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Paradossi del mondo attuale: l’impraticabilità dei trattati globali nell’era della mondializzazione

di Gianfranco Greco

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“Immagino l’economia mondiale come qualcosa
di simile a un’auto in corsa senza
conducente e bloccata su una corsia lenta.”

(David Stockton, ex burocrate della FED)

Stando alle considerazioni di Stockton è giocoforza ritenere come la narrazione propinata a suo tempo al mondo tutto non abbia retto alla verifica dei fatti; dal che consegue che la mitica spinta propulsiva della globalizzazione pare essersi già esaurita. Destino infame quello delle “spinte propulsive” destinate – come ogni cosa terrena, d’altronde – all’usura del tempo.

Erano di tutt’altro avviso tuttavia, a suo tempo, gli apologeti della New Economy per i quali la progressiva abolizione delle barriere commerciali, la crescente mobilità internazionale dei capitali, la liberalizzazione del mercato del lavoro, in una: le politiche di deregolamentazione, liberalizzazione e privatizzazione si sarebbero tradotte in una progressiva integrazione economica tra paesi, unitamente all’ineludibile corollario di una crescita senza fine a livello globale . Una visione ottimistica e semplificante prendeva il posto della complessità irriducibile delle cose.

A onor del vero, già nel 2009, il politologo statunitense Robert Kagan – tra le altre cose, cofondatore del “Progetto per un nuovo secolo americano” - aveva un po’ stemperato i facili entusiasmi col dare alle stampe un libro dal titolo vagamente (?) profetico: “Il ritorno della storia e la fine dei sogni.”

Evidentemente la “narrazione” non convinceva proprio tutti e gli scricchiolii del “migliore dei mondi possibili” inducevano a più avvedute riconsiderazioni.

Ora, ben lungi dall’ impelagarci in disquisizioni su punti di caduta o su parabole declinanti , riteniamo sia più consono all’economia della trattazione stigmatizzare le sconsiderate giravolte dei vari organismi internazionali e segnatamente le esplicite ammissioni del FMI che in un recente convegno ha dovuto convenire – obtorto collo - come “ La fede nella globalizzazione è oramai a disagio di fronte alle evidenti disparità che crea.” con relativo rimando sia alla Brexit inglese come anche all ‘ “America first” , cavallo di battaglia elettorale del tycoon newyorchese Donald Trump.

Insomma, non c’è che dire: l’integrazione economica tra paesi e l’immancabile crescita, più nei voti che negli obiettivi raggiunti, veleggiano che è una meraviglia. Un solo dato è, di per sé, sufficiente, a dimostrarlo: il PIL mondiale che, fino al 2010 cresceva del 5% annuo, si è oramai attestato da anni intorno al 3%.

Robert Gordon del CEPR (Centre for Economic Policy Research) stando a quanto riportato da “Il Sole 24 ore” ha espressamente dichiarato che:” Il solo invecchiamento della popolazione, le diseguaglianze e l’eccesso di debito pubblico ridurranno la crescita economica globale dal 2% medio annuo registrato tra il 1891 e il 2007, allo 0,9% fino al 2032.”1

E’ questo piano di realtà che dovrebbe indurre tanti a riflettere sullo stato delle cose anziché trastullarsi con l’interrogativo se questa bassa crescita economica sia momentanea oppure dovuta a fattori permanenti e quindi strutturale.

Non ci sono sfere di cristallo da perscrutare. C’è solo da indagare, con serietà, sulle magagne del sistema capitalistico e, a tal uopo, le argomentazioni sviluppate da Lorenzo Procopio sono più che esaustive:” Questa crisi è globale soprattutto per il fatto che le cause che la determinano sono originariamente da ricercare nelle contraddizioni dell’intero sistema capitalistico mondiale e l’immediato manifestarsi dei suoi effetti su un terreno internazionale è solo la necessaria conseguenza dell’operare delle contraddizioni globali del capitalismo. Nel moderno capitalismo non esiste angolo del mondo che sia al riparo dalla crisi economica e dalla devastazione della guerra permanente.”2

E’ fuor di dubbio infatti come questa crescita anemica rimandi, proprio per l’operare di dette insanabili contraddizioni, all’inoppugnabile concetto di crisi. E’ veramente ozioso oltre che patetico interrogarsi sulla temporaneità di un qualcosa che, seppure a denti stretti, viene configurata, oramai come dato definitivamente acquisito: la cosiddetta “stagnazione secolare”.

Tutt’altra cosa, quindi, rispetto agli irrilevanti scricchiolii o alle trascurabili turbolenze a cui fa riferimento qualche spirito ameno, dando credito al quale non dovremmo prendere per buoni alcuni indicatori che segnalano, in maniera inequivocabile, come la fatidica “spinta propulsiva” stia vivendo una fase crepuscolare.

Allo stesso modo verrebbe da chiedersi per quale arcano le banche centrali perdurino con il Quantitative Easing - con ricaduta, occorre dire, sulle attività produttive prossima allo zero - e com’è che, in tal senso, la sola Bank of Japan abbia potuto/dovuto stampare moneta per un ammontare pari al 60% del PIL del Giappone.

Ma, in via del tutto retorica, tanti altri interrogativi sarebbero da porre e tutti finirebbero per offrire come risposta un quadro documentale inquietante.

