che i soggetti agendo riproducono e che serve loro per raggiungere una matura consapevolezza – nel senso di un rischiaramento – su quanto i loro progetti di vita siano situati storicamente. (Honneth 2006, 45)

Qui Honneth insiste quindi su quella filosofia della storia, peraltro marginale in Kant, nella quale il progresso viene a configurarsi nei termini di «impegno» e «auto-rassicurazione»: 

Lo schema teleologico, che Kant in precedenza aveva dovuto sostenere ricorrendo all’espediente dell’intenzionalità della natura, ora diventa il principio organizzativo del racconto storico, un racconto che cerca forme di auto-rassicurazione del progresso della ragione illuministica, politicamente guidata. (Honneth 2006, 37)

È precisamente a quest’ultima accezione della teleologia della storia kantiana che Honneth si richiama ne Il diritto della libertà, tentando ora di inserirla nel modello ricostruttivo neo-hegeliano. Tuttavia, posto che tale tentativo piuttosto ardito di ibridazione possa avere effettivamente una buona riuscita, il carattere teleologico della filosofia della storia adottata diviene cristallino anche dal punto di vista della fiducia (illuministica) riposta in un progresso inarrestabile. Nel saggio su Kant, infatti, Honneth chiariva che «nella versione meno ortodossa della filosofia kantiana della storia prende forma il dispiegarsi di un avanzamento storico verso il meglio, possibile però tramite processi di apprendimento, che possono sempre essere interrotti, spesso usando violenza, ma che non potranno mai essere del tutto fermati» (Honneth 2006, 45).

Ora, richiamarsi e cercare di attualizzare una concezione secondo cui la storia mostrerebbe dei processi progressivi la cui serie non potrà mai essere fermata, dunque inarrestabili, aggrava ulteriormente la difficoltà del modello neo-hegeliano di tematizzare processi storici regressivi di ampio respiro. La tesi kantiana che vi siano delle «soglie di progresso politico-morale»[10] sostanzialmente irreversibili, viene difatti a riflettersi, seppur in un modo che Honneth non tematizza in modo sistematico, nella tesi richiamata sopra secondo cui la modernità avrebbe raggiunto delle «conquiste irrevocabili […] se non al prezzo di un imbarbarimento cognitivo», come leggiamo ne Il diritto della libertà. Una affermazione invero non molto chiara che, anche solo di fronte alla storia del Novecento, non può comunque non rivelarsi che una mera petizione di principio. Non solo, infatti, abbiamo visto che ciò che chiamiamo progresso può ben essere interpretato come una sola catastrofe ma, più prosaicamente, si potrebbe sottolineare che l’impostazione teleologica neo-hegeliana – restringendo la visuale alle dinamiche immanenti di uno sviluppo che, nonostante dichiari di fare a meno dello Spirito, viene presupposto come fondamentalmente progressivo e, seppur discontinuo, in un certo senso quasi irrevocabile e inarrestabile – genera un effetto di de-politicizzazione del ruolo della critica sociale. Effetto che, a dispetto degli intenti programmatici dichiarati, sembra determinare uno scollamento piuttosto significativo della nuova teoria critica dall’analisi della realtà sociale, considerata dal punto di vista delle dinamiche etico-politiche del suo sviluppo storico, cioè contingenti.


* Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa
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Note al testo
[1] Sull’affinità dell’impostazione anti-economicistica e nel contempo nella valorizzazione della dimensione morale e culturale delle lotte sociali tra Honneth e Gramsci, nonostante le divergenze quanto alla tematizzazione della dimensione politica e quindi delle questioni correlate all’egemonia, mi permetto di rimandare a Solinas 2010a e 2010b.
[2] Ho cercato di sottolineare la rilevanza della dimensione del posizionamento politico del critico sociale nel quadro della tematizzazione delle forme della critica interna, esterna e immanente in Solinas (2015; 2017b).
[3] Vedi, p. es., Honneth (1992, 17): «Dalla teoria politica classica di Aristotele fino al diritto naturale cristiano del Medioevo l’uomo era stato concepito fondamentalmente come un essere comunitario, uno zoon politikon che realizza la propria intima natura entro la cornice sociale di una collettività politica […]. A partire da una simile concezione teleologica dell’uomo (von einer solchen teleologischen) la dottrina politica»; Honneth (1992, 38): «Al posto della teleologia naturale aristotelica (Naturteleologie), che trapelava ancora dal Sistema dell’eticità, subentra progressivamente una teoria filosofica della conoscenza».
[4] Vedi, p. es., Honneth (1992, 86): «Per il tentativo di ricollegarsi oggi, sulla base di premesse teoriche mutate, al modello concettuale hegeliano, questo complesso di affermazioni difficilmente districabili e fortemente speculative rappresenta la sfida più impegnativa; essa può essere affermata solo se le singole ipotesi vengono sottoposte a verifica separatamente: allora ci si dovrà chiedere, anzitutto, se l’ipotesi hegeliana di una sequenza direzionata di stadi del riconoscimento possa reggere di fronte a obiezioni empiriche; se alle diverse forme di riconoscimento reciproco si possono far corrispondere in negativo altrettante esperienze di spregio; infine, se si possano trovare prove storico-sociologiche a sostengo dell’ipotesi che queste forme di spregio siano effettivamente la fonte motivazionale degli antagonismi sociali».
[5] L’impostazione verrà poi radicalizzata, come emerge ad esempio quando Honneth, nel dibattito con Fraser, rimarcherà: «Un’esperienza morale che può essere significativamente descritta come quella dello ‘spregio’ (Missachtung) deve essere considerata come la base motivazionale di tutte le lotte sociali (als die Motivationale Basis aller soziale Kämpfe)» (Honneth 2003, 191).
[6] Per una critica del modello della relazione tra dimensione emotiva e cognitiva adottato da Honneth sulla scia di Dewey vedi Thompson (2006); ho cercato di contribuire alla discussione in Solinas (2016).
[7] Questo tema delle reazione regressive alle esperienze di spregio, anche in relazione al framework elaborato da Honneth, è un tema che ho provato ad analizzare e a sviluppare in diverse occasioni e da prospettive differenti; ho provato a sottolinearne la rilevanza in Solinas (2010b; 2014; 2017a).
[8] Sull’interpretazione della genesi normativa vedi Siep (1979, 59): «I principi della filosofia pratica non sono per Hegel regole o procedimenti formali che potrebbero essere formulati in modo del tutto indipendente dall’esposizione delle istituzioni e della loro genesi storica. Per Hegel, anzi, i principi sono essi stessi ‘genesi’, cioè processi di sviluppo di significato. Questi processo sono immanenti allo sviluppo e alla trasformazione delle istituzioni, le quali incarnano principi, cioè sono da questi determinate»; sul suo senso teleologico vedi p. es. Siep (1979, 280 ss.): «lo sviluppo teleologico del riconoscimento può venir compreso anche come un prevenire a sé dello spirito nella storia e, da questo punto di vista, determinare la successione delle istituzioni storiche […]. Genesi ‘storica’ delle istituzioni significa esposizione della loro collocazione necessaria, esattamente determinata, nel processo del pervenire a sé dello spirito nella storia».
[9] Vedi Siep (1979, 308 ss.), ovvero il paragrafo conclusivo del volume intitolato «Filosofia pratica senza teleologia», ove tra le altre cose leggiamo: «Cosa resta se si è soprattutto scettici di fronte al concetto di una struttura teleologica dello spirito, concetto sul quale è essenzialmente basata l’unità di esposizione e critica? […]. Si può, senza la premessa teleologica, tenere ancora ferma una concezione dei principi nel senso della genesi storica del significato, senza cadere nello storicismo e nel relativismo? Per quel che mi riguarda, penso sia possibile sviluppare un ‘programma’ analogo a quello della filosofia jenese di Hegel anche partendo da presupposti essenzialmente più deboli – e, in modo corrispondente, da pretese di teoria della conoscenza minori. A tal fine è necessario collegare tra loro alcuni principi della filosofia e delle scienze sociali contemporanee», il che equivale in larga parte al metodo della prova e traduzione «empirica» seguito da Honneth; vedi anche Siep (1979, 311). Siep è forse ancora più netto di Honneth al riguardo del ruolo della teleologia, vedi l’Introduzione all’edizione italiana (Siep 2007, 47): «Il secondo punto critico riguarda un’altra delle eredità metafisiche di Hegel: il suo forte concetto di teleologia, che egli, verso la seconda metà del periodo jenese, assume dalla tradizione stoica e aristotelica […]. L’agire diventa una mera realizzazione di scopi che sono già prescritti dalla ragione oggettiva della storia e delle istituzioni […]. La storia viene tradotta così nel dispiegamento di ciò che già da sempre è posto in essa – una storia che quindi nei suoi fondamenti cognitivi, istituzionali e normativi sembrava, ai tempi di Hegel, già essere arrivata a realizzazione»; poste tali premesse, la conclusione di Siep è simile a quella che trae da ultimo Honneth: «Chi oggi vuole proseguire sulla stessa via sistematica di Hegel deve comprendere la storia dell’esperienza dello spirito come processo aperto dell’apprendimento storico-culturale, che tuttavia nei suoi stimoli centrali può essere irreversibile».
[10] Vedi sempre Honneth (2006, 45): «gli accadimenti storici che mettono in evidenza il raggiungimento di una certa soglia di progresso politico-morale stabiliscono per l’intero pubblico un livello di giustificazione che può essere disatteso e disprezzato solamente al prezzo di una compromissione pubblica».

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