Stiamo assistendo infatti, in questa per tanti versi inedita fase dell’economia capitalistica mondiale, a pratiche sempre più vampiresche portate avanti in aree dove è possibile delocalizzare ulteriormente. C’è chi la definisce “delocalizzazione della delocalizzazione “ o anche “delocalizzazione verso il basso” intendendo con questo che da aree come la Cina o la stessa India, - definite da sempre fabbriche del mondo e con un costo della forza-lavoro assai più basso rispetto all’Occidente – ingenti masse di capitali prendano la via per migrare in altre aree dove il costo del lavoro è ancora più schiacciato. Una corsa frenetica, un vero e proprio delirio che ha come risultato l’impoverimento senza fine di miliardi di persone.

Le cifre di un fallimento parlano di una povertà sempre più diffusa, di insicurezza lavorativa, di salari sempre più in discesa, di progressivo smantellamento dei sistemi di protezione sociale e, di converso, una concentrazione sempre più parossistica della ricchezza in pochissime mani.

Al dunque sarebbero queste le meraviglie che la globalizzazione avrebbe dovuto ammannire all’ intero mondo?

Non può destare pertanto scandalo se a livello mondiale si comincia a percepire già da tempo una certa avversione nei confronti della globalizzazione, accompagnata da una domanda di minor integrazione e più barriere commerciali, ciò che fa dire a Luis Kuijs della Oxford Economics Hong Kong:” La rappresaglia contro la globalizzazione si manifesta in sentimenti nazionalisti accentuati, sfiducia per il mondo esterno e desiderio di maggiore isolamento protezionistico. .. Se perdiamo consensi sulla nostra idea del mondo che vorremmo strutturare, il mondo sarà probabilmente peggiore.”3

Forse l’eccessiva modestia lo penalizza impedendogli di riconoscere che rappresentanti di un certo mondo – al quale lui beninteso appartiene – hanno contribuito fattivamente a questo peggioramento.

 

Il TPP

Nel tratteggiare questo importante argomento limiteremo la nostra disamina ai due più importanti trattati essendo tale rilevanza data dalla dimensione dei principali attori globali coinvolti, ossia gli Stati Uniti, la Cina e la Russia con l’Unione Europea che mantiene un profilo un po’ più attenuato data la sua sostanziale incompiutezza. I trattati in questione – già firmati o in via di definizione - vedono attivamente coinvolta la potenza più rilevante, vale a dire gli Stati Uniti, accostare i quali a quei frequentatori di casinò, capaci di giocare contemporaneamente su più tavoli, viene sempre più facile. Nella fattispecie, le puntate riguardano il TTIP (Transatlantic trade and investment partnership) che regola i rapporti tra USA ed Unione Europea ed il TPP (Trans-Pacific partnership agreement) con accordi che riguardano l’area Asia/Pacifico.

L’afasia che oramai pervade la globalizzazione fa assumere valenza ancor maggiore a questi trattati, a livello economico ma ancor più a livello geo-strategico e ne consegue come ad andare in scena attualmente vi sia una contrapposizione per il controllo di zone d’influenza da mantenere e da espandere in contrasto con altri paesi ed allo scopo di affermare in maniera univoca gli interessi dei propri gruppi dominanti, siano essi economici, politici o militari. Tale contrasto si traduce in una sorte di “conventio ad excludendum” ovverosia in una intesa tra alcuni paesi che non ammette forme di partecipazione, coopera zione o alleanze con altri paesi.

La crisi del sistema capitalistico porta essa stessa all’esasperazione dello scontro e, facendo riferimento alle dinamiche attuali e segnatamente agli scopi ultimi del TPP, stiamo assistendo ad una iniziativa ad ampio spettro, da parte dell’ex potenza unipolare, tesa a legare insieme paesi delle due sponde del Pacifico attraverso l’abbassamento di alcune tariffe doganali e l’armonizzazione di regole inerenti il settore terziario. Sarebbe questo, sinteticamente, l’aspetto sostanziale del TPP che, però, ad occhi ben più attenti mostra come questa nuova grande alleanza ha tra gli obiettivi prioritari quello di emarginare il gigante asiatico per eccellenza, la Cina, e come quel verbo “legare” altro non voglia dire che legare agli Stati Uniti, subordinandoli, gli altri paesi aderenti. E’ talmente molto chiaro il tutto che, come riportato in un articolo di Romano Prodi: “ In una lettera di accompagnamento alla conclusione del progetto il presidente Obama scrive che l’accordo sottoscritto costituirà la base perché gli Stati Uniti possano dettare le regole del commercio internazionale per tutto il ventunesimo secolo. Espressione che non può piacere a tutti. Il fatto sostanziale è che il mondo è cambiato e gli interessi si sono complicati e i portatori di interessi contraddittori ma concentrati hanno sempre più voce nella politica dei diversi paesi”4.

Insomma, al professore non difetta di certo la chiarezza ed il riferimento ai processi di concentrazione dimostra che sa di cosa parla.

D’altronde le attuali trattative relative al TPP come al TTIP rivelano proprio quale sia la portata nonché gli obiettivi dello scontro imperialistico a cui si faceva cenno poiché se il TTIP è parte integrante di una strategia USA che mira primariamente al contenimento della “locomotiva del mondo” , ebbene tale strategia non può non accompagnarsi al TPP che ha il precipuo scopo di colpire la Cina in quello che potremmo definire il proprio “lebensraum” ovvero, spazio vitale.

Se l”american dream” è evaporato, ha perso consistenza anche un primato che gli Stati Uniti hanno detenuto per quasi tutto il ventesimo secolo ossia quello di essere la prima potenza commerciale a livello mondiale tant’è che fino ai primi anni del 2000 rappresentavano il principale partner commerciale di oltre 120 paesi nel mentre la Cina era attestata intorno ai 70. Dopo all’incirca un solo decennio la situazione si è completamente rovesciata.

Fine di un sogno, quindi, che è legato indissolubilmente alla crisi strutturale del sistema e segnatamente al fatto che il saggio del profitto, già sul finire degli anni ’70, era diminuito di oltre il 50%, cosa che, d’altra parte, riguardava anche le altre economie con la ricchezza netta più grande al mondo. Recuperare quindi margini di profittabilità voleva significare privilegiare la strada della speculazione ma soprattutto decentrare la produzione in aree periferiche laddove il costo della forza-lavoro era assai più basso.

E qui interviene una precisazione più che doverosa: Sempre a proposito del decentramento della produzione Luciano Gallino scrive: “ Questo aspetto tocca la questione della competitività. Spesso si presenta la competitività dei cinesi o degli indiani come se fosse derivata dalla loro straordinaria abilità di far crescere le proprie industrie. In realtà, si tratta di una competitività costruita in gran parte da noi, l’hanno cioè costruita le imprese ed i governi dell’Unione europea e degli Stati Uniti, autorizzando, sollecitando, aiutando il trasferimento della produzione di beni e servizi, comprese le relative tecnologie, nei cosiddetti paesi emergenti. La loro emersione – ripeto – è stata aiutata, facilitata, in gran parte pagata dagli investimenti delle “corporations” americane ed europee.”5

Conseguenza di tutto ciò è che gli Stati Uniti sono stati in gran parte de-industrializzati in quanto sono scomparsi interi settori industriali quali, tra i tanti, l’auto, l’industria siderurgica, la cantieristica ed al posto dei quali troneggia adesso quella “cintura della ruggine (rust belt) che interessa stati come la Pennsylvania, il Michigan, il West Virginia, l’Ohio. Settori trasferiti in altri paesi tra cui la cosiddetta “Repubblica popolare cinese” che mediante l’apposita creazione delle “Zone economiche speciali” ha saputo/potuto attrarre investimenti stranieri diventando nel volgere di qualche decennio “fabbrica del mondo” e di conseguenza una potenza economica, politica, militare. E’ come trovarsi di fronte ad una riedizione del “Frankenstein” di Mary Shelley laddove la creatura/mostro si rivolge, come da copione, contro il suo creatore esigendo, tra l’altro, come nel caso cinese, un’ampia sfera di agibilità.

E’ proprio all’interno di questa ampia dinamica che va inserito l’attuale contrapposizione USA-Cina , all’interno della quale va a collocarsi il trattato TPP firmato nel 2015 ed al quale aderiscono vari paesi del Sud-Est asiatico.

Occorre dire che nei rivolgimenti che stanno caratterizzando questi ultimi tempi c’è in gioco, per primo, la riconfigurazione di un nuovo ordine mondiale che si manifesta, da un lato, con una pressione, da parte dei paesi emergenti, volta alla creazione di una realtà multipolare e, dall’altro, con un arroccarsi della potenza globale più rilevante, gli Stati Uniti, ben decisi ad impedire tutto ciò.. Quello che sta andando in scena – per quel che segnatamente attiene la Cina - è il senso inverato di un progetto connotato da pericolosa concretezza che privilegia ciò che accettabile non è più. E’ esercizio veramente stucchevole – tenuto conto dello scontro interimperialistico in atto - tacciare di temerarietà una potenza globale che mette in discussione uno “status quo” che le sta irrimediabilmente stretto e che vede, per esempio, limitandoci a considerare la sola bilancia commerciale, gli Stati Uniti importare dalla Cina beni per oltre 400 miliardi di dollari intanto che ne esportano in Cina all’incirca 100. E volendo ampliare ancor di più l’analisi dovremmo chiederci per quale motivo una tale cristallizzazione dei ruoli dovrebbe reiterarsi all’infinito se il 30% del debt held by pubblic” (l’insieme dei titoli in possesso degli investitori esteri) è per metà in mano al Giappone ed alla Cina e se, come scrive Luigi Pandolfi sul Manifesto “ Negli ultimi cinque anni gli investimenti diretti cinesi in società americane si sono più che triplicati. Circa 70 miliardi di dollari solo dall’inizio di quest’anno.”6? Uno scenario sempre più instabile ed insicuro che tende innegabilmente ad infittirsi se volgiamo l’attenzione alla “Nuova Via della Seta” , un piano, per meglio dire, che ha come obiettivo l’ integrazione dell’ economia euroasiatica , col precipuo scopo di affrancarla dal controllo finanziario e commerciale americano ed è in tale ottica che va sempre meglio affinandosi la capacità di Pechino di fornire prestiti non solo a paesi dell’area Asia/Pacifico bensì a tutto il mondo in alternativa proprio a quel FMI, uno dei tanti centri di potere a livello mondiale che meglio simboleggiano l’attuale preminenza americana. Se la storia a volte inclina verso il paradosso, ebbene il caso cinese forse è quello che meglio si attaglia all’assunto appena esposto: dislocazione delle produzioni da parte dei paesi industrializzati che ha come esito finale un accumulo di miliardi di riserve grazie agli attivi commerciali, i cosiddetti “surplus” che gli eredi del “Celeste Impero” stanno ormai da tempo investendo, in larga parte, nell’acquisizione di porti, aeroporti ed aziende occidentali, in attività di “land grabbing” in Africa come anche in Ucraina, e come, con lo sguardo volto ad un futuro neanche tanto lontano, proprio per neutralizzare alcuni effetti del TPP – più nel dettaglio gli atteggiamenti revanchisti di diversi paesi costieri che gravitano sul Mar della Cina - hanno fatto un primo tentativo di creare una rotta di circumnavigazione polare che renda sicuro il traffico di cargo dalla Cina al Mar Baltico ed al Mare del Nord. In questo progetto la Russia dovrebbe garantire le navi rompighiaccio.

Ed è proprio questa nuova cooperazione sino-russa – vero nervo scoperto - che sta giocando un ruolo fondamentale nel processo di ri-orientamento della politica geo-strategica americana in Asia, meglio nota come “Pivot to Asia”, ossia “perno in Asia”.

Una cooperazione che ha più di un motivo per preoccupare l’establishment statunitense con l’interessare settori strategici come il petrolio, il gas, le risorse minerali, il settore aerospaziale, quello nucleare, la tecnologia militare, gli investimenti. Non ultimo, si va ulteriormente rafforzare l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai che, tradotto in termini più intelleggibili, sta a significare dare maggiore impulso al processo di affrancazione di entrambe le economie dal signoraggio del dollaro.

Che non si tratti di una semplice enunciazione di principio lo rivela il fatto che nel 2017/2018 allorquando sarà operante il gasdotto “Power of Siberia” con relativa fornitura trentennale di gas dalla Russia alla Cina, secondo stime della Goldman Sachs dal mercato cominceranno ad evaporare decine di miliardi di petrodollari. Il quadro che va enucleandosi ha, comprensibilmente, indotto Washington, a tutela della propria libertà di muoversi nella regione Asia/Pacifico, ad infoltire la proria presenza militare in quest’area nel pieno rispetto di “ un piano che prevede di schierare, a ridosso di Cina e Russia, anche navi e basi antimissile Aegis analoghe a quelle schierate in Europa. Quindi la strategia USA/Nato in Europa contro la Russia si salda a quella attuata dagli USA contro la Cina e la Russia nella regione Asia/Pacifico.”7

Strategia ad ampio spettro quindi che trova consistenza non solo in questi riposizionamenti a carattere militare ma che cerca di dispiegare tutta la deterrenza di cui è capace soprattutto in ambito commerciale e valutario. I trattati di libero scambio rientrano interamente in questa logica e sono posti in essere per impedire a tutti i costi la de-dollarizzazione del commercio mondiale e, in aggiunta, che la moneta cinese, lo yuan, possa acquisire lo status di riserva globale.

Pertanto i due trattati in questione, il TPP ed il TTIP, oltre a costituire due poderosi veicoli di dominio del capitalismo multinazionale e della grande finanza che va ad esercitarsi sugli stati che vi aderiscono, svolgono la precipua funzione di antemurale di contenimento sia all’avanzamento economico cinese che al ripristino di una nuova dimensione internazionale della Russia.

D’altro canto la struttura portante della dottrina di Zbigniew Brzezinski era – a suo tempo - incentrata proprio su un assioma che negava perentoriamente potesse esservi un competitore in grado di rivaleggiare con la potenza americana. E questa perentorietà racchiudeva una sua logica in quanto l’occhio lungo del politologo statunitense aveva ben presente il pericolo che il baricentro potesse spostarsi verso oriente. Un oriente, occorre ribadirlo, dove il computo non è racchiuso nel duo sino-russo oppure nella sola ricchezza energetica. Un oriente fatto di considerevoli scambi commerciali e monetari dove” l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai” rappresenta il volano di un progetto di cooperazione economica, energetica e militare al quale hanno aderito, tra gli altri, l’India, il Pakistan, l’Iran.

Stiamo quindi parlando di un’area assai estesa che dalla Bielorussia arriva fino alla penisola di Kamchakta e d’importanza assai rilevante sia da un punto di vista energetico che produttivo e – fattore non secondario – demografico.

I timori di Brzezinski erano più che fondati tanto che sulla rivista bimestrale “Counterpunch” in data 25 agosto è apparsa un’intervista al politologo/geostratega americano nella quale sembra voglia far ammenda delle sue precedenti esternazioni circa la ineluttabilità della “supremazia imperiale degli USA” per acconciarsi ad un più sano realismo laddove richiede espressamente la creazione di legami con la Russia e la Cina in quanto “ finita la loro epoca di dominio globale, gli Stati Uniti devono prendere l’iniziativa per riallineare l’architettura del potere globale.”8

Ed a seguire enumera una serie di elementi che hanno determinato la significativa inversione del suo angolo visuale: cioè a dire quel rafforzamento dei legami economici, politici e militari ai quali pocanzi si è fatto cenno ma in particolar modo la preoccupazione, ben sintetizzata dall’intervistatore, Mike Whitney, “per i pericoli di un sistema, non basato sul dollaro, che sta nascendo tra i paesi emergenti e i non allineati, che dovrebbe sostituire l’oligopolio della Banca Centrale occidentale. Se ciò accadrà, allora gli Stati Uniti perderanno la loro morsa sull’economia globale e il sistema di estorsione, nel quale i biglietti verdi vengono scambiati per beni e servizi di valore, sarà giunto al termine.”9

Si è preferito, nel nostro articolo, sorvolare sugli aspetti tecnici relativi a questi trattati in quanto riteniamo che il loro impatto è tutto interno alle attuali dinamiche interimperialistiche attuali ma in special modo in quelle in via di enucleazione.

In tal senso emerge compiutamente l’iniziativa degli Stati Uniti volta, attraverso il TPP ed il TTIP, ma anche attraverso altri trattati quali il CETA o il TISA, a fungere da polo di attrazione di un conglomerato a guida ovviamente statunitense in grado di neutralizzare o di attutire gli effetti dirompenti di uno schema a cui i paesi del cosiddetto Occidente usano fatica a far fronte. Uno schema a forte caratterizzazione cinese che si basa su un network finanziario e di investimenti – lungo tutta la “Via della Seta” - a supporto del quale operano la già citata Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, la Banca dei paesi BRICS, l’Asian Infrastructure Investment Bank, l’Unione Economica Euroasiatica.

Due piccole annotazioni segnalano come Washington seguisse già da tempo con un malcelato nervosismo la progressiva metamorfosi di questo schema in termini fattuali. Per primo vi è il fatto che paesi come il Tajikistan, l’Uzbekistan, il Kirghisistan ed il Kazakistan una volta terminata la guerra afghana hanno sollecitato sbrigativamente gli Stati Uniti a lasciare il loro territorio a cui va aggiunto il dato che gli Stati Uniti medesimi abbiano fatto richiesta di essere ammessi alla Organizzazione per la cooperazione di Shanghai in qualità di semplici “osservatori” e come tale richiesta sia stata respinta per mancanza di una frontiera comune. Non può, per di più, sfuggire che tutto ciò va ad aggiungersi alla esistenza di un reticolo militare ed economico incentrato su Cina, Russia ed India, che dovrebbe quanto prima allargarsi alla repubblica teocratica iraniana, il che, tradotto in cifre, significa far riferimento a circa tre miliardi di persone ma , più nel dettaglio, rimanda a tre potenze nucleari, alle immense materie prime possedute dalla Russia, alla poderosa struttura industriale cinese non disgiunta dalle sue rilevanti riserve valutarie. L’aspetto più profondamente rivelatore di questa nuova realtà nonché di una nuova consapevolezza rispetto agli accadimenti riferibili ad alcune aree strategicamente rilevanti è data da alcuni articoli apparsi sulla stampa cinese nei quali si rimarca sempre più come il tanto decantato principio di non interferenza finora seguito (almeno a parole) non possa più accordarsi con lo status di potenza globale della Cina. In tal senso il settimanale “Nanfang Zhoumo” , come scrive Andrea Pira:” ha messo i conflitti in Medio Oriente in relazione ai rischi per le strategie di sviluppo commerciale lungo la Via della Seta. Il ritiro dall’Iraq e lo spostamento dell’asse di interesse USA sulla regione dell’Asia-Pacifico sono stati “irresponsabili” perché hanno innescato un circolo vizioso impossibile da controllare.”10

Nella politica estera cinese, alle corte, si potrebbe aprire una fase che vede maggiormente coinvolta Pechino lungo l’arco di crisi mediorientale, laddove le maggiori potenze si stanno confrontando per via delle risorse energetiche e degli oleodotti e gasdotti ad esse inerenti ma soprattutto per il ruolo sempre più crescente del Mediterraneo grazie al raddoppio del Canale di Suez. Essere significativamente presenti in quest’area costituisce un tutt’uno con il controllo di notevoli flussi di merci.

Volendo tirare le fila dell’intero discorso e tenuto conto del colossale processo sinergico posto in essere col rendere operativi entro il 2018 i gasdotti “Power of Siberia” e “Altai” che porteranno il gas dal cuore dell’Eurasia alla Cina e non solo, ne consegue che il ruolo dell’Europa nei confronti della Russia e della Cina potrebbe risultare notevolmente ridimensionato. Ma c’è di più. Col realizzarsi di queste ipotesi, almeno stando a quanto scrive l’economista Guido Salerno Aletta entro 5-10 anni nell’area in questione si potrebbe assistere al rimpiazzo dell’euro ed alla completa de-dollarizzazione dei mercati.

Col che lo scontro con la potenza americana sarebbe inevitabile.

 

Il TTIP

Che trattati di libero scambio come il TPP, il NAFTA o il TTIP, di cui gli Stati Uniti sono stati i principali promotori, costituiscano gli strumenti per mezzo dei quali il regime di libero scambio trova pratica attuazione è dato di fatto incontestabile ma è pure di solare evidenza come questi trattati posseggano una valenza che va ben al di là del semplice trattato commerciale ed in quest’ottica si riesce a desumere come il TPP - operando la “conventio ad excludendum” anticinese – altro non sia se non un mezzo di contenimento della politica espansiva della Cina.

In tal senso e specularmente il TTIP andrebbe - il condizionale è d’obbligo data la sua morte più che apparente – a costituire un trattato fortemente antirusso ma in grado, allo stesso tempo, di creare un blocco politico, economico e militare imperniato su una più stretta alleanza USA –UE e , come tale, più che idoneo a contrapporsi all’analogo progetto di cooperazione avviato nell’area euroasiatica da Cina e Russia ed incentrato su un allargamento che vede coinvolti i paesi Brics e l’Iran.

Il carattere antirusso dell’accordo se non espressamente dichiarato è quantomeno percettibile e rimanda all’obiettivo da raggiungere ad ogni costo: realizzare una frattura tra la Russia e l’Unione Europea.

Ed a tal proposito i mezzi di pressione per dirimere i contrasti di interesse tra Washington e alcune potenze europee legate dia proficui rapporti di affari con Mosca, sono stati – more solito – tra i più spregiudicatamente efficaci: si va dalla Maidan e relativa crisi ucraina alla pressione migratoria provocata dalle innumerevoli “missioni di pace” a cui gli States hanno sempre fornito un fattivo contributo /(vedi Libia, Iraq, Siria).

Anche per il TTIP quindi, ben al di là del mero carattere commerciale, a valere sono essenziali ragioni geostrategiche. D’altra parte è lo stesso U.S. National Intelligence Council che, mettendo insieme il declino dell’Occidente e l’avanzamento dell’Asia, considera certo entro il 2030 il sorpasso dei paesi in via di sviluppo sui paesi sviluppati rendendo con ciò imprescindibile il rafforzamento dell’alleanza transatlantica attraverso la creazione di una “Nato economica”. Giustappunto il TTIP.

Accade ora tutto questo, e accade in quanto la contrapposizione imperialistica si fa sempre più serrata, motivo per cui non è un trascurabile dettaglio se” Il TTIP punta a realizzare una zona di libero scambio riguardante 800 milioni di persone e corrispondente a circa la metà del PIL e un terzo del commercio mondiale. Ora come ora USA e UE hanno un forte grado di interdipendenza economica. In particolare l’UE con oltre 500 milioni di abitanti e un reddito medio annuo pro capite di 25.000 euro è la più importante economia mondiale e il più grande importatore di manufatti e servizi con maggior volume di investimenti esteri diretti (IDE) mondiali. Inoltre l’UE è il principale investitore negli USA e il principale mercato per le esportazioni statunitensi di servizi. Complessivamente gli investimenti in UE assommano a 2.000 miliardi di euro e coprono il 50% degli investimenti USA all’estero, mentre quelli dell’UE negli USA superano i 1.600 miliardi.”11

L’eliminazione delle barriere tariffarie e quindi la realizzazione del TTIP, consentirebbe, in virtù dei dati sopra esposti un incremento in entrambi i sensi delle esportazioni. Tuttavia, mentre quelle europee aumenterebbero del 2% quelle statunitensi lucrerebbero un più cospicuo 6% grazie anche al contributo del “Buy American Act “ del 1933 di rooseveltiana memoria.

Spiegare meglio quello che accade, indagando a fondo le problematiche che vengono scientemente disattese in quanto deve essere rappresentato un copione che è stato già scritto, vuol dire fare emergere le incongruenze, le falsità, le stolidezze che costituiscono la cortina fumogena in grado di far accettare soprattutto all’opinione pubblica un accordo, degli accordi che sono fatti su misura per corrispondere agli enormi interessi delle multinazionali e delle lobbies di entrambe le sponde dell’Atlantico.

Ma allora, a livello sociale - dando ipoteticamente per scontati gli incrementi delle esportazioni a cui fa riferimento l’Istituto Affari Internazionali – le mirabilie tanto decantate da personale appositamente prezzolato in che cosa si concretizzerebbero?

Che il TTIP rappresenti una più che adeguata concrezione del neo-liberismo dilagante è fuori discussione come lo è altrettanto il fatto che con questo trattato i cosiddetti “diritti” delle imprese vengono assai prima non solo dei diritti delle persone ma anche di quelli degli stati nazionali.

Non solo. La Bertelsmann Foundation stima che con l’introduzione del TTIP si avrà un calo del commercio intra-UE tra il 20 e il 40% con ricadute più che negative su circa 22 milioni di piccole e medie imprese europee. Scrive al riguardo Alberto Zoratti:” Ciò che sta avvenendo al di qua e al di là dell’Atlantico è che ci si organizza con campagne STOP TTIP sempre più forti e interi settori economici che cominciano a prendere parola per chiedere di bloccare il negoziato. Solo in Germania sono oltre duemila le piccole e medie imprese - che hanno un mercato di sbocco nazionale o al limite europeo e che vedrebbero prosciugare buona parte delle loro opportunità di vendita – che si sono dichiarate contro il trattato transatlantico.”12

A ciò bisogna poi aggiungere una nota di colore, una delle tante gags di un “simpatico di carriera” come l’ex prime-minister inglese, David Cameron, secondo cui il TTIP avrebbe prodotto, tra Europa e Stati Uniti, 2 milioni di nuovi posti di lavoro.

Questa corbelleria è datata nel 2013. Ebbene la Commissione Europea avviò in tutta segretezza una sua indagine dalla quale si deduceva che “l’impatto occupazionale della cancellazione delle barriere tariffarie e dei regolamenti previsti nel TTIP avrebbe prodotto una catastrofe: i paesi dell’Unione Europea avrebbero perso 680 mila posti di lavoro mentre gli Stati Uniti solo 325 mila.”13

Vien da pensare che Cameron abbia voluto cimentarsi in una gara con l’allora presidente USA, Clinton, a chi la sparava più grossa. Sì, perché nel 1993 allorquando venne varato il NAFTA (Accordo tra Stati Uniti, Canada e Messico) Clinton assicurò che il trattato in questione avrebbe portato con sé 20 milioni di nuovi posti di lavoro. L’Economic Policy Institute attraverso una sua propria analisi svolta, sempre nel fatidico 2013, è stato in grado di provare come il NAFTA, per quel che riguardava la sola economia americana, avesse già provocato la distruzione netta di 900 mila posti di lavoro.

Che grigiore in questo mondo se venissero a mancare gli umoristi …!

 

Avversione sempre più diffusa contro i trattati

E’ dentro questa cornice dalle sfaccettature sempre più opache ed inquietanti che va a situarsi una montante ostilità verso questi trattati. Ostilità che ha una origine primaria proprio nella stessa ragion d’essere del paradigma neo-liberista di cui questi trattati altro non sono se non un portato. Si tratta infatti di “ mettere le persone in concorrenza tra loro per vedere chi riesce a offrire alle imprese globali i salari e i costi sociali e ambientali più convenienti. I loro posti di lavoro vengono trasferiti in aree dove salari, paghe e tasse sono inferiori e la libertà di inquinare maggiore. I datori di lavoro brandiscono la minaccia della “concorrenza estera” per tenere basse le retribuzioni, le tasse e le misure di tutela ambientale e sostituire posti di lavoro ad alta qualificazione con posti a tempo determinato, part-time, precari e di basso livello professionale.”14

Un peggioramento quindi delle condizioni lavorative, sociali e ambientali a livello globale che delineano quella che ormai viene definita una “corsa verso il fondo” i cui tratti salienti rimandano a processi di una sempre più dilagante pauperizzazione che oramai non risparmia alcun angolo di mondo.

C’è poco da stupirsi quindi se a fronte di una crisi sistemica del capitalismo globale assistiamo a ondate di rabbia anti-establishment che potrebbero in futuro trasformarsi in determinazioni sempre più decise e sempre meno circoscrivibili. A manifestarsi per il momento vi è un certo disagio, nei confronti del libero scambio, che emerge sotto forma di opposizione sociale, nei confronti dei trattati globali. Una opposizione sociale che interessa l’Unione Europea come gli Stati Uniti, il Cile come il Messico.

Dovunque a rischio c’è la sostenibilità sociale e ambientale poiché, se limitiamo – per il momento – l’indagine al solo TTIP, a fronte dell’abbattimento di barriere, normative e regolamenti che disciplinano molteplici settori , l’Unione Europea vedrebbe un aumento del proprio PIL dello 0,5%, a decorrere però dal 2027. Aumento molto teorico in quanto analisti un tantino più scettici prevedono per la sola UE una perdita secca di oltre 600 mila posti di lavoro.

Non suscita, allo stesso modo, maggiori entusiasmi l’altro trattato globale, il TPP, se consideriamo il fatto che in uno dei dodici paesi firmatari dell’accordo, il Cile, si è addirittura costituita una “Piattaforma Cile Migliore senza TPP” . Più sinteticamente, un ente costituito da 130 organizzazioni sociali con lo scopo precipuo di contrastare la ratifica di questo trattato che, va ricordato, è stato firmato nel 2015 ma che per entrare in vigore occorre la ratifica dei parlamenti di almeno sei paesi sottoscrittori.

Se all’interno del TPP ad emergere in particolar modo sono i poteri concessi alle imprese transnazionali che possono citare in giudizio i singoli stati laddove esse ritengano siano danneggiati i loro investimenti, allora si comprende con chiarezza come la base giuridica delle decisioni prese dalle istituzioni di arbitrato – previste dal medesimo TPP – faccia riferimento alla esclusiva protezione degli investimenti.

Quindi se a connotare plasticamente il tutto è la funzionalità di questi trattati agli interessi delle grandi imprese transnazionali, allora si capiscono ancora meglio – prescindendo dai singoli trattati, siano essi il TTIP, il TPP o il NAFTA - i motivi per i quali interviene la cosiddetta giudiziarizzazione della protezione degli investimenti.

L’impresa francese di servizio pubblico Veolia cita in giudizio il governo egiziano perché questi ha avuto l’ardire di aumentare il salario minimo, adducendo come motivazione un aggravio dei costi lavorativi.

Non dissimile è il caso della Metalclad Corporation che ha denunciato lo stato messicano. In suo soccorso, com’è nella ragion d’essere del NAFTA, è intervenuto il tribunale arbitrale con relativa delibera contro il Messico per non avere concesso il permesso per la realizzazione di un progetto minerario in una certa area che il governo messicano intendeva destinare a Parco Nazionale.

Riconducibile sempre alla stessa problematica è il caso statunitense laddove tuttavia ha trovato adeguata espressione una certa componente schizofrenica . Stiamo parlando, per essere più chiari, del paese che più d’ogni altro ha voluto e sponsorizzato gli accordi in questione per ragioni commerciali certamente ma ancor di più per scopi geopolitici. Si trattava di ancorare a sé da un lato l’altra sponda dell’Atlantico e dall’altra paesi che gravitano nell’area Asia/Pacifico in funzione anticinese.

Ci si accorge però che, sempre gli Stati Uniti, che più conseguentemente hanno dato avvio ai processi di delocalizzazione con conseguente chiusura di impianti nel corso degli anni ottanta, hanno a che fare col problema della disoccupazione di massa nitidamente esemplificato dalla “Rust Belt” (fascia della ruggine, costituita da stati de-industrializzati quali il Wisconsin, Ohio, Illinois e altri ancora) all’interno della quale l’opposizione alla globalizzazione si fa sempre più intensa e dura. E ce n’è ben donde stando almeno a quanto denunciato da Joseph Stiglitz con riferimento al TPP:” Un accordo raggiunto per gestire relazioni commerciali e gli investimenti dei Paesi partner a beneficio delle più potenti lobbies di ciascun paese. Un accordo che regola tutto meno che il libero commercio.”15

Il TPP. Un accordo che è stato firmato, non ancora ratificato, con possibilità pressochè nulle di essere approvato, esplicitamente osteggiato da lavoratori, leader sindacali, economisti, ai quali si sono aggiunti i politici e segnatamente i candidati alle presidenziali americane.

Se nella piattaforma elettorale di Bernie Sanders si partiva, sì, dal ripristino della legge Glass-Steagall - la separazione delle attuali banche universali in banche commerciali da una parte e banche d’affari dall’altra - ebbene nella stessa era stata inclusa una mozione di opposizione al TPP in cui si argomentava come una “corsa verso il basso” fosse fatta passare per libero commercio. Un “libero commercio” in cui i lavoratori americani sono posti in concorrenza con quelli vietnamiti (65 centesimi all’ora) o addirittura con lavoratori in condizioni di schiavitù (vedi Malesia).

Il tema è stato poi ripreso da Donald Trump che lo ha sapientemente strumentalizzato pro domo sua risultando alfine vincitore delle elezioni presidenziali per il sol fatto di aver saputo veicolare il malcontento provocato da decenni di stagnazione economica.

Il dato di fondo su cui fare le opportune riflessioni è proprio questo. Si è fatto riferimento alla “ondata anti-establishment” che ha riguardato tanto la classe lavoratrice che la stessa classe media. Che ha riguardato tanto gli Stati Uniti quanto, ad esempio, l’ Austria laddove il candidato dell’estrema destra Hofer ha rischiato di vincere prevalendo proprio nei quartieri a preminente connotazione proletaria. Niente di inedito, occorre precisare, in quanto nella Germania hitleriana, nel periodo 1925-1933, la percentuale degli iscritti al Partito Nazista, tra operai non qualificati, qualificati e artigiani, superava il 50% mentre era bassissima tra gli imprenditori, alti funzionari ed impiegati. Mancando un solido riferimento di classe, le suggestioni o le contrapposizioni semplificanti hanno modo di esprimere tutto il loro nefasto potenziale.

In tal senso le stramberie in libertà, le enunciazioni le più vaghe propalate in campagna elettorale dal novello “dottor Stranamore” devono superare il vaglio di una realtà non più unipolare ed in cui la connessione a livello globale tra le varie economie è così estesa che proporre categorie come l’isolazionismo o il protezionismo può avere il solo scopo di creare illusioni, alimentare chimere irrealizzabili.

Proteggere l’economia nazionale finisce per rappresentare un non senso nell’epoca delle imprese globali, delle multinazionali, dei beni e servizi che vengono sempre più prodotti all’interno di reti globali o, per meglio dire, le differenti fasi di lavorazione vengono svolte in paesi diversi per cui è pratica assai diffusa che l’esportatore finale finisca per essere un semplice assemblatore.

Come si concilia tutto questo con la promessa di mettere dazi all’importazione del 35% sui prodotti messicani e del 45% su quelli cinesi resta tutto da capire a meno che non si voglia alimentare l’ingannevole automatismo che l’introduzione di nuove tariffe significhi che i posti di lavoro perduti a partire dagli anni ’80 saranno riportati negli USA.

In tale contesto, e tenuto conto che le nuove fabbriche USA saranno totalmente automatizzate, particolare rilievo assumono le possibili future dinamiche sino/americane, stante o meno il TPP, in quanto “A dichiarare una vera e propria guerra commerciale contro la Cina non è chiaro chi si farebbe più male. Secondo il Peterson Institute for International Economics una guerra commerciale con la Cina farebbe salire la disoccupazione al quasi 9% nel 2020 rispetto al 4,9 di oggi.”16 Doveroso a questo punto è rilevare come le incongruità che caratterizzano l’attuale fase capitalistica vadano sempre più radicalizzandosi nel mentre la conflittualità globale sotto forma di guerre commerciali, valutarie e guerre guerreggiate permanenti va ulteriormente ad esasperarsi insieme al riemergere di fenomeni come il razzismo e l’estremismo nazionalista.

Se a questo confortante quadretto aggiungiamo il dato che nei prossimi 10-20 anni il 50% delle professioni scompariranno o saranno automatizzate, con sconvolgenti ricadute in termini di disoccupazione e povertà sempre più diffuse, a diventare sempre maggiori sono le probabilità di una deriva verso la barbarie.


Note
1 Morya Longo: La grande “gelata” dell’economia mondiale – Il Sole 24 ore, 7 settembre 2016
2 Lorenzo Procopio: L’economia mondiale nel vortice della crisi – Istituto “Onorato Damen”, marzo 2016
3 Raul Ilargi Meijer: La globalizzazione è spacciata – theautomaticearth.com, 7 ottobre 2016
4 Romano Prodi: Nel mondo globale gli accordi globali sono diventati impossibili
– Il Messaggero 5 giugno 2016
5 Luciano Gallino: La lotta di classe dopo la lotta di classe – Editori Laterza
6 Luigi Pandolfi: Contro la Cina, le armi economiche di Trump sparano a salve. Il Manifesto 17 novembre 2016
7 Manlio Dinucci: Escalation USA contro la Cina – Il Manifesto 31 maggio 2016
8 Mike Whitney: Brzezinski rinuncia all’Impero americano – Counterpunch 25 agosto 2016
9 Idem
10 Andrea Pira: Colpiti interessi strategici specie in Medio Oriente. La stampa locale denuncia i rischi economici della “Jihad” anticinese – Il Manifesto 8 giugno 2016
11 Maurizio Brignoli: TTIP e TPPA, accerchiare la Cina e subordinare l’Europa – Euronews 16 gennaio 2016
12 Alberto Zoratti: Se i negoziati sono segreti e il mercato è “uber alles” – Il Manifesto 7 maggio 2016
13 Roberto Ciccarelli: Lavoro, la guerra dei numeri – Il Manifesto 7 maggio 2016
14 Jeremi Brecher , Tim Costello: Contro il capitale globale – Universale economica Feltrinelli
15 Marino de Medici: Non è tutto oro quello che riluce. Il TPP visto dagli USA
– Centro di ricerca e documentazione Luigi Einaudi 6 giugno 2016
16 Federica Bianchi: Trump piange in cinese – L’Espresso 5 dicembre 2016

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